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domenica 23 aprile 2023

Inquisitori e negromanti nella Sicilia «magica»

tratto da "Il Giornale del 3 Aprile 2022

Venivano chiamate così in Sicilia le donne che partecipavano ai Sabba per invocare il demonio. In realtà nell’isola erano diffuse antiche tradizioni magiche soprattutto curative e legate a erboristeria e alchimia.

Matteo Sacchi

Anno del Signore 1598, Margherita La Beita viene denunciata al Sant'Uffizio siciliano. I delatori sostengono di averla trovata, sola, in un giorno di tempesta, in riva al mare, mentre faceva una figura con alghe e immondizie portate a riva dalle onde. Avvicinatisi - curiosità, malizia, una vera caccia alla strega? Non lo sapremo mai - vedono che la donna ha un involto che contiene un'arancia piena di spine e con un chiodo in mezzo. Ma non solo: nel suo armamentario ci sono un coltello, una calamita, un pezzo di membrana amniotica di un neonato con delle scritte misteriose... A cosa servono le sue portentose masserizie magiche? A cercare tesori ed altro ancora. Il 22 di novembre del medesimo anno è condannata alla gogna e poi bandita da Palermo. Ad altri «stregoni» o eretici finiti in mano al Sant'Uffizio dell'Isola va ben peggio, il rogo è un esito minoritario ma non improbabile. Eppure le carte del terribile tribunale che la Monarchia spagnola lottò duramente per imporre alla Sicilia, adusa a rivendicare la sua autonomia, si sono trasformate in un vero tesoro per gli studiosi. Occhiuti, dotati di informatori e di appoggi potenti, gli inquisitori hanno raccolto, con metodi e scopi che oggi ci appaiono aberranti, una messe di materiale enorme che svela una cultura antichissima e tradizionale che nessuna altra fonte potrebbe svelare così bene.

Per rendersene conto niente di meglio di quella che è probabilmente l'opera più importante di Maria Sofia Messana (1948-2011): Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia moderna (1500-1782), appena ripubblicata per i tipi di Sellerio (pagg. 856, euro 24). La storica dell'Università di Palermo ha esaminato una mole di documenti enorme che le ha consentito di ricostruire una storia «magica» fatta di credenze antichissime che sono sopravvissute attraverso il Medioevo sino ad approdare all'Età Moderna. Ne esce una narrazione che svela un mondo parallelo su cui il conformismo religioso nato dal Concilio di Trento stenta a prendere il controllo. Si passa dai guaritori muniti di libri segreti, dalle tradizioni pagane rivisitate dagli stessi religiosi alle donne di fora, così dette perché si credeva che vagassero di notte in spirito recandosi ai sabba. Come? Grazie a certi unguenti che probabilmente contenevano sostanze psicotrope. Confessa una certa Antonia Pallalonga, processata nel 1600: «que se untase con cierto unguento... y evoco los demonios». A volte però si trattava di semplici medicamenti tradizionali e il Sant'Uffizio ebbe i suoi problemi quando si trovò a processare monache che li usavano non vedendoci nulla di male.

Abbastanza perché in molti casi i potenti della corte di Palermo si spaccassero in due. Non era solo questione di fede o di stregoneria, i processi erano questione di potere e gli stessi governatori spagnoli poco amavano l'autonomia del Sant'Uffizio. Così il saggio ci mostra consorterie contrapposte, enti religiosi, credulità popolari e credulità colte, divinazioni fatte leggendo fave che galleggiano nell'acqua e dotte discussioni in punta di diritto canonico. Il tutto con un impianto scientifico rigoroso, a tratti da storia quantitativa, ma dove la penna di Messana è sempre capace di unire il dato alla narrazione avvincente. Una Sicilia magica, che nemmeno gli autodafé seppero stroncare, raccontata magistralmente.



martedì 7 marzo 2023

“Alchimia semplificata” di René Schwaeblé con la prefazione di Sigfrido Höbel

“Scienza chimerica che cerca la Pietra Filosofale e la Panacea Universale”. Questa la spiegazione del termine “alchimia” per i dizionari di tutto il mondo. “I dizionari” chiarisce Sigfrido Höbel nella prefazione di “Alchimia semplificata” scritto da René Schwaeblé e pubblicato da Stamperia del Valentino, “dovrebbero quindi definire la medicina come scienza chimerica, che cerca di guarire i calli ai piedi”. Perché, secondo Höbel, in Alchimia la Pietra Filosofale non occupa più spazio di quanto non facciano i calli ai piedi in medicina. L’Alchimia è la scienza della vita, della vita nei tre regni: vegetale, animale e divino. “Essa” continua Höbel  “si propone di separare il principio attivo dalla materia inerte; è la metafisica della chimica organica e di quella inorganica, come l’Astrologia è la metafisica dell’Astronomia”. L’alchimia studia le cause e i principi, la legge universale ed eterna dell’evoluzione che “impercettibilmente muta il piombo in oro e perfeziona l’uomo”. Con il regno animale l’Alchimia diventa terapeutica; con il regno vegetale si fa agricoltura, si innesta, sogna di risorgere, di arrivare alla palingenesi; con il regno minerale diventa chimica, sogna di trasmutare metalli e metalloidi. Infine, “con il regno divino, l’Alchimia diventa ermeneutica, insegna a convertire il pane e il vino in Corpo e Sangue”.

L’Alchimia, in tempi relativamente recenti, ha subito una dolorosa diaspora, sconosciuta agli operatori classici almeno fino a tutto il Seicento. Una scissione in due anime parallele che sembrano inconciliabili, nonostante apparirebbe cosa acquisita che l’aspetto spirituale-speculativo (ben incarnato dalle discipline ermetiche) e la pratica di laboratorio siano tra esse complementari e funzionali ad un reciproco controllo di sana progressione nel cammino iniziatico dell’Operatore.

René Schwaeblé in questa sua opera sembra ricomporre in modo esemplare la diaspora, coniugando i due aspetti proprio in un periodo storico che vedeva maggiormente radicalizzato il divario. Forse è proprio questa la dichiarazione d’intenti che l’Autore ha inteso racchiudere in quel “Semplificata”, attributo che all’idea stessa di Alchimia potrebbe sembrare veramente estraneo.


L’autore

René Schwaeblé (Parigi, 13 marzo1873–1938) è stato uno scrittore francese autore di romanzi popolari, in particolare di genere noir, oltre ai popolari libri scientifico-esoterici.


La casa editrice

Editore dal 2002, Paolo Izzo, alter-ego della Stamperia del Valentino, gestisce con estremo rigore le scelte editoriali della sua “creatura”. Il risultato è un catalogo di alto profilo sia nell’ambito della cultura napoletana, che in quello della produzione di stampo umanistico, esoterico e storico.

La Stamperia del Valentino vuole riportare all’attenzione del pubblico la Napoli colta, folkloristica e letteraria. A tal proposito seleziona opere rivolte al curioso colto come allo studioso, con un occhio all’originalità e completezza dei temi proposti.

Titolo: Alchimia semplificata
Collana: I Polifemi
Autore:  René Schwaeblé
Prefazione:  S. E. F. Höbel
Prezzo: € 14,00
Pagine: 102
EAN: 9791280721242


La Collana

Il ciclope Polifemo - che sembra risiedesse nella napoletana isoletta di Nisida - dovette il suo nome alla propensione al “molto parlare”. Un chiacchierone, dunque, stando all’etimo greco polì-femì. Questa collana mutua dal mitico personaggio omerico l’interpretazione più nobile di quel nome, in - tendendo proporre libri piccoli (nei costi e nel formato) ma che “hanno molto da dire” e che quindi vale la pena di “ascoltare”.

Della stessa collana

Guarda il catalogo: www.stamperiadelvalentino.it




 

giovedì 15 dicembre 2022

ALLA SCOPERTA DEI MISTERI DI ROMA: IL LABORATORIO ALCHEMICO

tratto da "L'Opinione" del 16 settembre 2021

di Pierpaola Meledandri

Il Museo storico nazionale dell’arte sanitaria, noto comunemente come il Laboratorio alchemico, venne inaugurato nel 1933 e si trova all’interno del complesso ospedaliero di Santo Spirito in Sassia. Siffatta raccolta museale non è molto conosciuta perché ha un’ubicazione particolare ed è visitabile solo per appuntamento in alcuni giorni della settimana. Questa scarsa fruibilità rappresenta un limite notevole perché il museo costituisce un’importante testimonianza sulla storia della medicina. L’ospedale di Santo Spirito ha origini lontane; venne fondato, infatti, dal Papa Innocenzo III nel 1198 non solo con lo scopo di ricoverare e curare i malati ma anche come centro d’insegnamento dell’ars medica. Il museo si articola in diverse sale, la prima è la Sala Alessandrina che conserva una vasta biblioteca, alle pareti sono esposte 19 tavole anatomiche a stampa, colorate a mano, risalenti ai primi dell’Ottocento, raffiguranti le “viscere”, il sistema muscolare, l’arterioso, il venoso, il linfatico, l’apparato osseo, il cervello e il fegato. In fondo alla Sala campeggia una statua in gesso su un piedistallo in marmo, raffigura Esculapio l’antico dio greco della medicina.

Nella Sala Flajani vi è una raccolta di preparazioni anatomo-patologiche e di modelli in cera di organi, risalenti alla fine del XVIII secolo; rappresentano, soprattutto, alterazioni dei tessuti dovute a patologie come la sifilide e deformazioni prenatali. Nella Sala Capparoni, invece, vi è una collezione di Ex voto che vanno dal periodo etrusco-romano ad anni abbastanza recenti, oltre a suppellettili di farmacia del XVI-XVII secolo. Tra le curiosità presenti nella sala, una piccola Venere anatomica in avorio, con torace e ventre apribili per mostrare la posizione del feto. Particolarmente interessante è poi la Sala Carbonelli con un’esposizione di strumenti chirurgici (trapani per il cranio, seghe ortopediche, lancette da salasso) e di altri per l’oculistica e l’ostetricia, oltre a rari e preziosi microscopi del passato. Fra gli strumenti più singolari ricordiamo la “Siringa di Mauriceau”: un tubicino di gomma che si applicava a una siringa per introdurre acqua benedetta nella cavità uterina, per battezzare i feti che correvano il pericolo di soccombere durante il travaglio. In un’alta vetrina sono conservati due sistemi di conservazione veramente spettacolari: i preparati a secco del sistema nervoso centrale e periferico eseguiti da Luigi Raimondi nel 1844.

Infine, il Museo storico nazionale dell’arte sanitaria, espone un’antica Farmacia con pezzi provenienti dalle spezierie degli ospedali di Santo Spirito, di San Giacomo e di Santa Maria della Consolazione e il Laboratorio alchemico. Quest’ultimo è, sicuramente, la parte più intrigante del museo, anche per l’alone di mistero che vi grava. Dal soffitto pende, come se fosse un lampadario, un coccodrillo impagliato, mentre tra storte, alambicchi, mortai il visitatore avverte quasi l’ombra degli antichi alchimisti. A completare il quadro magico dell’ambiente, si staglia il calco della famosa porta ermetica voluta dal Marchese di Palombara, il cui l’originale si trova nei giardini di piazza Vittorio a Roma. I simboli alchemici, cabalistici e magici incisi sulla porta, dovrebbero rappresentare, secondo consolidate narrazioni, la formula per giungere alla realizzazione della pietra filosofale, atta a trasformare i vili metalli in oro. Quanto succintamente descritto, non è un caso isolato; in Italia, anche a San Leo, celebre per la rocca ove morì Cagliostro, vi è un interessante Museo con vari padiglioni, tra cui uno dedicato all’alchimia.

A Firenze, nel Museo della Specola e in altre celebri collezioni di stato sono esposti animali impagliati e cere anatomiche, oltre a una drammatica rappresentazione, sempre in cera, di un’epidemia di peste. È, nel suo genere, un capolavoro, dovuto allo Zumbo, che contende la palma dell’horror ai pezzi anatomici, “pietrificati”, con una tecnica rimasta segreta, da Girolamo Segato (1792-1836). Questi fu un cartografo, naturalista e egittologo, che partecipò a delle spedizioni nella terra delle Piramidi, dove avrebbe appreso le tecniche d’imbalsamazione. Avendo il Gran Duca di Toscana rifiutato di finanziare le sue ricerche, bruciò i propri appunti, portandosi nella tomba ogni segreto dei suoi studi. Le sue spoglie giacciono ora nella basilica di Santa Croce e una lapide commenta così la sua figura: “Qui giace disfatto Girolamo Segato, che vedrebbesi intero pietrificato, se l’arte sua non periva con lui. Fu gloria insolita dell’umana sapienza, esempio d’infelicità non insolito”.

Il Museo storico nazionale dell’arte sanitaria, tuttavia, rappresenta una realtà singolare e interessante che permette per valutare l’evoluzione storica all’ars medica, che per secoli e secoli, abbinò alla ricerca scientifica, precetti religiosi e considerazioni tratte da scenari che niente avevano da spartire con la medicina moderna.


 

sabato 29 maggio 2021

L'esoterismo cristiano degli antichi capolavori nordici

Tratto da "Il Giornale" del 2 Gennaio 2015

di Gianfranco De Turris


L'arte ermetica di Dalmazio Frau (Arkeios, pagg. 160, euro 18,50) non è certo il primo testo dedicato ai rapporti fra l'alchimia e la pittura (basti pensare ai fondamentali studi di Maurizio Fagiolo e Maurizio Calvesi), ma certamente possiede caratteristiche che altri non hanno. Intanto l'autore, che non è soltanto uno storico dell'arte, ma egli stesso pittore e illustratore, e che in più ha diffuse conoscenze su occulto, magia ed esoterismo, tanto da aver scritto diversi libri in merito. Caratteristiche che gli permettono di affrontare il tema in maniera approfondita tecnicamente e teoricamente. Inoltre il tema, che non è generico ma circoscritto riferendosi a quattro artisti fra il Quattrocento e il Cinquecento, in bilico tra fine del Medioevo e inizio del Rinascimento, ognuno rappresentato da una sua opera significativa. E tutti di area fiammingo-tedesca. Esattamente Bosch (Il Giardino delle Delizie), Van Eyck (L'adorazione dell'agnello mistico), Dürer (l'incisione Melancolia I), Brueghel (Il Trionfo della Morte).

Frau parte dalla vita dell'artista, poi inquadra la sua pittura in generale e infine effettua una minuziosa analisi dell'opera scelta a rappresentarlo. Analisi che è su vari piani: estetico-pittorico, simbolico, ermetico-alchemico, magico-occulto, religioso. Non sono trascurati altri riferimenti che man mano s'incontrano nei particolari pittorici: quello storico, quello antropologico e culturale, e anche quello dell'importanza della committenza, secondo le recenti tendenze della critica d'arte.

Il risultato è un affresco approfondito e in certe occasioni del tutto impensato, che inquadra i quattro capolavori nel loro tempo e in una visione molto particolare dell'arte nel XV e XVI secolo, appunto quella ermetica.

Bosch, Van Eyck, Dürer e Brueghel sono per l'autore tutti rappresentanti di un esoterismo cristiano che spesso si opponeva alla Riforma luterana, esponenti di un modo d'intendere l'opera dell'artista come espressione di un impegno non soltanto culturale ed estetico, quanto soprattutto religioso e sacro, come ben sottolinea Claudio Lanzi nella sua introduzione al libro. Essi vivevano in un tempo terribile, segnato da guerre e pestilenze, da soperchierie e violenze di ogni genere che traspaiono dai loro dipinti, specie quelli di Bosch e Brueghel. Un'epoca apocalittica in ogni senso, dove si pensava che fosse veramente vicina la «fine del mondo». Essendo però edotti della scienza ermetica inserivano nelle loro opere una miriade di elementi esoterici che Frau mette in evidenza, spesso con importanti excursus di approfondimento: notevole quello dedicato alla Danza Macabra e/o Caccia Selvaggia, tema poco noto in Italia, ma fondamentale per capire lo spirito di quel tempo tremendo. Oppure quello sul senso della Morte e la sua rappresentazione non solo in pittura, ma anche nella letteratura coeva. I quattro artisti e le quattro opere, peraltro notissime, coprono un arco di meno di un secolo e quindi illustrano in modo compatto l'atmosfera di quei tempi nel Nord Europa, con molti riferimenti e raffronti con la pittura italiana contemporanea a loro, che si indirizzava su versanti diversi, anche se quasi tutti i quattro effettuarono viaggi in Italia considerata allora terra d'arte per eccellenza.

Un saggio, piacevole e ben scritto, dotto ma non pedante, che conduce il lettore curioso o solo di arte o solo di esoterismo in territori poco esplorati ma affascinanti.


sabato 2 gennaio 2021

Alchimia, fenici e calderoni: la magia svela i suoi segreti per i 20 anni di Harry Potter

Tratto da "Il Giornale" del 19/10/2017

A Londra manoscritti e oggetti raccontano la storia degli incantesimi: al centro, la pietra filosofale

Eleonora Barbieri

Ci sono anche una scopa - «vera» - di una strega; una sirena che, secondo le cronache, sarebbe stata catturata in Giappone nel Settecento; un calderone (prestato dal British Museum); una sfera di cristallo nera; una delle prime testimonianze scritte della formula «abracadabra», utilizzata come antidoto alla malaria.

La storia della magia è in mostra a Londra, alla British Library, a due passi dalla stazione di King's Cross e dal binario 9 e tre quarti. Il luogo che, dal centro di Londra, porta direttamente nel mondo magico di Harry Potter.

Nelle sale della biblioteca nazionale britannica, che in chilometri di archivi raccoglie duecento milioni di pezzi fra libri, manoscritti, giornali, francobolli, mappe, fotografie, registrazioni, da domani sarà inaugurata Harry Potter: A History of Magic, la mostra che celebra i vent'anni del primo libro della saga, Harry Potter e la pietra filosofale (fino al 28 febbraio 2018; poi, dall'ottobre del 2018, si sposterà alla New York Historical Society). A stampare quel primo libro nel Regno Unito, nel 1997, in cinquecento copie fu Bloomsbury, che poi ha pubblicato tutti i volumi del maghetto (450 milioni di copie nel mondo), e che oggi è partner dell'esposizione: oltre ai tesori della British Library infatti ci sono anche materiali messi a disposizione dalla casa editrice e da J.K. Rowling. Per esempio uno schizzo con annotazioni dell'autrice della Scuola di magia e stregoneria di Hogwarts o la lista, scritta a mano sempre dalla Rowling, degli insegnamenti e dei professori. La mostra prende spunto proprio dalle materie studiate dai piccoli maghi: Divinazione, Cura delle creature magiche, Pozioni, Erbologia e Difesa dalle arti oscure... E, data l'occasione, al centro c'è la pietra filosofale, simbolo del sogno alchemico. Ecco quindi il «Rotolo Ripley», un manoscritto del Cinquecento lungo sei metri, nel quale viene descritto il procedimento per realizzare la famosa pietra, che trasformerebbe il metallo in oro e garantirebbe l'immortalità. E la lapide (arrivata dalla Francia) di Nicholas Flamel, che nel primo libro della saga ha 665 anni e grazie alla pietra vive ancora tranquillo con la moglie, nella campagna inglese; ma il vero Flamel visse nel Trecento, fu uno scrivano francese e passò alla storia come grande alchimista e ispiratore di Robert Boyle e Isaac Newton. Altre creature magiche appaiono in mostra: le mandragole, il cui grido - si dice - conduca alla morte chi lo ascolta e che sono rappresentate in Erbari come quello quattrocentesco di Giovanni Cadamosto, o nelle immagini originali create negli anni scorsi da Jim Kay per le edizioni illustrate di Harry Potter, dove le radici delle mandragole hanno forma umana; la fenice, l'animale fantastico prediletto da J.K. Rowling, che risorge dalle sue ceneri in un Bestiario del Duecento.

L'oggetto magico più antico in mostra è un osso oracolare cinese, che risale al 27 dicembre del 1192 avanti Cristo (quando ci fu una eclisse lunare, di cui fu presa nota) e che veniva utilizzato per le divinazioni. Mentre, per scrutare le costellazioni antiche (da cui derivano molti nomi dei protagonisti della saga, come Remus Lupin, Sirius Black, Bellatrix Lestrange e Draco Malfoy) c'è un globo celeste del 1693 di Vincenzo Maria Coronelli, che funziona grazie alla realtà aumentata. Il curatore Julian Harrison ha detto che è stato «un grande divertimento» scegliere i pezzi per la mostra. E scoprire la magia che si nasconde dietro la magia di Harry Potter.

sabato 19 settembre 2020

Libri che uccidono, alchimia ed energia atomica

tratto da http://blog.ilgiornale.it/scarabelli/2020/01/21/libri-che-uccidono-alchimia-ed-energia-atomica/

di Andrea Scarabelli

La sera del 21 marzo 1919, a Parigi viene presentato un singolare poema in prosa dadaista, dal titolo Voyages en Kaléidoskope. Pubblicato cinque mesi prima dalla casa editrice di Georges Cres e tutt’ora inedito in italiano, è firmato da Irene Hillel-Erlanger, poetessa ebrea già autrice di varie antologie con lo pseudonimo di Claude Lorrey nonché collaboratrice di Germaine Dulac, regista del cinema muto francese. Nata il 30 giugno 1878, era tra le promotrici del neonato movimento dadaista, amica di Breton e Aragon (si vocifera, tra l’altro, che il racconto erotico, firmato dal secondo, Le con d’Irène, fosse dedicato proprio a lei…). Sta di fatto che, come racconta Serge Hutin nel suo libro Governi occulti e società segrete, tradotto negli anni Settanta all’interno della mitica collana di Mediterranee “la Biblioteca dei Misteri”, durante quel cocktail, dopo aver distribuito copie omaggio del libro ai giornalisti e agli amici presenti, l’autrice muore per una singolare intossicazione da ostriche. Nessun altro invitato registra il benché minimo malessere; in compenso, il giorno dopo qualcuno acquista tutte le copie in circolazione del Voyages, facendolo così sparire dalle librerie.

La trama del prose-poem è, in realtà, molto semplice: sintetizzando chimicamente misteriosi fluidi e metalli, lo scienziato e occultista Joel Joze mette a punto un caleidoscopio capace di rivelare la natura nascosta delle cose. Così come nella Fosca del nostro Iginio Ugo Tarchetti, Joel è infatuato di due donne: la Contessa Vera, stella della Parigi notturna, spregiudicata e crudele, e la più discreta Grace, che indossa sempre un velo. Lo scienziato sceglie ovviamente la prima, che però lo riduce sul lastrico, fino a quando viene a salvarlo Grace. Quando questa si toglie finalmente il velo, Joel scopre che lei e Vera sono in realtà sorelle, per così dire due emanazioni della stessa persona. La prima è il tempo, la seconda l’eternità; l’una è la realtà, l’altra la verità.

Incastonato in fronte, celato dal velo, Grace porta un diamante bianco, che nel corso della tenzone ingaggiata con la rivale genera un’immane quantità di forza “sottile” (una sinistra anticipazione dell’energia atomica?), radendo al suolo l’intera Ville Lumière. Una trama singolare, che secondo molti celerebbe tracce ermetiche dalla prima all’ultima pagina, su come preparare la Pietra dei Filosofi, portando a compimento la Grande Opera. Difficile dire se l’autrice si occupasse operativamente di alchimia – certo è che conosceva quell’ambiente, assai florido nella Belle Époque. Fu molto probabilmente da queste frequentazioni che nacque quello che è e rimane un autentico testo a chiave. D’altronde, nel dicembre 1919, tre mesi prima di morire, sulla rivista Literature lei stessa aveva offerto una chiave di lettura, scrivendo che «enigmi e segni si trovano ovunque. Basta solo saperli leggere».


Col passare degli anni, dopo quel cocktail fatale nessuno parlò più di lei. Fino al 1945, quando Eugen Canseliet, discepolo dell’enigmatico Fulcanelli, scrisse nei Due luoghi alchemici di aver ricevuto dal suo maestro il compito di recuperare copia di quel testo. Come noto, uno dei dettami alchemici prescrive il cosiddetto “segreto iniziatico”, ossia di non rivelare mai ai profani gli enigmi dell’Ars Regia. E quel libro pullula di enigmi cifrati, tra cui un termometro che secondo alcuni indicherebbe il “segreto alchemico delle temperature”. Che qualcuno avesse voluto punire l’autrice, avvelenandola e incaricandosi poi di ritirare tutte le copie del libro incriminato dalla circolazione? O che lei stessa avesse voluto lanciare un monito agli apprendisti stregoni dell’era atomica, anticipando di un paio di decenni i macelli di Hiroshima e Nagasaki?

Nessuno lo saprà mai. E chi sa è meglio che non dica nulla. Concludo con un piccolo aneddoto: nel 1971, Jacques Bergier pubblicò in Francia I libri maledetti, tradotto in italiano l’anno dopo sempre ne “la Biblioteca dei Misteri”. La tesi del libro è molto semplice: dall’inizio dei tempi, esisterebbe una misteriosa congrega (gli Uomini in Nero) che si occuperebbe di far sparire dalla circolazione quei libri che potrebbero portare l’umanità a un repentino sviluppo evolutivo. Altro che censori! Considerando la scarsa responsabilità mostrata da certi uomini di potere alle prese con gli enigmi della materia, i membri della setta, in sostanza, avrebbero come compito quello di salvare l’umanità da se stessa. Ebbene, nel Fondo Jacques Bergier (Biblioteca di Saint-Germain en Laye) è contenuto il manoscritto dell’indice originario del libro, pubblicato da Marc Saccardi nel suo ricco libro Amateur d’insolite et scribe des miracles (L’OEil du Sphynx, Paris 2008). Nel manoscritto compaiono tutti i capitoli poi finiti nell’edizione stampata. Tutti, salvo uno, cancellato nervosamente a penna dall’autore. Ecco il suo titolo: «Chapitre IX. Le “kaléidoskope” d’Irene Erlanger».

sabato 29 agosto 2020

ALCHIMIA La quintessenza della mente

 tratto da "Il Giornale" del 02/01/2007

Questa falsa scienza è come un fiume carsico nella storia dell'umanità Riemergendo, a esempio, nei rosacrociani o nella New Age. Un'antologia dei «testi della tradizione occidentale»

di Giuseppe Bernardi

Alla parola «alchimia», che si dovrebbe forse pronunciare «alchìmia», associamo subito la medioevale ossessione, ristretta a pochi, della trasmutazione dei metalli, e tendiamo probabilmente a lasciar cadere lì l’argomento. A un gradino successivo d’attenzione possiamo riflettere sul fatto che era un’arte con la quale si credeva di convertire i metalli in oro, il metallo perfetto, e di creare pozioni capaci di guarire qualsiasi malattia. A un livello ulteriore di disponibilità riflessiva, si stabilirà che quest’arte, stata pagana prima che alto- e basso-medioevale, cercava la trasmutazione dei metalli vili attraverso l’individuazione di un unico principio attivo, la «quintessenza», la pietra filosofale, strada che doveva condurre all’elisir di lunga vita, alla sulfurea aspirazione faustiana dell’eterna giovinezza, tutte pratiche sospette che la Chiesa ovviamente s’affrettò a bollare come demoniache.

È forse lecito pensare che tali studi misterici, e le loro pratiche, si svolgessero in ambiti circoscritti e marginali, senza grande risonanza nel mondo, come dire, nel «lavoro» e in tutte quelle attività che esso macinava, dai commerci alle arti. Se Dante nel canto XXIX dell’Inferno si prende la briga di citare un falsario alchimista, da lui conosciuto personalmente e finito male («Sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,/ che falsai li metalli con l’alchìmia;/ e te dee ricordar, se ben t’adocchio,/ com’io fui di natura buona scimia»), è assai dubbio che, nei secoli di fioritura dell’alchimia, fra Tre e Quattrocento, il mercante o il calzolaio fiorentino, o il piccolo armatore veneziano impegnato a battere le coste dell’Istria e della Dalmazia, avessero per la testa l’alchimia. Insomma, del sogno alchemico, falsa scienza che presagiva peraltro la nascita, nella seconda metà del Seicento, di una scienza vera, la chimica, parrebbe di non poter parlare se non in termini storici.

Invece, è da questo nostro ultimo assunto in poi, nel senso di una sua implicita smentita, che sembra partire l’enorme lavoro esegetico, compilatorio, antologico, che è ora depositato in Alchimia. I testi della tradizione occidentale, a cura di Michela Pereira («I Meridiani. Classici dello spirito», pagg. CXXXVI-1566, euro 55). Infatti, come dice nel dottissimo saggio introduttivo la curatrice, la tradizione alchemica, con il suo simbolismo che aspira all’integrazione della mente col mondo, attraverserebbe, come un lungo fiume carsico dalla linfa nascosta, i secoli fino a noi alimentando la nostra cultura, «ma a cui possono attingere solo quanti non hanno paura di avventurarsi nel profondo».

Nelle sue vene, diverse per origine, contenuti, lingua, la tradizione alchemica, partendo dallo scopo originario di perfezionamento della materia, di cura del mondo, di purificazione di sé, si sarebbe col tempo arroccata nel mito, anche per un’orgogliosa diversificazione dalle scienze moderne, e si troverebbe radicata «nei gruppi esoterici ancora vitali e attivi nella realtà politica e nella cultura», come il movimento rosacrociano, per arrivare persino alla New Age. Cosa non si farebbe pur di rimanere abbarbicati all’irrazionalismo? Pur di rifiutare la vetusta ma sempre pericolosa idea di progresso, con le sue scienze sociali? Pur di sfuggire alla delusione delle ideologie per avervi demandato l’esigenza di risposte assolute, come nelle religioni? Pur di non liberarsi da una dolorosa ma seduttiva nostalgia di divino, quella che spingeva gli alchimisti a cercare di ri-creare il Paradiso, a ricevere forse i misteri dell’integrità di sé col mondo attraverso i segreti trasmessi dagli angeli caduti?

In quel «quanti non hanno paura di avventurarsi nel profondo» c’è quasi una velata minaccia, un affettuoso avvertimento paterno, anzi materno, trattandosi di una emanazione dello spirito junghiano, cui la curatrice pare particolarmente devota. Benché sembri che siano passati secoli (e per la fine dell’alchimia millenni) da quando una sessantina d’anni fa Carl Gustav Jung scrisse mirabili testi sullo spirito Mercurio, sui rapporti tra psicologia e alchimia, o meglio sugli apporti dell’alchimia alla psicologia, i suoi concetti fondamentali, secondo cui la simbologia alchemica riusciva a portare in superficie le strutture archetipiche della personalità umana utili alla rigenerazione dell’io, paiono resistere al tempo anche nella loro traslata applicazione. E chi ha avuto l’occasione di visitare la casa di Jung sulle rive del lago, a Küsnacht, vicino a Zurigo, e di vedere dipinte sulle pareti le sue figurazioni orientali, piene di sogno e di simbologie indiane e tibetane, non può non sentire ancora la suggestione del luogo e dell’uomo che l’abitò. E viene anche in mente un passo che concentra e relativizza il pensiero di Jung sull’alchimia: «Certo la produzione dell’oro e in genere l’indagine della natura chimica era una grande istanza dell’alchimia. Ma ancora più grande, più appassionante, sembra esser stata, non si può dire "l’indagine", ma piuttosto l’esperienza dell’inconscio. Che per tanto tempo non si sia capita questa parte dell’alchimia - la sua mistica - dipende puramente dal fatto che nulla si sapeva dell’inconscio sovrapersonale e collettivo».

Lo sforzo prodigioso della curatrice di presentare e commentare una vastissima e significativa scelta di testi della tradizione alchemica, dallo pseudo-Democrito e da Zosimo di Panopoli a Giabir ibn Hayyan con tutta la sua scuola, da Ermete Trismegisto a Michele Scoto, da Stefano d’Alessandria a Ruggero Bacone, da Raimondo Lullo a Paracelso, e a decine d ‘ altri autori, è inteso proprio nel senso di fornire un contributo al «significato filosofico della quête alchemica e del suo ruolo nella cultura europea», ruolo evidentemente ritenuto vivo e fluente. «Dire l’indicibile» sembra essere al fondo di questa quête, che, accanto a un atteggiamento di mistero e a una volontà di occultazione, presenta una proliferazione di testi, ripetitivi, apparentemente didascalici, ciascuno con apporti propri, tendenti tutti a un sapere che lotta di continuo con la sua intraducibilità in linguaggio, perché è un sapere che si può ottenere eventualmente attraverso l’esperienza intuitiva, attraverso una specie di aspirato donum Dei, che consentirebbe di penetrare la materia, di condurre la mente dentro le dinamiche naturali, nell’afflato di una trasformazione della realtà, di una riunificazione e scambiabilità di corpo e spirito, di alto e basso, di maschio e femmina.

Ma tutto ciò rimase, nella tradizione alchemica finché durò, una lotta, non riservata all’alchimia soltanto. Senza nostalgia dell’Eden, non hanno cercato forse di dire l’indicibile don Chisciotte, la signora Bovary, Gregor Samsa, Bloom?



sabato 22 agosto 2020

Alchimia, Ufo o beffa? E' il libro più misterioso

 tratto da Il Giornale del 5 marzo 2009

Il manoscritto Voynich: scritto in una lingua sconosciuta, illeggibile da 500 anni. Ha sconfitto crittografi, archeologi e computer. Uno studio scientifico rilancia l’enigma

di Luigi Mascheroni

Ha fatto impazzire storici e linguisti di ogni Paese, ha resistito agli attacchi dei crittografi di eserciti e servizi segreti di mezzo mondo, ha sconfitto i più sofisticati software di decifrazione di codici, ha ammutolito scienziati e filosofi.

È un piccolo volume formato da un centinaio di fogli scritti a mano, di cui non si conosce l’autore, né la data né il luogo di composizione: è conosciuto come «manoscritto Voynich», dal nome inglesizzato dell’antiquario russo di origini polacche Wylfrid Wojnicz che lo acquistò per il suo negozio londinese dai gesuiti del collegio di Villa Mondragone, a Frascati, nel 1912. Ed è considerato l’enigma letterario più sorprendente di tutti i tempi, il libro più misterioso della storia. Che nessuno è in grado di leggere.

Risalente a un periodo compreso fra la fine del Quattro e la prima metà del Cinquecento, scritto in una lingua misteriosa e indecifrabile, arricchito da numerose illustrazioni a colori di piante ignote ai botanici, animali rari, strane figure femminili, stelle e diagrammi, il «manoscritto Voynich» resiste da mezzo millennio a ogni tentativo di decodificazione e traduzione: ha battuto i geroglifici egizi, la scrittura cuneiforme, persino la leggendaria Lineare B minoica. Il suo silenzio è impenetrabile. Pochissimi lo hanno potuto maneggiare - il manoscritto è custodito alla Beinecke Rare Book Library dell’università di Yale -, qualche studioso lo conosce attraverso la riproduzione pubblicata dall’editore francese Jean-Claude Gawsewitch nel 2005, i più ne hanno solo sentito parlare, tramandando il «mistero» attraverso studi specialistici, siti internet, persino romanzi fantasy.

Oggi la storia di questo occulto rompicapo letterario è raccontata, insieme ai numerosi tentativi di decifrazione e alle più fantasiose ipotesi interpretative - un messaggio in codice di una civiltà extraterrestre, un clamoroso falso rinascimentale, un’“enciclopedia” di arcani saperi per una setta di iniziati... - è ripercorsa dal primo saggio scientifico dedicato all’argomento mai apparso in Italia: L’enigma del manoscritto Voynich dello studioso argentino Marcelo Dos Santos (Edizioni Mediterranee).

Secondo una lettera in latino, datata 1666 e trovata allegata al testo, il volume fu acquistato nel 1568 dall’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, collezionista di nani per il divertimento della corte e di libri esoterici ed altre mirabilia per il proprio piacere. Poi nel XVII secolo scomparve, per riapparire agli inizi del ’900 nella biblioteca gesuita dove lo trovò Wojnicz.

Ma chi l’ha scritto, e perché? Nel 1921 il filosofo statunitense William R. Newbold, specialista in codici cifrati nella Prima guerra mondiale, sostenne che il manoscritto fosse opera del filosofo Ruggero Bacone (1214-93). Altri, confondendo il cognome di Ruggero Bacone, del filosofo rinascimentale Francis Bacon. Negli anni Cinquanta il crittografo americano William Friedman individuò una serie di “ridondanze”, ossia ripetizioni di alcune parole, simili alle formule chimiche, ipotizzando si trattasse di un antico erbario. Nel 1962 Edith Sherwood fece notare la similitudine fra la calligrafia del manoscritto e la scrittura speculare di Leonardo da Vinci; nel 1978 il linguista John Stojko considerò il testo una raccolta di lettere scritte in ucraino, successivamente codificate, ma senza capirne il senso; mentre negli anni Ottanta il fisico Leo Levitov assicurò che il manoscritto fosse opera degli eretici Catari e che celasse i segreti del Giardino dell’Eden. Infine lo psicologo inglese Gordon Rugg, docente di Scienze del calcolo all’Università di Keele, nel 2003 è giunto alla conclusione che si tratti di un falso cinquecentesco, realizzato dall’avventuriero elisabettiano Edward Kelley con la complicità dell’alchimista John Dee per vendere, dietro un compenso di 600 monete d’oro, un testo incomprensibile abilmente contraffatto all’imperatore Rodolfo II. Senza però riuscire del tutto a convincere esperti e profani della reale natura dell’unico libro esistente che nessuno sa leggere: un trattato di alchimia in codice, il delirio di un pazzo, una scrittura perduta o una beffa d’artista?



mercoledì 22 luglio 2020

Medici di nome e di fatto: i segreti alchemici dei Granduchi stregoni

tratto da Il Giornale del 20/01/2013

Alambicchi, veleni, ricettari, quadri e antichi laboratori. Tre secoli di (proto)scienza alla corte della famiglia toscana

di Maurizia Tazartes

«Un'infinita varietà di fuochi, di fucine, di fornetti, e lambicchi» per esercitarsi a fondere metalli, trasformarli, studiarli. Era questo il vero regno dei Medici, descritto nel 1561 da Vincenzo Fedeli.

"Il laboratorio dell'alchimista" di Jan Van der Straet
Immagine tratta da Wikipedia

L'ambasciatore veneziano aveva visto di persona il granduca Cosimo I affaccendarsi a produrre farmaci nella sua fonderia di Palazzo Vecchio. Dal 1582 il figlio Francesco I trasferisce le varie botteghe dedite alla fusione dei metalli, all'oreficeria, alla ceramica, alla lavorazione del vetro, del porfido e della porcellana al secondo piano degli Uffizi. Non lontano dunque da quella suggestiva Tribuna, da poco restaurata, che ne fu il nucleo originario con i suoi tesori di naturalia, mirabilia e pretiosa.
L'alchimia è stata la grande passione che ha affascinato, insieme all'arte, tutti i Medici dal Quattrocento a metà Settecento. Nel corridoio degli Uffizi, dove si facevano esperimenti all'avanguardia, lavoravano insieme ad artigiani e operai gli stessi granduchi. Il colto Francesco I cesellava in una sua stanza al «banco di gioie», mentre in un ambiente vicino giocava il figlioletto Antonio e non lontano riposava nella sua camera la moglie Bianca Cappello. Un quadretto famigliare che la dice lunga sulla modernità di quei signori.
A raccontare l'assiduo lavoro in queste botteghe non ci sono solo gli affreschi cinquecenteschi di Antonio Tempesta e Alessandro Allori nel corridoio di levante, ma una mostra originale: L'alchimia e le arti. La fonderia degli Uffizi: da laboratorio a stanza delle meraviglie, in corso agli Uffizi stessi. Sessanta opere (dipinti, sculture, incisioni, manoscritti, rimedi farmaceutici e libri) portano nella cultura e mentalità del tempo con i suoi sorprendenti segreti.
A creare e sperimentare ricette farmaceutiche furono Cosimo I e i figli Francesco e Ferdinando. Sistemate in preziosi cofanetti intarsiati le pastiglie in terra sigillata (con l'arma del granduca), destinate ad alti dignitari della corte e a sovrani stranieri, curavano con la terra dell'isola dell'Elba gli sputi di sangue, le febbri maligne, le dissenterie. Mentre un particolare olio, detto di contravveleno e formato con migliaia di scorpioni, era utile contro la peste. Balsami a base di piante o di mummie egizie lenivano fistole, bubboni e piaghe. C'era anche la mummia artificiale o chimica, preparata con le carni di un uomo perito di morte violenta, che addolciva i dolori ossei, mentre per il male mestruale andava bene la tintura di corallo. Come poi fossero usati i medicamenti lo illustrano eccezionali codici come Dell'elixir vitae libri quattro del domenicano Fra Donato d'Eremita edito nel 1624, vari trattati di medici ed eruditi.
Nelle fucine alchemiche, rappresentate in magnifiche tele dipinte da David Teniers il Giovane, Gérard Thomas, Giovanni Domenico Valentini, è visibile il lavoro dell'alchimista, una specie di dotto filosofo che consulta libri tra orci, padelle, catini, strumenti vari in bronzo e rame e bracieri di fuoco. Le Illustrazioni alchemicometallurgiche del 1530-1535 del pittore senese Domenico Beccafumi descrivono l'arte fusoria personificando i metalli e gli artefici, attraverso suggestive xilografie che precorrono -con arte - la pubblicità televisiva di dentifrici e detersivi.
E poi ci sono loro i Medici, Cosimo I in un marmo rosso frammentario progettato dal Buontalenti, Francesco I in un medaglione di porcellana e in un dipinto anonimo, Ferdinando I in veste di cardinale, il nipote don Antonio con un orecchino di perla, singolare rimedio per la sua malattia agli occhi. E ancora Ferdinando II, diventato granduca a undici anni, allievo di Galileo, protettore delle scienze e fondatore nel 1642 della Sperimentale Accademia Medicea con sede a Palazzo Pitti. Altro che disimpegnati.

La mostra: «L'Alchimia e le Arti» (Firenze, Galleria degli Uffizi, sino al 3 febbraio, catalogo Sillabe), a cura di Valentina Conticelli

mercoledì 27 maggio 2020

L’ARTE DELL’ALCHIMIA IN MOSTRA A CUNEO

tratta da L'Opinione del 09 agosto 2019

di Dalmazio Frau

Nessun “dialogo” ma soltanto il silenzio ermetico del Mutus Liber dell’Arte Alchemica, è presente nella splendida mostra Ars Regia, in questi giorni a Palazzo Taffini d’Acceglio dove resterà aperta al pubblico sino al prossimo gennaio, a Savigliano in provincia di Cuneo.

Ne è artefice e curatore sopraffino Enzo Biffi Gentili, noto e attento conoscitore di arti applicate, al quale si deve già il successo de Il Cuneo gotico, Artieri fantastici realizzato sempre nella Granda negli anni passati. In questa sua nuova mostra si tratta un argomento affascinante che ha impegnato lungo i secoli personaggi famosi e ignoti, nobili, ricchi e gente del popolo: l’Alchimia. Quell’arte regale e spirituale che tanto ha a che vedere con le Arti, ritenuta originaria dell’antico e misterioso Egitto e giunta sino a noi attraverso i sogni del Medio Evo e del Rinascimento, giù nell’età barocca, nel Secolo dei lumi, nell’Ottocento romantico e di là sino ai giorni nostri senza mai aver perduto il proprio affabulante mistero.

Biffi Gentili ha voluto una mostra colta e raffinata ma anche per tutti coloro che, più o meno sapienti, abbiano almeno una volta nella loro vita sentito narrare della Pietra Filosofale o dell’Elisir d’immortalità. Un’operazione artistica e culturale unica oggi nel nostro Paese, questa di Ars Regia, che conduce il visitatore, curioso o incuriosito, a scoprire le terre della dinastia di Casa Savoia, spesso ammantate di miti e di mistero, quella stessa dinastia che vide dal XIV secolo al primo Settecento, un notevole interesse nell’Arte Regale da parte dei propri alchimisti di corte.

Sono nelle belle sale di Palazzo Taffini d’Acceglio, in mostra le opere pittoriche di Pinot Gallizio, lo spagirista paracelsiano discepolo novecentesco dell’Abate Tritemio, come fu discepolo di questi nel convento di Sponheim in Germania, uno dei più grandi teurghi del Rinascimento: Enrico Cornelio Agrippa.

Gallizio è un artista contemporaneo oggi scomparso, ma proprio per questo rinnova nella propria arte pittorica il pensiero e la dottrina filosofica della Grande Opera con i suoi studi che si rifanno direttamente agli insegnamenti di Fulcanelli, l’alchimista sfuggente che rivelò al pubblico i misteri delle cattedrali gotiche e delle Dimore Filosofali.

Una mostra “sensoriale” dunque, che coinvolge il visitatore anche con i profumi oltre che con la vista e il tatto in un percorso, quasi un cammino iniziatico, suddiviso in otto singolari tappe: Le esequie alchemiche; L’anticamera ardente; Nel crogiuolo della Granda; Sei artieri ermetici; Un Oratorio “eretico”; Alla ricerca dell’oro ceramico; L’aroma del Sacro; Le alchimie ludiche.

Tutte queste diramazioni, otto vie ermetiche che conducono a un’unica Verità sapienziale, in realtà sollevano nuovi enigmi, ulteriori misteri da rivelare da parte di tutti coloro che avendo anima, spirito e corpo ancora vivi, non hanno timore a fare un passo oltre la Soglia del conosciuto in cerca del Sole di Mezzanotte.

martedì 15 gennaio 2019

Fabbricanti d'oro. Storie di alchimisti

Fabbricanti d'oro. Storie di alchimisti. Si tratta di tre storie di tre alchimisti, Laskaris, Sendivogius e Sehfeld, in cui, per la prima e unica volta, Meyrink usa un registro a metà fra la narrazione e la ricostruzione storica, fra cronaca e racconto. Insomma, una storia romanzata che oggi forse si definirebbe "docufiction": la vita, le avventure, le fortune e le disgrazie di alcuni alchimisti tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Settecento, cioè un periodo che i lettori non particolarmente edotti della storia dell'ermetismo occidentale potrebbero considerare insolito, abituati forse a immaginarsi gli alchimisti collocati in ambienti e atmosfere medievali. Introduzione di Gianfranco De Turris.

mercoledì 31 ottobre 2018

Così il mito del Vampiro morse sul collo il Futurismo

tratto da Il Giornale del 3 giugno 2018

di Luigi Mascheroni

Un saggio svela tutti gli «strani» rapporti tra il movimento d'avanguardia e l'esoterismo

Con la rivista Poesia, la casa del primo futurismo fondata nel 1905 da Filippo Tommaso Marinetti, collaborarono, tra gli altri, William Butler Yeats, studioso dell'alchimia e delle dottrine esoteriche occidentali; Éduard Schuré, membro della Società Teosofica e discepolo dei «grandi iniziati»; Catulle Mendès, «il grande negromante», come lo definì il pittore Henri Rousseau; Auguste Villiers de l'Isle-Adam, il cui dramma rosacrociano Axel diventò una Bibbia per il movimento simbolista; Paul Adam, appartenente all'Ordre Kabbalistique de la Rose Croix...
«Noi crediamo alla possibilità di un numero incalcolabile di trasformazioni umane, e dichiariamo senza sorridere che nella carne dell'uomo dormono delle ali» declama il manifesto futurista L'Uomo moltiplicato e il Regno della Macchina, del 1910. Le ali, le ali... Il volo alato della Poesia, le ali del pipistrello, l'ombra lunga del vampiro...

Il vampiro succhiatore di sangue - archetipo primordiale malvagio e perverso, metafora dell'erotismo sadico e della modernità che avanza - pullula, anche se il lettore distratto non se ne accorge, nelle opere (pre)futuriste, infilando i suoi canini e allungando gli artigli in tante pagine della pattuglia avanguardista, a partire dal Signore&Fondatore, F.T. Marinetti, frequentatore di occultisti, forse persino massone, di sicuro assiduo partecipante alle sedute spiritiche che si tenevano nella casa milanese di Enrico Annibale Butti e della moglie Lidia Brochon. Il poeta delle Parole in libertà disprezzava il chiaro di luna e l'amore romantico, ma era attratto dal Vampiro, figura ultra-razionale e ribelle, e dalla vampira, femmina «disposta a tutte le acrobazie della libidine»... Nella tragedia satirica e nichilista Le Roi Bombance (1905) Marinetti inventa la figura di Ptiokarum, vampiro che bevendo sangue umano legge i pensieri dei moribondi, frugando «nelle arterie come negli scaffali di una biblioteca». Nel poemetto La Conquête des Étoiles (1902) appare Lucifero, un demone umano diventato «vi-pistrello», il cui bacio «avido» imprigiona l'anima delle sue vittime. Nel poema Destruction (1904) l'amante sensuale è una vampira «bianca e pura» dalla carne flessuosa, con una bocca dal «tepore assorbente» illuminata da «denti lucenti». E visioni vampiriche e vampirizzazioni erotiche appaiono in Lussuria-Velocità (1908), in Come si seducono le donne (1917) ne L'alcova d'acciaio (1921)... Senza citare l'altra faccia del vampirismo: l'antropofagia. Tra i futuristi il cibo, il sesso e il cannibalismo si miscelano armoniosamente in un pot-pourri esplosivo (il menu prevede, oltre il racconto La carne congelata di Marinetti, Donna allo spiedo di Emilio Settimelli, il «Cannibale vegetariano» di Pino Donizzetti, il Manifesto Antropofago di Oswald De Andrade...). «Amiamo le donne. Spesso ci siamo torturati con mille baci golosi nell'ansia di mangiarne una. Nude ci sembrarono sempre tragicamente vestite. Il loro cuore, se stretto dal supremo godimento d'amore, ci parve l'ideale frutto da mordere masticare suggere», proclamano Marinetti e Fillìa nella Cucina futurista.

Vampiri, cabbala ebraica, tavolini per evocare le anime dei morti (come quello intarsiato dall'artista e futurista eccentrico, Thayath), ufologia, procedimenti alchemici e misteriosofici. Ma quanto è profonda l'anima nera di Marinetti&Co.!

Le scienze occulte e i fenomeni paranormali sono un abisso in cui si immerse tantissimo Futurismo. Che oggi, per la prima volta, viene letteralmente scandagliato da Guido Andrea Pautasso - figlio di tanto padre e profondo conoscitore della materia - in un saggio-rivelatore: Vampiro futurista. I futuristi e l'esoterismo (Vanillaedizioni, pagg. 160, euro 19). Chi avrebbe immaginato che il movimento più d'avanguardia del Novecento avesse radici così arcaiche?

«Alcuni futuristi italiani si occuparono di occultismo e di magia latu sensu ed è possibile distinguere tra il futurismo milanese di Marinetti e di Boccioni di stampo magico-teosofico, quello fiorentino vicino alla rivista Lacerba di carattere animista-metafisico e quello del gruppo de L'Italia Futurista, legato ad interessi spiritualisti ed occultisti», scrive Pautasso. E poi via, in una filologica cavalcata fra i testi del futurismo, dalla poesia alla prosa, dal teatro al romanzo, che fra sottile ironia e compiacimento per il macabro, flirtano con le culture sotterranee, alternative e ribelli: magia, stregoneria, occultismo, esoterismo, astrologia, ermetismo, alchimia...

Gino Severini partecipò a Parigi a diverse sedute medianiche in compagnia della moglie Jeanne Fort. A caccia di spiriti andarono anche il pioniere dell'estetica cinematografica Ricciotto Canudo e l'artista Thayaht. Giacomo Balla partecipava a sedute spiritiche e, attratto dagli insegnamenti del teosofo Johannes Lauweriks, si definì occultista («Cammino senza toccar terra, talmente il mio spirito è elevato e sento anche quello che non si vede»). Umberto Boccioni credeva alla teosofia e alla materializzazione degli ectoplasmi e fu influenzato dalla teoria della «quarta dimensione» dell'architetto-teosofo Claude Bragdon. Paolo Buzzi ne L'ellisse e la spirale contempla immagini e iscrizioni alla tradizione dei Rosa+Croce e nel Poema di Radio-Onde (1933-38) dimostra padronanza del mondo magico-alchemico. I fratelli Ginanni Corradini (Arnaldo Ginna e Bruno Corra) si interessarono all'arte medianica, alla trance, alla scrittura automatica, alla telecinesi, alla teosofia e all'antroposofia. Enrico Prampolini realizzò le scenografie di Thaïs (1916), film allucinatorio girato da Anton Giulio Bragaglia, inventore del fotodinamismo futurista e appassionato di «fotografia dell'invisibile». E ancora. Corrado Govoni, il pittore Athos Casarini e l'aeropittore Mino Delle Site si appassionarono ai principî teosofici, alla metapsichica e all'astrologia. Gino Cantarelli, autore dell'esoterico Ascendenze cromatiche, disegnava motivi astratti stimolati da visioni medianiche e da imprevisti flussi del subconscio. Luigi Russolo, creatore dell'arte dei rumori, iniziato all'occultismo e alle filosofie orientali, scrisse Al di là della materia, investigazione sulle «scienze segrete» e sul magnetismo. Enrico Cardile si dedicò a studi esoterici e cabalistici, culminati con la curatela del Trattato della Quinta Essenza ovvero de' Secreti di Natura attribuito al «mago» Raimondo Lullo. Giovanni Papini, prima di scendere nell'arena futurista di Lacerba, fondò con Giovanni Amendola la rivista teosofica L'Anima; poi con Ardengo Soffici, Ottone Rosai ed Emilio Pettoruti frequentò il mago (e poi pittore medianico in Argentina) Alejandro Schultz Solari, famoso come Xul Solar...

Solo i futuristi - fra arte, letteratura, moda, cinema, cucina, fotografia, design, grafica, musica, teatro e politica - furono così onnivori e pronti vampirescamente ad assorbire qualsiasi stimolo e a «divorare tutto», anche le culture più emarginate e occulte. Adoravano la luce - luce e progresso, l'arte della luce, la luce elettrica, la macchina: Fiat lux!, L'elica e la luce, Luce Marinetti - e furono attratti dal Principe delle Tenebre. Ruggero Vasari (1898-1968), poeta e pittore fra i fondatori del Futurismo, lasciò scritto: «La verità è nelle tenebre». Furono così avveniristici e razionali da precipitare nell'impenetrabile. Corsero così tanto e così avanti che si lasciarono - senza accorgersene? - il futuro dietro le spalle. Risero così apertamente da mostrare gli affilati canini. Del resto la poesia, per loro, fu sempre e solo un assalto violento «contro le forze ignote».

sabato 24 settembre 2016

L’inizio del cammino della Trasformazione Spirituale

in collaborazione con l'autore Michele Leone

tratto da: http://micheleleone.it/linizio-del-cammino-della-trasformazione-spirituale/

Appunti di Trasformazione Spirituale parte I

Questo è il primo post della serie: Appunti di Trasformazione Spirituale. All’inizio dovevano essere appunti di Alchimia Spirituale, oggi la parola Alchimia genera troppi fraintendimenti ed aspettative. Questa serie di appunti, non hanno ancora una loro organicità esplicita, al momento vengono resi così come sono nati. In futuro probabilmente verranno organizzati in modo migliore. Sono stato tentato di sostituire la parola Spirito con Pneuma, ho evitato questa sostituzione per rendere più fruibile, spero, nell’immediatezza il senso di questi articoli.

Ci sono momenti che creano stupore ed ai quali non si è mai pronti, come non si è mai pronti a tutte le prove iniziatiche. L’essere umano è un grande fruitore di energie, di qualunque tipo e genere. Non solo ne fruisce, ma le trasforma. È la trasformazione ad essere la chiave di volta celata dietro le parole dei Maestri. Parole spesso e volutamente criptiche o giocate su una molteplicità di significati e significanti, quasi a voler far sottoporre alla “prova del labirinto” coloro che osano andare incontro ai Misteri; il più grande da sempre è: CONOSCI TE STESSO (e consocerai gli uomini e gli dei). Trasformare un’energia negativa come il rancore, l’astio, la rabbia in una energia positiva come l’affetto, la “serenità” o l’Amore, è cosa più facile a dirsi che a farsi. Spesso si leggono intere biblioteche, si riflette lungamente ma senza successo. Ed è giusto che sia così. Oltre al volere, sapere, osare tacere dell’ermetismo c’è dell’altro, queste sono caratteristiche degli Iniziati che hanno già sublimato o perfezionato la loro “umanità”. Il salto nella trasformazione, tolte le doti naturali insite in ognuno, è una vera è propria iniziazione. Da non confondersi con una auto iniziazione, ammesso che esista la possibilità di auto iniziarsi (questo è un altro discorso). Un esempio pratico potrebbe essere l’incontrare qualcuno che ha profondamente tradito le aspettative che avevate risposto in lui, che vi abbia ferito nell’essenza spirituale e ad un certo punto scoprire che non solo non siete più arrabbiati, ma che una profonda pietas e/o compassione vi lega a lui e subito dopo scoprite di Amarlo e perdonare (che non va inteso come giustificare, ma piuttosto come un rimettere) quanto vi ha fatto o quanto gli avete permesso di fare. Siamo noi in una qualche misura a determinare gli accadimenti della nostra vita e della nostra emotività/spiritualità per esperire quanto di cui abbiamo bisogno e quanto ci può portare ad evolvere. Dopo aver accetto questo nuovo stato di cose, per un’istante potreste percepire il “filo d’argento” che collega il vostro microcosmo al macrocosmo ed avere la netta (folle) sensazione della morte che abbraccia e della luce che si emana dagli antri più remoti dell’essere. Questa iniziazione, potrebbe essere una delle fasi di trasformazione all’interno dell’alchimia (trasformazione) spirituale, paragonabile utilizzando un linguaggio alchemico tradizionale al passaggio dalla nigredo all’albedo (potrebbe essere lo stato di Distillazione e Sublimazione). La parte più interessante forse è quella della “morte”, perché come ogni iniziazione deve far morire, putrefare, una parte o il tutto per dar corso alle successive evoluzioni e cicli di rinascita con un karma più complesso ed una consapevolezza maggiore. Ogni giorno, (vedi ad esempio l’attività cellulare) l’essere umano compie morti e rinascite in tutti gli strati della materia e dell’essere, ma della maggior parte non ne è consapevole, iniziare ad acquisire consapevolezza è come iniziare a respirare in un modo diverso, a vedere più colori ed ascoltare più suoni.

Temo che queste poche righe non siano chiarissime e sono certo che per alcuni genereranno fraintendimenti. Auspico che questi appunti nel loro dipanarsi possano essere sempre più chiari ed essere di una qualche utilità a chi è alla ricerca della conoscenza prima di tutto del proprio essere.

Gioia – Salute – Prosperità

venerdì 13 novembre 2015

Psicologia alchemica di James Hillman

tratto da L'Opinione dell'8 novembre 2015 (http://www.opinione.it/cultura/2015/11/08/talarico_cultura-08-11.aspx)

di Giuseppe Talarico

In un suo famoso saggio, Giuseppe Pontiggia, grande autore, scrisse che nella storia della cultura vi sono stati filosofi geniali che con i loro scritti e libri hanno dimostrato di essere anche grandi scrittori. Rientra in questa categoria di pensatori James Hillman, del quale da poco la casa editrice Adelphi ha pubblicato un libro importante e notevole, il cui titolo è Psicologia Alchemica. In questo saggio, che incanta ed affascina il lettore per la eleganza e la raffinatezza della prosa con cui è stato scritto, Hillman ha con chiarezza esemplare spiegato il rapporto tra L’alchimia e l’opus analitico.


Carl Jung, di cui Hillman è stato un allievo, a questo tema ha dedicato una delle sue opere fondamentali, intitolata Psicologia ed Alchimia. Hillman nella prima parte del suo saggio chiarisce che per la psicanalisi esiste il rischio di usare un linguaggio intriso di letteralismo, incapace di delineare una distinzione tra la parola e la cosa. L’alchimia, intesa ovviamente in senso metaforico, poiché si riferisce ad elementi della materia fissati ed individuati, possiede un grado di concretezza che si rivela utile per superare il letteralismo, che rischia di rendere arido e sterile la terminologia del metodo psicanalitico. Infatti l’alchimia offre espressioni concrete che non sono letterali. In tal modo il linguaggio della psicanalisi subisce un processo di rettificazione, che è necessario per accrescerne la efficacia terapeutica. Nel medioevo e nel rinascimento vi era la convinzione che il metodo alchemico, consentendo la trasformazione della materia, rendesse possibile ricavare l’oro prezioso da metalli di scarso valore. Infatti Hillman nel testo cita il pensiero e le opere di Marsilo Ficino. Alla stessa maniera il terapeuta deve con il metodo psicanalitico sottoporre l’anima umana ad un processo di trasformazione, perché si liberi dal dolore e dalla sofferenza.

Le fasi in cui questo processo di guarigione dell’anima avviene sono sostanzialmente quattro: la Nigredo, che designa la depressione e la sofferenza cupa ed inconsolabile della psiche umana, l’ Albedo, periodo di tristezza in cui si ha la elaborazione del dolore, la citrinitas in cui la mente umana si libera dalla disperazione e il Rubedo, che indica il momento in cui si ha la guarigione. Per segnalare e chiarire la transizione che nella terapia analitica vi è tra questi stadi, Hillman con la bravura del grande scrittore, facendo riferimento al metodo alchemico, ricorda e sottolinea le differenza tra le sostanze fondamentali presenti nella materia, quali piombo, rame, argento ed oro. Si sofferma anche nel descrivere la diversità tra i colori che i nostri sensi possono cogliere e distinguere mediante i sensi, il nero, il bianco, il giallo, il rosso. Mentre segue questa narrazione analogica tra il metodo psicanalitico e quello alchemico, Hillman afferma e sostiene che la nostra mente ha un fondamento poetico. Infatti per Hillman esiste un rapporto inscindibile tra il pensiero e la immaginazione, sicchè la nostra mente ha il potere di creare la realtà mediante la fantasia. Per Hillman è essenziale tenere presente e comprendere i rapporti esistenti tra la psicologia e la letteratura.

Come l’alchimia opera secondo il metodo dissolvi e coaguli, allo stesso modo la terapia psicanalitica deve dissolvere e coagulare i processi psichici perché si arrivi ad avere il predominio nella vita interiore della Unio Mentalis. Hegel scrisse che la follia è il sintomo che rivela come l’anima sia alla ricerca della sua guarigione. Infatti secondo Hillman una coscienza più chiara e in grado di raggiungere la pace interiore deriva sempre da uno stadio di follia. Questo processo di guarigione della psiche, che lotta per liberarsi dalla infelicità e dalla disperazione, avviene attraverso una transizione, che per Hillman da vita ad una conversione dell’anima. Jung a questo proposito nei suoi studi sull’alchimia e la psicanalisi aveva individuato quattro stadi: l’innerimento, l’imbiancamento, l’ingiallimento, l’irrosimento. Questo modo di ragionare di Jung, si spiega con la circostanza che per il grande pensatore l’alchimia, grazie alle sue metafore, permette di comprendere gli oscuri e tenebrosi processi che hanno luogo nella psiche. Per Spinoza la sostanza ha la tendenza natuirale ad opporsi da ogni cambiamento. Lo stesso accade con la psiche umana, che si rivela sovente e in più circostanze riluttante a mutare il suo stato.

Per questo motivo, nel suo saggio Hillman nota che durante la terapia è importante che la transizione tra le varie fasi sia progressiva e lenta, poiché nei casi in cui si abbia un fallimento terapeutico, si produce un fenomeno devastante nell’anima, quello che lui ha definito come il processo dei vetrificazione della psiche. Ad un certo punto nel libro Hillman cita le famose colombe di diana, che per Newton avevano la funzione di mediare tra il mercurio e l’antimonio. Per Hillman le colombe di diana diventano un simbolo che chiarisce in che modo si ha con la guarigione della psiche umana il congiungimento della immaginazione con la natura. Infatti è necessario che alla fine della terapia psicanalitica si abbia una armonia, capace di dare pace e serenità all’anima umana, tra mente, immaginazione e mondo. In un capitolo bellissimo, dove riflette su come il colore azzurro abbia ispirato i pensieri di grandi geni come Proust e Cézanne, Hillman dimostra che non è la mente che si perde nel cielo azzurro, ma è il cielo azzurro che è racchiuso nella mente umana. In tal modo spiega con esemplare chiarezza cosa sia e designi la figura archetipica nella cultura umana.

L’anima Mundi, su cui Hillman si sofferma nel libro, dimostra che vi è un rapporto strettissimo tra le cose che esistono, poiché è l’amore universale che costituisce il fondamento su cui poggia il mondo esistente. Infatti Freud parlava della libido oggettuale. Il cielo azzurro designa in modo simbolico L’unus Mondus. Per Hillman è fondamentale seguire il metodo estetico nella psicanalisi, poiché la psicoterapia si basa sull’ascolto della parola di chi è gravemente invischiato nei gorghi oscuri e impenetrabili della sofferenza interiore, provocata dalla depressione, dalla paranoia delirante e dalla depersonalizzazione. Con la modernità l’alchimia, dopo la rivoluzione scientifica e meccanicista di Newton, è stata sostituita dalla chimica. Per Alfred Ader il fine della psicoterapia è la realizzazione della solidarietà umana. Un libro indimenticabile.

sabato 25 agosto 2012

VENEZIA: I MISTERI DELLA LAGUNA

Tra spettri, Graal e magi occultisti

di Andrea Romanazzi

Quando si parla di Venezia vengono subito in mente le immagini delle bellissime gondole che vagano per i canali e la dolce atmosfera romantica che la avvolge, ma tra i campi e i calli gremiti di turisti si nascondono antiche leggende, misteri insoluti, ombre di antichi personaggi che rendono la città fortemente inquietante in questa sua gotica disinvoltura. Sarà seguendo così le tracce di questi enigmi che si perdono nella notte dei tempi che riusciremo ad entrare in contatto con il genius urbis che come novello Virgilio ci porterà tra le pieghe del tempo al cospetto di tradizioni mai dimenticate come il Graal e Cagliostro, Casanova e l’Inquisizione che ci faranno cambiare idea sul comune soprannome di "Serenissima".



IL GRAAL E I MISTERI DI SAN MARCO

La città di Venezia è ricca di leggende su antiche reliquie cristiane dato anche gli stretti rapporti economici con il mondo orientale e così ovviamente non potevano mancare storie sui Templari e il mistico Graal, la coppa nella quale, secondo la leggenda, Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo.
La via che porta questa favolosa reliquia in città è quella che conduce a Costantinopoli, l’odierna Istambul, città conquistata dai Crociati e strettamente legata al capoluogo veneto. In particolare proprio durante la Quarta Crociata cavalieri e mercanti portarono in città cultura e tradizioni mediorientali oltre ai moltissimi tesori provenienti dalla città turca come i quattro cavalli in rame presenti sulla Basilica di San Marco e che tradizione vuole avessero al posto degli occhi degli splendidi rubini. Si sa ancora che da Costantinopoli sarebbe provenuta la Corona di Spine di Gesù che Luigi IX di Francia riuscì a sottrarre alla città per portarla in Francia, presso la Sainte Chapelle, dunque non sarebbe impensabile che, nel caso fosse davvero esistito, il Graal nel suo mistico cammino fosse davvero giunto nella città.
La tradizione lo vuole nascosto nel trono di San Pietro, il sedile ove si sarebbe davvero seduto l’Apostolo durante i suoi anni ad Antiochia costituito da una stele funeraria mussulmana e decorato con i versetti del Corano oggi presente nella chiesa di San Pietro in Castello. Si narra che questa poi sarebbe stata trasferita successivamente a Bari, città legata a quella veneta da interessanti tradizioni comuni come il santo Nicola le cui due città si spartiscono le sacre reliquie. Alcune tradizioni locali, poi, vogliono che nella chiesa di San Barnaba fosse stato seppellito il corpo mummificato di un cavaliere crociato francese dal nome di Nicodemè de Besant-Mesurier, legato alla vicenda della traslazione della mistica coppa ritrovato nella zona nel 1612. In realtà non sono mai stati trovati documenti che parlassero di questo cavaliere.

I misteri legati alla religione Cristiana non trattano solo di reliquie, ma diverse sono anche le tradizioni legate a l’Inquisizione e piazza San Marco, tracce di angusti ricordi sparsi in una delle più belle piazze d’Italia e spesso celati agli occhi del comune viaggiatore. All’angolo destro della Basilica, ad esempio, è presente un cippo che la tradizione vuole utilizzato per le esecuzioni, mentre guardando le colonne del primo loggiato del vicino Palazzo Ducale, ne possiamo scorgere due di colore differente dalle altre ove, secondo la tradizione, venivano lette le sentenze di morte poi eseguite nella piazzetta antistante o nel vicino Campanile. Ecco così che il meraviglioso Campanile che svetta nella piazza nasconde anch’esso macabri ricordi, infatti è legato alla tradizione del supplizio di cheba, una gabbia in ferro sospesa nel vuoto nella quale i condannati venivano esposti al pubblico ludibrio anche per lunghi periodi sfidando le intemperie e dunque la morte che presto sopraggiungeva quasi come liberazione. Sempre tra le colonne del Palazzo Ducale, poi, era offerta l’ultima speranza di salvezza, e infatti, sul lato della costruzione che si offre al mare era presente una colonna che ancora oggi appare con il basamento consumato. Ai condannati era offerta una ultima grazia: se fossero riusciti a girar intorno alla stessa senza cadere mai dallo strettissimo basamento sulla quale poggia, operazione davvero impossibile.

I PALAZZI STREGATI E LE CORRENTI TELLURICHE
Interessanti poi sono le tradizioni legate ai palazzi stregati come Ca’ Dario e Ca’ Mocenigo Vecchia.
La fama del primo sinistramente conosciuta da tutta la città, esso fu costruito dal mercante Giovanni Dario e dedicato al genio della città come testimonia l’iscrizione "Genio urbis Joannes Dario", scritta che, secondo alcuni studiosi, nasconderebbe, anagrammata, enigmatici quanto orribili segreti: "SUB RUINA INSIDIOSA GENERO" e cioè colui che abiterà sotto questa casa andrà in rovina. Per alcuni la costruzione sorgerebbe su un nodo di energie negative che si trasferirebbero all’intera dimora, quella che Fulcanelli definirebbe una vera e propria dimora filosofale. In realtà l’intera città sorgerebbe su una rete di correnti telluriche, positive e negative, che caratterizzerebbero così la sua urbanizzazione, lo stesso Canal Grande sarebbe la rappresentazione del temibile serpente, simbolo delle enigmatiche forze che in alcuni punti diventerebbero fortemente palesi. Del resto nel passato era normale che ci fossero luoghi benefici e malefici, in oriente ove si pratica il feng shui, cioè una disciplina che permette di costruire una casa recependo le onde benefiche del "grande drago" che dorme nel sottosuolo. Sarà proprio il drago a caratterizzare la città, infatti esaminiamo una qualunque cartina di Venezia vediamo il Canal Grande snodarsi come un serpente o un dragone, tagliando esattamente in due parti la città. Abbiamo così la testa, "caput draconis", ed una coda "cauda draconis".
Alla fine di quest’ultima troviamo l’isola di san Giorgio, con l’omonima chiesa, scelta non casuale se pensiamo che nella tradizione cristiana san Giorgio è il santo che uccide il drago, e quindi che esorcizza il serpente veneziano, mentre dalla parte opposta vi è la Basilica di San Marco, quasi un modo per esorcizzare queste energie.
E’ proprio posizionato nella "cauda" che troviamo Ca’ Dario, il misterioso palazzo la cui maledizione colpisce tutti i proprietari che sono morti suicidi o comunque di morte violenta, tra i quali ultimamente Raul Gardini e il tenore Mario del Monaco.
Per quanto riguarda invece la seconda costruzione, è silente testimone della visita del filosofo Giordano Bruno in città, ospite proprio della famiglia di Mongenigo che, dopo aver cercato di carpire le sue conoscenze alchemiche, lo denunciarono come stregone alle autorità veneziane costringendolo a riparare a Roma ove poi sarà giustiziato. Tradizione vuole che ancora in quell’edificio si manifesti il fantasma dell’eretico in cerca di giustizia.

ALCHIMIA VENEZIANA

Moltissimi sono stati i maghi, stregoni e alchimisti presenti nella laguna, tra i quali spiccano, oltre al già citato Giordano Bruno, Casanova e Cagliostro. Dati gli stretti rapporti con il Medioriente, Venezia è stata da sempre crogiuolo di culture, il toponimo del quartiere "Giudecca" sembrerebbe proprio segnalarci la presenza dei suoi primi abitanti, i giudei, da sempre maestri di alchimia e studiosi di Cabala. Moltissime sono così le leggende presenti nell’antico e nuovo ghetto che riguardano gli rabbini e i loro studi di alchimia.
Nella città, poi, sono presenti le conoscenze alchemiche degli arabi le cui tracce ritroviamo nel quadrante della torre dell’orologio ove, tra simboli astronomici e astrologici sono presenti raffigurazioni di mori. Più sconcertanti ed evidenti sono però le simbologie arabe presenti nelle vicinanze della porta della carta vicino la Basilica di San Marco. Qui sono rappresentati in un angolo i così detti "quattro mori", i tetrarchi Diocleziano, Galerio, Massimiliano e Costanzo.
In realtà la tradizione lega queste figure all’alchimia come testimoniato da un fregio alla base dello stesso raffigurante due putti e due draghi intrecciati che portano un cartiglio con la scritta in veneziano arcaico "uomo faccia e dica pure ciò che gli passa per la testa e veda ciò che po’ capitargli".
Sempre sullo stesso lato della Basilica sono presenti due colonne provenienti da Acri ove cultura cristiana e mora si mescolano in una mistica commistione di immagini tra le quali spiccano tre enigmatici criptogrammi per alcuni invocazioni al dio del mussulmani Allah.
Tra i personaggi più enigmatici, però, sicuramente spicca Casanova, mago e scrittore nato nella città il 2 Aprile 1725 e sepolto nella chiesa di San Barnaba anche se della sua tomba sono state perse le tracce. La sua storia "misteriosa" parte all’età di otto anni quando, per guarirlo da un male che gli costringeva a tenere sempre la bocca aperta, la zia lo portò da una strega guaritrice. Sarà da allora che lo scrittore iniziò ad interessarsi alle arti magiche che gli procurarono problemi con l’Inquisizione e che lo portarono ad esser imprigionato nei famosi "piombi" veneziani dai quale riuscì in una clamorosa fuga. Sicuramente egli ebbe contatti con la massoneria e con Amadeus Mozart per la realizzazione del suo "Don Giovanni" ispirato anche alla vita del veneziano e con il famoso Giuseppe Balsamo, noto come Conte di Cagliostro proveniente da Aix de Provence. Secondo la tradizione i due si incontrarono nella città nel 1769 per scambiarsi formule e magici rituali e le formule per l’elisir di eterna giovinezza.