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mercoledì 30 settembre 2020

Jacques Bergier: «Come nacque “Il mattino dei maghi”»

tratto da: http://blog.ilgiornale.it/scarabelli/2019/11/24/jacques-bergier-come-nacque-il-mattino-dei-maghi/

di Andrea Scarabelli


È appena uscita, per Edizioni Bietti, la traduzione italiana di Io non sono leggenda, l’autobiografia di Jacques Bergier, il mitico autore de Il mattino dei maghi, manifesto del “realismo fantastico” scritto a quattro mani con Louis Pauwels e pubblicato da Gallimard nel 1960. L’edizione dell’autobiografia dell’“Amante dell’Insolito e Scriba dei Miracoli” (come lui stesso aveva fatto scrivere sul suo biglietto da visita) comprende vari materiali aggiuntivi, molti dei quali pubblicati in prima edizione mondiale. Oltre a un ricordo dell’autore ad opera di Sebastiano Fusco, che lo incontrò in varie occasioni, il volumetto contiene un ricco apparato di note, un capitolo tagliato nell’edizione francese (Retz, 1977) e il progetto editoriale di una delle opere che avrebbe dovuto costituire il seguito di un libro epocale come pochi altri. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo qui un estratto del capitolo di Io non sono leggenda dedicato all’incontro tra Jacques Bergier e Louis Pauwels – il primo, scienziato e fisico comunista, il secondo, amante della spiritualità e discepolo di Gurdjieff, nonché uomo di destra – contenente anche informazioni su come nacque Il mattino dei maghi, nonché sulle reazioni “a caldo” del pubblico di fronte alla sua comparsa.

Non sempre riesco a decifrare le tracce del futuro. Mi capita di fare previsioni con una tale esattezza che sfiora il paradosso temporale, ma spesso ciò non succede. Quando incontrai Louis Pauwels, nel 1959, non avrei mai immaginato che ciò avrebbe cambiato molte vite. Grazie agli studi di cui ho già parlato, entrai in contatto con l’alchimista René Alleau, che mi presentò Pauwels. Ciò che mi colpì – e continua a colpirmi – è la sua curiosità. Pauwels è di una curiosità indomita, una disposizione naturale frequente tra i russi e gli europei dell’Est ma molto rara in un europeo occidentale.

Quando lo conobbi, aveva appena concluso Monsieur Gurdjieff. Ci scambiammo riflessioni e idee, e progettammo un’opera che non avrebbe mai visto la luce: uno studio globale sulle società segrete. Tale progetto – come scoprimmo solo dopo – era del tutto impossibile, per il semplice fatto che se una società è davvero segreta è impossibile studiarla.

Il progetto morì dunque di morte naturale, ma io e Pauwels continuammo a collaborare. Andavo da lui, a Mesnil, e passavamo intere giornate a parlare, dopodiché si svegliava alle quattro del mattino e cominciava a dattiloscrivere le nostre conversazioni. Tale metodo – che usiamo tuttora – è anche alla base del suo libro L’ammirevole Blumroch. Ovvero, la colazione del superuomo. Tutto parte da uno scambio di riflessioni e informazioni. Mi duole non aver conservato i fascicoli che costituivano il punto di partenza delle mie storie, ma non potevo prevedere che i nostri lavori sarebbero stati analizzati e commentati da cima a fondo. Alcuni di questi fascicoli si trovano a casa di Pauwels, altri nella camera blindata del ristorante Quick-Élysées (Champs-Élysées, 114), che funge da magazzino, ma purtroppo la maggior parte di essi è andata perduta.

Mentre Il mattino dei maghi cresceva, ci accorgemmo che la sua struttura era altrettanto bizzarra e unica: vi avevamo inserito lunghe citazioni, ma anche storie di pura immaginazione – cosa che, per quanto ne so, non è mai stata fatta da nessuno. Quando ci mettemmo alla ricerca di un titolo, io proposi Approcci generali, che però avrebbe generato confusione, avendo un taglio, per così dire, umoristico. Suggerii allora Il Graal e la Galassia, ma Claude Gallimard, futuro editore dell’opera, ci fece notare che pochissimi sapevano cosa fossero il Graal e le galassie (e come dargli torto, pensando ai lettori di Sartre e Gide?). Fu Pauwels a trovare Il mattino dei maghi, titolo definitivo del libro, che uscì nel 1960.

La sua pubblicazione ha suscitato numerose reazioni. Jean Paulhan e Raymond Queneau mi dissero che, se avessero letto il manoscritto, per consentirne la pubblicazione l’editore sarebbe dovuto passare sul loro cadavere.

Impossibile ricordare tutti gli attacchi. Un integralista (l’estrema destra della Chiesa cattolica) scrisse un libro in cui dimostrava che Il mattino dei maghi ci era stato dettato da Satana in persona. Comunisti e uomini di sinistra pubblicarono studi dimostrando che era una macchinazione per distogliere il popolo francese dai veri problemi. Un autore tedesco di fantascienza, Walter Ermsting, spiegò che il libro ci era stato trasmesso telepaticamente dal sistema solare di Altair. Quanta immaginazione…!

Lavorando con Louis Pauwels forse non avrò penetrato i grandi segreti cosmici, ma ho imparato due cose. Anzitutto, che un non-scienziato può essere un uomo valido e degno di amicizia; prima di conoscerlo, consideravo questa tipologia al di sotto del livello umano. In secondo luogo, il nostro rapporto mi ha insegnato l’importanza dello stile. L’enorme successo de Il mattino dei maghi è dovuto in gran parte allo stile di Pauwels. Per quanto mi riguarda, non nutro l’ambizione di essere uno scrittore, ma so di avere un gran talento nel raccontare storie. Quando discutevo con Pauwels, gli parlavo come se mi trovassi davanti al fuoco del campo coi miei compagni di lotta, o nei campi di concentramento cogli altri deportati.

Di recente, agli inizi del 1976, ho esaminato l’ultima edizione de Il mattino dei maghi. Il novantadue per cento dei fatti indicati all’interno del libro è esatto; purtroppo non siamo riusciti a verificare la restante parte, essendo coperta dal segreto militare: ebbene, la veridicità del nostro libro è superiore a quella di qualsiasi altra opera scientifica contemporanea. L’esattezza dei migliori libri scientifici non supera in media il cinquanta per cento, vale dire che un fatto su due è falso. Nemmeno i dubbi degli scienziati cambiano nulla. Quando sono al potere, come gli antropologi nella Germania hitleriana o Lyssenko nella Russia di Stalin, spediscono chi contraddice le loro teorie nei campi, inverando le parole di Max Planck: «La verità non trionfa mai, ma i suoi avversari hanno il brutto difetto di morire sempre». Non amo affatto il termine “divulgazione” e credo sia impossibile “divulgare senza volgarizzare”, come recita il motto di una nota casa editrice. Ma si può certamente spiegare, anche se ciò implica un tradimento: infatti, il solo linguaggio della verità è di tipo matematico, e la matematica non può essere espressa a parole. Mi sono dovuto sforzare parecchio per inserire ne Il mattino dei maghi una sola formula matematica. Anche Jacques Monod ce l’ha fatta, nella sua celebre opera Il caso e la necessità, antitesi (o antidoto?) de Il mattino dei maghi. Tuttavia, se è giusto difendere ciò che si crede vero, bisogna essere anche capaci di evitare l’errore. Ebbene, l’unica formula inserita da Monod nel suo libro è sbagliata…

Sono convinto che gli aspetti più favolosi del mondo possano essere formulati solo a partire dalla matematica, ma che sia altrettanto necessario parlarne con uomini come Pauwels, dotati di una certa dote poetica. Ho avuto un’esperienza analoga – piuttosto deludente – con il cineasta Alain Resnais, a cui ho esposto le teorie matematiche moderne sul tempo. Non ci ha capito nulla, ma qualcosa è passato, generando film come L’anno scorso a Marienbad, in cui un uomo incontra una donna ben prima di averla vista, e Je t’aime, je t’aime, storia di un viaggiatore nel tempo che orbita sempre intorno a un istante (la sua destinazione), prima di fermarsi.

Lavorare con Pauwels è piacevole. È al tempo stesso entusiasta e critico – il solo atteggiamento possibile quando, come disse Talbot Mundy, si attraversano frontiere in cui «gli avvenimenti, come le sentinelle, aprono il fuoco senza preavviso». Ecco perché ne Il mattino dei maghi non si trovano (e solo Dio sa quante ne abbiamo vagliate!) truffe come dischi volanti, astrologia, radioestesia, ectoplasmi, guaritori filippini… I nostri emulatori non hanno avuto la stessa onestà, ma non possiamo farci nulla.

È difficile spiegare come mai io e lui non abbiamo mai litigato, cosa che accade spesso durante le collaborazioni. Penso sia dovuto al fatto che la nostra relazione non è competitiva. Ciò che interessa a me non importa a lui, e viceversa, facendo sì che la nostra sia una visione binoculare dell’universo, a cui teniamo parecchio (come noto, lo sguardo binoculare è reso possibile dalla distanza che separa gli occhi). Per continuare con questa metafora, potrei dire che il nostro sguardo intercetta radiazioni che di norma l’occhio non percepisce. Risiede qui il nucleo del realismo fantastico.

L’espressione risale allo scrittore belga Franz Hellens e si applica perfettamente al nostro percorso – anche se tengo a precisare che non è una filosofia in senso vero e proprio, quanto piuttosto un atteggiamento di fronte alle cose. È infatti impossibile, al contrario di quanto ripetuto giorno e notte dagli sciocchi, “aderire” al realismo fantastico. A questo proposito, ricordo sempre l’aneddoto del segretario di Darwin.

«Signore» gli disse, «c’è qui una che ha letto la sua opera. Vorrebbe dirle che ha finalmente accettato l’universo!».

«Alla buon’ora!» tagliò corto Darwin.

Il realismo fantastico rende l’universo più gradevole, ma è impossibile che dia i natali a una religione o una filosofia. Il mattino dei maghi uscì nel 1960. Allo stato attuale delle cose, gli manca solo l’indice dei nomi. Ma Pauwels e io non ne possiamo davvero più. Io credevo che l’opera passasse inosservata. Pauwels, più ottimista, sperava di raggiungere le mille copie. Entrambi avevamo fatto male i conti…


sabato 19 settembre 2020

Libri che uccidono, alchimia ed energia atomica

tratto da http://blog.ilgiornale.it/scarabelli/2020/01/21/libri-che-uccidono-alchimia-ed-energia-atomica/

di Andrea Scarabelli

La sera del 21 marzo 1919, a Parigi viene presentato un singolare poema in prosa dadaista, dal titolo Voyages en Kaléidoskope. Pubblicato cinque mesi prima dalla casa editrice di Georges Cres e tutt’ora inedito in italiano, è firmato da Irene Hillel-Erlanger, poetessa ebrea già autrice di varie antologie con lo pseudonimo di Claude Lorrey nonché collaboratrice di Germaine Dulac, regista del cinema muto francese. Nata il 30 giugno 1878, era tra le promotrici del neonato movimento dadaista, amica di Breton e Aragon (si vocifera, tra l’altro, che il racconto erotico, firmato dal secondo, Le con d’Irène, fosse dedicato proprio a lei…). Sta di fatto che, come racconta Serge Hutin nel suo libro Governi occulti e società segrete, tradotto negli anni Settanta all’interno della mitica collana di Mediterranee “la Biblioteca dei Misteri”, durante quel cocktail, dopo aver distribuito copie omaggio del libro ai giornalisti e agli amici presenti, l’autrice muore per una singolare intossicazione da ostriche. Nessun altro invitato registra il benché minimo malessere; in compenso, il giorno dopo qualcuno acquista tutte le copie in circolazione del Voyages, facendolo così sparire dalle librerie.

La trama del prose-poem è, in realtà, molto semplice: sintetizzando chimicamente misteriosi fluidi e metalli, lo scienziato e occultista Joel Joze mette a punto un caleidoscopio capace di rivelare la natura nascosta delle cose. Così come nella Fosca del nostro Iginio Ugo Tarchetti, Joel è infatuato di due donne: la Contessa Vera, stella della Parigi notturna, spregiudicata e crudele, e la più discreta Grace, che indossa sempre un velo. Lo scienziato sceglie ovviamente la prima, che però lo riduce sul lastrico, fino a quando viene a salvarlo Grace. Quando questa si toglie finalmente il velo, Joel scopre che lei e Vera sono in realtà sorelle, per così dire due emanazioni della stessa persona. La prima è il tempo, la seconda l’eternità; l’una è la realtà, l’altra la verità.

Incastonato in fronte, celato dal velo, Grace porta un diamante bianco, che nel corso della tenzone ingaggiata con la rivale genera un’immane quantità di forza “sottile” (una sinistra anticipazione dell’energia atomica?), radendo al suolo l’intera Ville Lumière. Una trama singolare, che secondo molti celerebbe tracce ermetiche dalla prima all’ultima pagina, su come preparare la Pietra dei Filosofi, portando a compimento la Grande Opera. Difficile dire se l’autrice si occupasse operativamente di alchimia – certo è che conosceva quell’ambiente, assai florido nella Belle Époque. Fu molto probabilmente da queste frequentazioni che nacque quello che è e rimane un autentico testo a chiave. D’altronde, nel dicembre 1919, tre mesi prima di morire, sulla rivista Literature lei stessa aveva offerto una chiave di lettura, scrivendo che «enigmi e segni si trovano ovunque. Basta solo saperli leggere».


Col passare degli anni, dopo quel cocktail fatale nessuno parlò più di lei. Fino al 1945, quando Eugen Canseliet, discepolo dell’enigmatico Fulcanelli, scrisse nei Due luoghi alchemici di aver ricevuto dal suo maestro il compito di recuperare copia di quel testo. Come noto, uno dei dettami alchemici prescrive il cosiddetto “segreto iniziatico”, ossia di non rivelare mai ai profani gli enigmi dell’Ars Regia. E quel libro pullula di enigmi cifrati, tra cui un termometro che secondo alcuni indicherebbe il “segreto alchemico delle temperature”. Che qualcuno avesse voluto punire l’autrice, avvelenandola e incaricandosi poi di ritirare tutte le copie del libro incriminato dalla circolazione? O che lei stessa avesse voluto lanciare un monito agli apprendisti stregoni dell’era atomica, anticipando di un paio di decenni i macelli di Hiroshima e Nagasaki?

Nessuno lo saprà mai. E chi sa è meglio che non dica nulla. Concludo con un piccolo aneddoto: nel 1971, Jacques Bergier pubblicò in Francia I libri maledetti, tradotto in italiano l’anno dopo sempre ne “la Biblioteca dei Misteri”. La tesi del libro è molto semplice: dall’inizio dei tempi, esisterebbe una misteriosa congrega (gli Uomini in Nero) che si occuperebbe di far sparire dalla circolazione quei libri che potrebbero portare l’umanità a un repentino sviluppo evolutivo. Altro che censori! Considerando la scarsa responsabilità mostrata da certi uomini di potere alle prese con gli enigmi della materia, i membri della setta, in sostanza, avrebbero come compito quello di salvare l’umanità da se stessa. Ebbene, nel Fondo Jacques Bergier (Biblioteca di Saint-Germain en Laye) è contenuto il manoscritto dell’indice originario del libro, pubblicato da Marc Saccardi nel suo ricco libro Amateur d’insolite et scribe des miracles (L’OEil du Sphynx, Paris 2008). Nel manoscritto compaiono tutti i capitoli poi finiti nell’edizione stampata. Tutti, salvo uno, cancellato nervosamente a penna dall’autore. Ecco il suo titolo: «Chapitre IX. Le “kaléidoskope” d’Irene Erlanger».

sabato 22 giugno 2019

«Pillola rossa o pillola blu?» Come il cinema ha resuscitato la gnosi

Tratto da Blog Il Giornale del 27 gennaio 2018: http://blog.ilgiornale.it/scarabelli/2018/01/27/pillola-rossa-o-pillola-blu-come-il-cinema-ha-resuscitato-la-gnosi/#

di Andrea Scarabelli

«Pillola rossa o pillola blu?» è l’arcinota domanda posta da Morpheus a Neo in Matrix. Il film è del 1999: quell’anno esce anche eXistenZ di Cronenberg, affine al capolavoro dei fratelli Wachowski per tematiche e atmosfere, che ci parla sempre di una realtà vera e una simulata. Al di là delle sfumature, a risuonare è sempre la stessa domanda: come facciamo a sapere che il mondo in cui viviamo è quello vero? I film escono a un anno dalla fine del XX secolo, rappresentandone in qualche modo l’epilogo. Il martoriato “secolo breve” delle ideologie opta così per una via alternativa, proponendo all’uomo una fuoriuscita dalla Storia: «Pillola rossa o pillola blu?». Che in Matrix significa: continuare a vivere in un mondo irreale oppure svegliarsi alla vera vita? Mobilitato dalle teologie politiche e dai totalitarismi, è ora l’uomo a dover compiere una scelta, secondo un retaggio che affonda le proprie radici in un passato molto lontano e che ci costringe a guardare alla Storia in modo radicalmente diverso. E tutto questo avviene nei prodotti cosiddetti “di massa”. Un paradosso? Fino a un certo punto.

Lo storico delle religioni Mircea Eliade ci ha insegnato a trovare nelle produzioni contemporanee patterns di tipo spirituale, tracce di archetipi che si manifestano periodicamente, spesso riemergendo nei modi più disparati e imprevedibili. È lo stesso intento che anima Pillola rossa o Loggia Nera? di Paolo Riberi, appena uscito per Lindau, che sonda la Settima Arte in cerca di tematiche gnostiche, presenti in film e serie tv a volte secondo una precisa intenzione dei registi, altre un po’ meno, riflettendo tematiche ben presenti nell’Inconscio Collettivo. La chiave di volta è l’idea che le vecchie teorie della gnosi si affaccino oggi sul grande schermo: «Dopo un conflitto millenario con il cristianesimo, questo antico pensiero religioso trova spazio in molte opere cinematografiche». Una mitologia nascosta – e nemmeno troppo bene – che si riflette in trame e personaggi, «raccontata in maniera approfondita e sistematica, utilizzando i moderni linguaggi della fantascienza, del noir, del fantasy e persino dell’horror».

Non che ciò sia appannaggio del cinema. Solo concentrandoci sulla letteratura “di genere”, impossibile ignorare le tracce gnostiche presenti nei romanzi di Philip K. Dick e nella trilogia cosmica di C. S. Lewis (Lontano dal pianeta silenzioso, Perelandra e Quell’orribile forza), con il suo sistema di divinità planetarie, così come in V per Vendetta di Alan Moore, che ha dichiarato: «Nel fumetto originale può emergere qualche sfumatura di gnosticismo». L’anarchia di cui si parla nel fumetto – parola di Moore – ha anche «un aspetto spirituale: ritenevo contenesse una grande carica di romanticismo, ed ero molto interessato all’occulto e alle idee gnostiche».

Ma quali sono i principi fondamentali della gnosi, ereditati da film e serie tv? In primis, l’esistenza di una pluralità di mondi e l’idea che il nostro sia una prigione custodita da un Demiurgo e dai suoi subalterni, gli Arconti. Se l’umanità ne è generalmente all’oscuro, diversamente vanno le cose per il prescelto gnostico, il quale, a seguito di rivelazioni spesso ottenute grazie a esperienze sovrannaturali, si risveglia al mondo vero, compiendo un cammino di liberazione interiore. Ecco i filtri usati da Riberi per elaborare un atlante della “gnosi pop”, una geografia alternativa che include alcuni tra i film più visti degli ultimi vent’anni: da Jupiter dei fratelli Wachowski a Dark City, da Donnie Darko a Ghost in the Shell, fino al visionario Eraserhead di David Lynch, dal “risveglio” degli androidi di Westworld allo stato sonnambulico di Jim Carrey-Truman (True man), ispirato al romanzo di Philip K. Dick Tempo fuor di sesto.

Ma il piatto forte del libro è sicuramente il capitolo dedicato alla temibile Loggia Nera che si affaccia nella sinistra cittadina di Twin Peaks raccontata da David Lynch e Mark Frost. Una sorta di non-luogo in cui esseri immateriali si spostano da un piano della realtà all’altro, insinuandosi nella mente degli ignari abitanti e costringendoli alle peggiori nefandezze, spesso utilizzando come medium elettricità o animali («I gufi non sono quel che sembrano» rivelava il Gigante al leggendario Dale Cooper, alter ego di Lynch stesso). Sono gerarchie di spiriti che ricordano (come ha scritto Roberto Manzocco nel suo purtroppo introvabile Twin Peaks e la filosofia) gli Arconti della gnosi. Si annidano nell’oscurità delle foreste, ma possono essere visti da personaggi dotati di un certo occhio interiore – come la “Donna Ceppo”, che parla per conto di un pezzo di legno. In Io vedo me stesso, Lynch ha rivelato trattarsi di una medium, e quel pezzo di legno altro non è che il suo “spirito guida”.

Come sanno tutti i fan della serie, la cittadina di Twin Peaks è in balia di due luoghi onirici, la Loggia Bianca e la Loggia Nera (la “Dimora del Limite Estremo” ideata da Mark Frost, che s’ispirò agli studi di Dion Fortune), abitata da uno spettrale nano che danza e parla al contrario e dai doppi dei protagonisti. Sono luoghi nei quali si può entrare attraverso varchi spazio-temporali aperti nei boschi che circondano Twin Peaks, e da cui escono oggetti (come il terribile anello di Fuoco cammina con me, prequel della serie), oppure animali e spiriti, appunto.

SHERILYN FENN, KYLE MACLAUGHLINMa Loggia Bianca e Loggia Nera sono precedute da una Stanza Rossa: per chi abbia dimestichezza con l’Alchimia, inutile segnalare come questi siano i colori che simboleggiano i tre stadi dell’Arte Regia, nigredo, albedo e rubedo… Nella prima fase – l’Opera al Nero, la Notte dell’Anima che folgorò Carl Gustav Jung – avviene la dissoluzione dell’individualità, la disgregazione delle certezze. Ebbene, nella Loggia Nera ogni personaggio incontra la propria parte oscura – l’ombra, direbbe sempre Jung. Con la quale occorre riconciliarsi. Parola di David Lynch: «Raggiungere lo spirito divino attraverso la conoscenza della combinazione degli opposti. È questo il nostro viaggio». Interpretazioni azzardate? Basterebbe dare un’occhiata al curriculum dei due registi di Twin Peaks… David Lynch pratica la Meditazione Trascendentale, creata e portata in Occidente da Maharishi Mahesh Yogi (il guru dei Beatles, per capirci). Una pratica non priva di legami con le sue varie attività, come ha rivelato lui stesso:

«Il programma di Meditazione Trascendentale che pratico da anni ha svolto un ruolo fondamentale per il mio lavoro nell’ambito del cinema e della pittura e di ogni sfera della mia vita; è stato un modo per immergermi in acque sempre più profonde».

Quanto a Mark Frost, studioso di teosofia, è autore di due romanzi piuttosto bizzarri. Il protagonista di The List of Seven, uscito nel 1993, è nientemeno che Arthur Conan Doyle: nel libro incontra personaggi come Bram Stoker, legato alla Golden Dawn, ed Helena Petrovna Blavatsky, la discussa fondatrice del movimento teosofico. I personaggi s’imbattono in un complotto occulto volto a influenzare magicamente personalità politiche, al fine di operare stravolgimenti su scala mondiale. È sempre il detective di Baker Street il protagonista del secondo romanzo di Frost, The Six Messiahs (1996), solo che stavolta si reca in America alla ricerca di una misteriosa “Torre Nera”, i cui sinistri abitanti sognano di distruggere Dio e far resuscitare la “Bestia” che s’impadronirà del mondo.

Sono tutte tracce che ci consentono di cercare nelle serie tv e nei prodotti di massa componenti altre, che non cessano di stregare l’immaginario contemporaneo, specie nello scenario virtuale-internettiano che imperversa nel XXI secolo. Partendo sempre dalla stessa domanda: «Pillola rossa o pillola blu?».


sabato 21 luglio 2018

Fernando Pessoa e Aleister Crowley: incontri pericolosi

tratto da: http://blog.ilgiornale.it/scarabelli/2018/06/04/fernando-pessoa-e-aleister-crowley-incontri-pericolosi/?repeat=w3tc#

di Andrea Scarabelli

2 settembre 1930, quattro meno un quarto: al porto di Lisbona attracca l’Alcantara, giunto da Southampton; ha un ritardo di ventiquattro ore, dovuto a una fitta nebbia al largo di Vigo. Dal piroscafo scende una figura notturna, dagli occhi accesi, avvolta in un mantello nero, che raggiunge un uomo sul molo. Timido e leggermente inquieto, l’uomo – che, diciamolo francamente, vorrebbe trovarsi altrove – porge la mano alla figura ammantata, che esclama, anticipando le presentazioni: «Orbene, che idea è stata mai questa d’inviarmi una nebbia lassù?». Inizia così il breve soggiorno di Aleister Crowley a Lisbona. È giunto nella Città Bianca con la sua giovane amante, Hanni L. Jaeger, per prendersi una pausa da una vita irrequieta, guai finanziari e creditori, ma anche dalle pressioni del suo entourage. Ma soprattutto per incontrare Fernando Pessoa, il quale, insieme ad altri amici, inscenerà il “finto suicidio” della Bestia 666. La vicenda Crowley-Pessoa – che in Portogallo ha ispirato ben quattro romanzi – è documentata nel ricco volume La bocca dell’inferno, appena uscito per i tipi di Federico Tozzi a cura di Marco Pasi, tra i maggiori esperti di Crowley in Italia. Un volume dalla curatela eccellente, che comprende il carteggio Crowley-Pessoa, gli articoli dedicati al presunto suicidio del mago apparsi sulla stampa lusitana e straniera tra il settembre e il dicembre 1930, il romanzo incompiuto La bocca dell’inferno – originariamente scritto in inglese – e un’antologia di poesie pessoane dedicate a Crowley o contenenti sue tracce. Insieme a note, bibliografie e approfondimenti, che fanno luce sui misteri di quel fugace rapporto.

Un rapporto iniziato epistolarmente l’anno prima, quando Pessoa ordina alla Mandrake Press i primi due volumi delle Confessions crowleyane. Dopo aver dato un’occhiata al primo, si accorge subito che l’auto-oroscopo di Crowley è leggermente errato. Da profondo conoscitore dell’astrologia qual è, scrive all’editore, il 4 dicembre 1929: «Se avete, come è probabile, la possibilità di comunicare col Sig. Crowley, vi pregherei di informarlo che il suo oroscopo non è corretto». Segue una spiegazione dettagliata, che si conclude così: «Mi scuso con voi per questa intrusione di natura puramente fantastica in quella che è, dopotutto, solo una lettera commerciale».

Queste parole ci costringono ad aprire una piccola parentesi. La critica ufficiale nostrana ha sempre mostrato una certa allergia nei confronti del “Pessoa magico”, che in Italia è stato studiato soprattutto da Brunello De Cusatis, il quale nei suoi studi ha mostrato in modo scientifico e documentato la dimensione esoterica e mitogenica della poesia e della prosa pessoane. Un caso tutto italiano, come al solito, se è vero che secondo Eduardo Lourenço, tra i maggiori esperti pessoani a livello mondiale, «la poesia occultista copre l’intero spazio della vita e dell’opera di Pessoa». Àngel Crespo, autore de La vita plurale di Fernando Pessoa, curata da De Cusatis per Bietti nel 2014, chiosa: «E identica cosa può dirsi per parte della sua prosa».

Torniamo al 1930. Pochi mesi prima di Crowley, un altro straniero era andato a trovare Pessoa al caffè Martinho da Arcada, pubblicando sulla rivista parigina «Contacts» una testimonianza del pomeriggio passato con lui. L’articolo di Pierre Hourcade – in barba al razionalismo di certa critica italiana, tutta pensiero debole ed esistenzialismo – abbozza un’immagine molto particolare del Pessoa di quegli anni: «Seduto a un alto tavolo di marmo, su cui fuma l’eterno caffè portoghese, mi sforzo di dimenticare lo scenario e ho occhi solo per l’entrata del mago». Il critico letterario si aspettava un individuo malinconico, assorto nella contemplazione d’imperi che non appartengono a questo mondo – e proprio perciò sono contemporanei di tutte le epoche – e si trova di fronte a «uno sguardo vivo, un sorriso fermo e malizioso, un volto che trabocca di vita segreta». Attraverso i suoi proverbiali occhiali, che indosserà l’ultima volta poco prima di prendere congedo da questo mondo, cinque anni dopo, s’«irradiava un incanto indefinibile fatto di estrema cortesia, perfetta semplicità», un’«intensità febbrile». Hourcade è come pietrificato da quella presenza, la cui aura “magica” muta addirittura il paesaggio circostante, come se l’aria intorno a loro «fosse più ricca di ossigeno di quella grande esalazione salubre e luminosa che saliva dal Tago, per poi venire a spirare, attraverso la “più nobile piazza d’Europa”, alle soglie di quel sepolcro, convertito dalla presenza del poeta in un antro della sibilla». Lasciamo che sia il già citato Crespo a commentare questa testimonianza: «È indubbio come Hourcade fosse estremamente sensibile ai segni esteriori che denunciavano la presenza di chi, come Pessoa, apparteneva al misterioso novero dei cultori delle scienze occulte».

Il Pessoa che attende Crowley sul molo accarezzato dalla brezza oceanica, nella città fondata da Ulisse, è molto diverso. Piuttosto intimorito dalla Bestia 666, come già detto, non mancherà di organizzare una blague degna di questo nome. Coinvolgendo anche altri, peraltro, tra cui Augusto Ferreira Gomes, «suo fratello occultista» (João Gaspar Simões), che finge di aver trovato presso la Boca do Inferno, vicino a Cascais, un enigmatico biglietto di Crowley diretto a Hanni. Ecco il testo del messaggio, che lascia supporre a tutti gli effetti un suicidio:

«L.G.P. Non posso vivere senza di te. L’altra “Boca do Infierno” mi avrà. Non sarà tanto ardente quanto la tua! Hjsos! Tu Li Yu».

Pur sapendo che Crowley è vivo e vegeto, Ferreira Gomes trasmette l’informazione alla stampa, che successivamente contatta Pessoa per chiedergli ragguagli: d’altronde, non solo è tra gli ultimi ad aver incontrato Crowley, ma conosce bene le sue dottrine. Un diluvio di articoli ripercorre così gli ultimi giorni del mago, interrogandosi sull’enigmatico biglietto in codice. Che in realtà ha una chiave di decifrazione, trasmessa da Crowley a Pessoa: “L.G.P.” è il nome mistico della sua giovane amante, la sola a conoscere il significato di “Hjsos”, mentre la firma in calce appartiene a un saggio cinese di cui Crowley dice di essere l’incarnazione. Conoscendo gli interessi del poeta, Crowley gli chiede anche di preparare un romanzo sull’accaduto, al fine di mantenere viva l’attenzione del pubblico. Cosa che Pessoa fa, inventandosi un detective privato, come scrive a Ferreira Gomes il 27 ottobre 1930: «L’investigatore inglese che si è occupato del caso Crowley sta scrivendo il resoconto completo della sua interessantissima indagine sulla faccenda. Dovrebbe trattarsi di un piccolo libro, suddiviso in brevi capitoli». Mentre a Israel Regardie, segretario di Crowley, scriverà tre giorni dopo: «Secondo le mie informazioni il libro è completo nei dettagli e in parte è già scritto. L’autore spera di averlo pronto in un paio di settimane».

Durante il soggiorno lusitano, la notte del 9 settembre, il mago “iniziò” Raul Leal, amico di Pessoa e suo “collaboratore” nel caso Crowley. Come scrive Marco Pasi nella sua ricchissima introduzione, è verosimile che lo stesso Pessoa avesse preso parte alla serata. Ora, sappiamo che successivamente Pessoa si dichiarò iniziato, per comunicazione diretta (senza però specificare nulla sulle circostanze di questa sua “iniziazione”), ai tre gradi minori di un’organizzazione derivata dall’Ordine Templare di Portogallo. Scrive Crespo: «Pessoa – il quale avrebbe avuto modo, più tardi, di far parte dell’Ordine di Cristo, successore dei Templari in Portogallo – trovò in Crowley, se non un confratello, quantomeno un iniziato a uno degli Ordini che si proclamavano discendenti di quegli stessi Templari». All’iniziazione di Leal, tra l’altro, era presente anche la bellissima Hanni (che compare sulla copertina del libro): Pessoa dovette in qualche modo subirne l’ascendente, se è vero che il giorno dopo scrisse una poesia, anch’essa inserita nel volume, intitolata Dà la sorpresa di essere. Citiamo solo l’ultima quartina:

«Invoglia come una barca

Assomiglia a uno spicchio d’arancia.

Mio Dio, quand’è che mi imbarco?

Ah, fame! Quand’è che mangio?».

Anche l’amore possiede le sue iniziazioni. E le sue Bocche dell’Inferno.

L’ultima comunicazione tra i due protagonisti di questa storia misteriosa è una circolare interna, spedita da Crowley a ogni equinozio. Tale lettera comprendeva una “parola” particolare, che avrebbe determinato la “corrente magica” attiva nei sei mesi successivi (fino al successivo equinozio, insomma), assieme a un oracolo. Destinata solo agli “interni”, nel 1932 la ricevette anche Pessoa! Forse gliene furono spedite altre, andate perdute? Non lo sapremo mai. Tuttavia, come ricorda Pasi, il documento «lascerebbe supporre che Crowley considerava Pessoa membro di uno dei suoi ordini magici, e rafforzerebbe l’ipotesi di una sua iniziazione durante la visita del mago in Portogallo». Misteri su misteri, insomma…

Tra le varianti del romanzo riportate in appendice ne figura una, molto “pessoana”: «Realtà e finzione sono l’una più interessante dell’altra». Potrebbe sigillare questa storia singolare, allestita da personaggi altrettanto misteriosi ed enigmatici. Imbattendosi in Pessoa e Crowley – così come in tutti gli uomini degni di questo nome – è sempre arduo stabilire quale tra le due dimensioni sia preponderante. Come se, poi, le realtà non fossero tante quante le finzioni… Ognuna con la sua Bocca dell’Inferno, naturalmente.

mercoledì 6 giugno 2018

Il Barone Immaginario - La vita di J. Evola in diciotto racconti

sabato 16 giugno dalle ore 17:00 alle ore 19:00



Presentazione del volume collettaneo «Il Barone immaginario» (Mursia, Milano 2018)

Intervengono:
Andrea Scarabelli, vicesegretario della Fondazione J. Evola
Marco Cimmino, autore
Augusto Grandi, autore

Per informazioni: info@ritteredizioni.com



Edizioni Ritter

Via Maiocchi, 28, 20129 Milano