mercoledì 22 luglio 2020

Medici di nome e di fatto: i segreti alchemici dei Granduchi stregoni

tratto da Il Giornale del 20/01/2013

Alambicchi, veleni, ricettari, quadri e antichi laboratori. Tre secoli di (proto)scienza alla corte della famiglia toscana

di Maurizia Tazartes

«Un'infinita varietà di fuochi, di fucine, di fornetti, e lambicchi» per esercitarsi a fondere metalli, trasformarli, studiarli. Era questo il vero regno dei Medici, descritto nel 1561 da Vincenzo Fedeli.

"Il laboratorio dell'alchimista" di Jan Van der Straet
Immagine tratta da Wikipedia

L'ambasciatore veneziano aveva visto di persona il granduca Cosimo I affaccendarsi a produrre farmaci nella sua fonderia di Palazzo Vecchio. Dal 1582 il figlio Francesco I trasferisce le varie botteghe dedite alla fusione dei metalli, all'oreficeria, alla ceramica, alla lavorazione del vetro, del porfido e della porcellana al secondo piano degli Uffizi. Non lontano dunque da quella suggestiva Tribuna, da poco restaurata, che ne fu il nucleo originario con i suoi tesori di naturalia, mirabilia e pretiosa.
L'alchimia è stata la grande passione che ha affascinato, insieme all'arte, tutti i Medici dal Quattrocento a metà Settecento. Nel corridoio degli Uffizi, dove si facevano esperimenti all'avanguardia, lavoravano insieme ad artigiani e operai gli stessi granduchi. Il colto Francesco I cesellava in una sua stanza al «banco di gioie», mentre in un ambiente vicino giocava il figlioletto Antonio e non lontano riposava nella sua camera la moglie Bianca Cappello. Un quadretto famigliare che la dice lunga sulla modernità di quei signori.
A raccontare l'assiduo lavoro in queste botteghe non ci sono solo gli affreschi cinquecenteschi di Antonio Tempesta e Alessandro Allori nel corridoio di levante, ma una mostra originale: L'alchimia e le arti. La fonderia degli Uffizi: da laboratorio a stanza delle meraviglie, in corso agli Uffizi stessi. Sessanta opere (dipinti, sculture, incisioni, manoscritti, rimedi farmaceutici e libri) portano nella cultura e mentalità del tempo con i suoi sorprendenti segreti.
A creare e sperimentare ricette farmaceutiche furono Cosimo I e i figli Francesco e Ferdinando. Sistemate in preziosi cofanetti intarsiati le pastiglie in terra sigillata (con l'arma del granduca), destinate ad alti dignitari della corte e a sovrani stranieri, curavano con la terra dell'isola dell'Elba gli sputi di sangue, le febbri maligne, le dissenterie. Mentre un particolare olio, detto di contravveleno e formato con migliaia di scorpioni, era utile contro la peste. Balsami a base di piante o di mummie egizie lenivano fistole, bubboni e piaghe. C'era anche la mummia artificiale o chimica, preparata con le carni di un uomo perito di morte violenta, che addolciva i dolori ossei, mentre per il male mestruale andava bene la tintura di corallo. Come poi fossero usati i medicamenti lo illustrano eccezionali codici come Dell'elixir vitae libri quattro del domenicano Fra Donato d'Eremita edito nel 1624, vari trattati di medici ed eruditi.
Nelle fucine alchemiche, rappresentate in magnifiche tele dipinte da David Teniers il Giovane, Gérard Thomas, Giovanni Domenico Valentini, è visibile il lavoro dell'alchimista, una specie di dotto filosofo che consulta libri tra orci, padelle, catini, strumenti vari in bronzo e rame e bracieri di fuoco. Le Illustrazioni alchemicometallurgiche del 1530-1535 del pittore senese Domenico Beccafumi descrivono l'arte fusoria personificando i metalli e gli artefici, attraverso suggestive xilografie che precorrono -con arte - la pubblicità televisiva di dentifrici e detersivi.
E poi ci sono loro i Medici, Cosimo I in un marmo rosso frammentario progettato dal Buontalenti, Francesco I in un medaglione di porcellana e in un dipinto anonimo, Ferdinando I in veste di cardinale, il nipote don Antonio con un orecchino di perla, singolare rimedio per la sua malattia agli occhi. E ancora Ferdinando II, diventato granduca a undici anni, allievo di Galileo, protettore delle scienze e fondatore nel 1642 della Sperimentale Accademia Medicea con sede a Palazzo Pitti. Altro che disimpegnati.

La mostra: «L'Alchimia e le Arti» (Firenze, Galleria degli Uffizi, sino al 3 febbraio, catalogo Sillabe), a cura di Valentina Conticelli

giovedì 16 luglio 2020

Un viaggio sulle tracce insanguinate dell'antichissima stirpe dei vampiri

tratto da Il Giornale del 16/11/2019

Nick Groom esplora la letteratura e le leggende da cui è nato Nosferatu

di Luca Gallesi

Creature come il Mostro di Frankenstein e il Vampiro non sono accomunate soltanto dalle innumerevoli pellicole spesso di serie B- prodotte dalla leggendaria casa cinematografica Hammer, ma appaiono intimamente legate sin dalla nascita del loro mito.

Nella notte buia e tempestosa del 16 giugno 1816, a Villa Diodati, sul Lago di Ginevra, alloggiano Byron, il suo medico John Polidori, Shelley, la sua futura moglie Mary Godwin, e la sua attuale amante, nonché sorellastra di Mary, Claire Clairmont. Affascinati dalle storie gotiche, decidono di scriverne una ciascuno e premiare la migliore. Come sappiamo, fu la giovane Mary a vincere la competizione, con quello che sarebbe diventato il riconosciuto capolavoro del genere: Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo, mentre il racconto di Polidori, intitolato proprio il Vampiro, non fu particolarmente riuscito. Quello che non è noto, invece, è il legame tra il romanzo di Mary Shelley e la diffusione del nuovo concetto di vampiro del Romanticismo: lo scienziato Victor Frankenstein, infatti, considera la sua creatura «come il mio vampiro, il mio spettro uscito dalla tomba e destinato a distruggere tutto ciò che mi era caro». Con vampiro intendeva un predatore cattivo e ripugnante, esattamente ciò che voleva dire anche la prima moglie di Shelley, Harriet, quando scoprì i molteplici tradimenti del marito: «L'uomo che ho amato una volta è morto. Adesso è un vampiro!».

Troviamo questo insospettato collegamento tra fantasia e realtà in un avvincente saggio: Vampiri. Una nuova storia, di Nick Groom (il Saggiatore, pagg. 388, euro 25, traduzione di Denis Pitter), dove i mostri come li conosciamo oggi, ossia tramite la loro rielaborazione cinematografica, hanno poco spazio, dato che, come dimostra l'autore, professore di Letteratura inglese all'Università di Exeter, la figura del vampiro affonda le radici in un'epoca arcaica lontanissima dalla rielaborazione romantica e contemporanea. Ben prima del successo del romanzo Dracula, di Bram Stoker, infatti, i vampiri popolano trattati di teologia, referti medici, diari di viaggio, poesia e narrativa, mischiando scienza e superstizione, come questo saggio racconta, documentandone le remote origini slave.

È durante l'Illuminismo che il vampiro esce dal folklore para-religioso per assumere il ruolo di cattivo, quando Rousseau e Voltaire lo assimilano al commercio, gli scambi e l'intermediazione azionaria, esattamente come, nel secolo successivo, lo utilizzerà Marx quale metafora del villain, identificando l'ordine borghese con «un vampiro che succhia il sangue e il midollo». Anche nel Novecento, il Vampiro viene spesso utilizzato come metafora di cattiva politica, ad esempio quando addirittura un gentiluomo compassato come Keynes taccia il primo ministro David Lloyd George di essere «una persona radicata nel nulla, un vampiro!».

A riabilitare il vampiro, se non altro come elegante e irresistibile nobile, ci penseranno, nella seconda metà del secolo scorso, le pellicole interpretate dall'affascinante Christopher Lee, per giungere, infine, ai succhiasangue contemporanei, che popolano piccoli e grandi schermi, da Twilight a True Blood, fino a quelli più inquietanti, curiosamente dimenticati da Groom, ovvero i protagonisti del romanzo di Richard Matheson e dell'omonimo film- Io sono leggenda. Qui, in un crudele contrappasso, è l'ultimo essere umano sopravvissuto a incarnare il Mostro sanguinario, l'assassino spietato, l'incubo dei vampiri, stirpe che ormai domina, contrastata solo dall'ultimo uomo vivente, il pianeta.


mercoledì 1 luglio 2020

Breve recensione a "L'altra Europa" di Paolo Rumor

di Cavaliere Vermiglio

Il libro "L'altra Europa" di Paolo Rumor, Giorgio Galli e Loris Bagnara, è stata riedito dalla Panda Edizioni di cui possediamo una copia. L'edizione non è delle migliori. La carta è spessa quasi da sembrare un cartoncino: una grammatura eccessiva per il tipo di libro che non presenta ampie pagine o foto a colori. Invece di usare una carta così pesante si sarebbe potuto optare per una carta meno spessa, ma di colorazione avorio invece di un bianco lucido che dà fastidio agli occhi. Cosa più grave è che con una carta così spessa il libro ha un certo spessore e l'editore ha deciso una più economica rilegatura incollata e ciò determinerà prima o poi che le pagine si staccheranno. Intanto raggiunta la metà il libro si è aperto in due e devo fare attenzione affinché le pagine centrali non si stacchino dal dorso dove sono appiccicate con della semplice colla. Poteva essere fatto meglio.

Passiamo ai contenuti. Per chi ha letto "Le impronte degli dei" di Graham Hancock anche senza ulteriori approfondimenti ci si troverà di fronte a frequenti déjà vu intuendo nel corso della lettura dove si andrà a parare. Anche senza leggere le note degli altri autori al memoriale di Rumor il più delle volte si intuiscono i riferimenti. Ciò genera una frequente sensazione di perplessità su ciò che si legge. Non si riesce a capire se si tratta di un'opera costruita a tavolino disseminando indizi che rimandano alle teorie di Hancock e di altri autori dello stesso filone o di un racconto genuino. Paolo Rumor racconta di aver saputo quello che scrive dal padre che ha recuperato quelle informazioni negli anni cinquanta, ben prima che certi argomenti fossero noti al grande pubblico. Il problema è che l'archivio del padre è andato perduto e le uniche prove sarebbero i suoi appunti risalenti a quegli anni. Spero che gli altri due coautori abbiamo avuto modo di vedere gli appunti originari di Rumor per verificarne la reale vetustà. Immagino che non sia difficile antichizzare dei documenti, ma almeno un confronto visivo può permettere di verificare che gli appunti non siano stati scritti oggi. Poi se risultassero vecchi si porrebbe il problema dell'autenticità e se siano stati antichizzati. Mi chiedo perché Paolo Rumor avrebbe preso degli appunti sul lavoro del padre e copiato cartine ed elenchi di nomi. Appunti che sarebbero tornati utili decenni dopo per la stesura del libro.
Nella terza parte a cura di Loris Bagnara ci viene svelato ciò che si era già capito, ovvero che la misteriosa camera dei segreti di cui parlano i documenti di Rumor, non è altro che la famosa camera nascosta a Giza sotto la Sfinge di cui si favoleggia da un po'. Poi il resto è una sorta di compendio dove ai nomi della lista di Rumor si cerca di dare una collocazione storica e dei dati biografici.
La parte conclusiva scade nel più comune complottismo cercando di dimostrare che essendoci delle prove di un complotto, la tesi di Paolo Rumor è plausibile. Si recuperano i famigerati Protocolli dei Savi di Sion, affermando che nonostante siano falsi contengono delle intuizioni corrette. Alcune tesi economiche appaiono decisamente semplicistiche e per quanto riguarda l'idea sulla necessità di una riduzione della popolazione, non ci troviamo di fronte ad un complotto bensì a delle tesi pubblicamente esposte e risalente almeno a Malthus e riprese dagli odierni ecologisti, passando anche per il nazismo con il concetto del Lebensraum (spazio vitale). In Italia abbiamo avuto il Club di Roma che pubblicamente metteva in allarme per la fine delle risorse, che pronosticavano che sarebbero dovute finire già da un pezzo.
Il libro ci lascia decisamente perplessi. Si è tentati di pensare di trovarsi di fronte ad un'operazione commerciale per confezionare un libro che venda qualche copia, riprendendo i temi di un'antica civiltà scomparsa che ci ha lasciato un retaggio. L'ultima parte complottistica e decisamente semplicistica ci fa temere che gli autori abbiamo voluto imbastire un testo complottista partendo da lontano come può essere l'idea di un'antica civiltà evoluta distrutta dalla fine dell'ultima era glaciale. In breve, viene il dubbio di aver speso male tempo e soldi.


Per approfondire: