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lunedì 6 febbraio 2023

CARAVAGGIO ALCHIMISTA DELLA PITTURA & I ROSACROCE

Tratto da Pangea.news

di Claudia Gualdana

“Le tenebre sono semplicemente la contrazione della luce”, scriveva Robert Fludd nella Medicina cattolica. Solo chi ancora non ha letto il Caravaggio di Dalmazio Frau (Caravaggio, luci ed ombre tra alchimia e altri misteri, Bastogilibri), può trovare ardito questo accostamento. Robert Fludd di Michelangelo Merisi è contemporaneo, ma il primo è uno dei massimi mistici inglesi, l’altro uno dei più grandi artisti della storia. Non si sono mai incontrati. Fludd scrive di elementi, eppure sembra suggerire l’atmosfera di lotta tra la luce e la tenebra che va in scena in alcuni capolavori del Caravaggio.

Prendiamo, per esempio, il celebre Amor Vincit Omnia, un olio su tela oggi conservato a Berlino, che per Frau è l’opera in cui “più sono evidenti i messaggi rosacruciani di filosofi quali Fludd e Maier”. Nella tela un Eros sorridente emerge da uno sfondo di assoluta tenebra, tanto che le sue carni bianche sembrano rilucere. È questo, a mio vedere, il miracolo della pittura del Merisi: strappare le forme della vita dall’indistinto cupo, profondo, del buio senza forma. Come se prima del suo tratto magico nulla esistesse. Dipingere come dare la vita. Prendere la materia e insufflarle il respiro nelle vene, in un religioso fiat lux di biblica memoria. A misura d’uomo, s’intende.

Non sono elucubrazioni, sono le suggestioni che Frau dissemina sapientemente attirandoci in un dedalo di riletture dei capolavori caravaggeschi in una sorta di giallo per iniziati alla pittura e all’alchimia. E infatti nell’Amor Vincit Omnia – l’amore vince ogni cosa – legge il compasso e la squadra ai piedi della divinità greca in ottica ermetica, unendo a tali strumenti il significato della musica, ben rappresentata dal liuto e dal violino.

I Rosacroce, di cui faceva parte Fludd, erano una loggia iniziatica tedesca di ispirazione cristiana che esisteva da ormai due secoli. Gli adepti erano avvolti nel mistero. E di nuovo ci si può domandare cosa c’entri quel geniaccio incline alla violenza e a Venere con le sottigliezze intellettuali di uomini in cerca di un perfezionamento interiore che con le armi e i postriboli non potevano aver niente da spartire. Frau suggerisce la soluzione del rebus accompagnandoci nei sacri palazzi di Roma, città in cui Merisi visse il massimo splendore del suo astro, disgraziatamente destinato a spegnersi in fretta. Ed ecco che il mistero dell’arte del ribelle dal pennello magico si dirada: egli era il braccio teso a descrivere significati che provenivano da pozzi di scienza sacra, del quale forse neanche era del tutto consapevole.

Il braccio di un alto prelato romano, il cardinale Francesco Maria del Monte. Per lui dipinse, tra l’altro, Giove, Nettuno e Plutone, il suo unico affresco, al Casino Ludovisi. Un vero e proprio gabinetto alchemico la cui esistenza fu scoperta solo nel 1969. Merisi porta la luce in uno spazio angusto, staglia le figure in scorcio esaltandone, come suo uso, la virile nudità, tracciando tra le righe lo zodiaco e gli stadi del processo alchemico in una sorta di athanor dipinto. In fondo non c’è niente di strano in questo. Tutta l’arte rinascimentale è un movimento tellurico di simboli, allegorie, rimandi mistici e paganeggianti, in un inno alla natura che sottende un nuovo modo di fare filosofia. Un dipingere per ricreare l’esistente, replicarlo all’infinito in quel gesto prometeico che è l’arte maiuscola: un tentativo di strappare il fuoco agli dei. Che in Caravaggio è perfettamente riuscito.


mercoledì 4 novembre 2020

Leonardo mago dell'arte (esoterica)

tratto da "Il Giornale" del 17/08/2020

Le fonti iconografiche del genio da Vinci includono Vangeli apocrifi e alchimia

di Claudia Gualdana

Sarà anche un'ovvietà affermare che Leonardo da Vinci è indecifrabile, eppure non lo si può evitare. Avvolto nel mistero, lascia sempre a mani vuote chi cerca di agguantarlo per classificarlo in qualche categoria.

La sorte della sua arte fa pensare un po' alla musica di Mozart uno dei pochi geni a lui paragonabili - che tutti ascoltano rapiti, ma senza afferrarla. Tuttavia, a differenza di Mozart, Leonardo era poliedrico. Ha dipinto, scritto, inventato. Le celebri macchine volanti e i meno noti strumenti musicali: progetti che tuttora sbalordiscono e mettono tutti quanti d'accordo almeno su un punto: da Vinci era un genio. Anzi, il genio. Eclettico al punto di essere ingaggiato persino, si direbbe oggi, per «organizzare eventi». Come la Festa del Paradiso, ossia le nozze di Gian Galeazzo Maria Sforza e Isabella d'Aragona. Riporta questo episodio l'artista e storico dell'arte Dalmazio Frau, che al grande fiorentino dedica L'angelo inquieto. Scienza e magia in Leonardo da Vinci (Iduna Edizioni, pagg. 132, euro 14) sottolineando che, almeno nell'intento di da Vinci, furono soprattutto nozze alchemiche. Perché è l'alchimia, o meglio l'ermetismo rinascimentale, la chiave di lettura qui proposta nel tentativo di risolvere l'enigma Leonardo. In verità, l'autore pone domande, più che dare risposte, e questo è senza dubbio uno dei pregi del suo libro. La prima tessera del suo mosaico è il titolo. L'angelo, perché Leonardo si pone al di sopra e al di là del maschile e del femminile. L'unicità della sua persona travalica e riassume l'essenza dei due principi nella perfezione dell'androgino una figura alchemica - spazzando via così le illazioni sul suo orientamento sessuale, di cui francamente in una società seria non importerebbe a nessuno. Inquieto, perché eccezionale e figlio del suo tempo, il Rinascimento del neoplatonismo del circolo di Marsilio Ficino, e come tale aperto al passato e in egual misura al futuro, certo della perfezione del cosmo e forse di poco altro.

Inquiete furono anche le sue opere. Per alcune di queste, l'autore propone una lettura ben lontana dalla voga scientista in auge da fin troppo tempo. La più affascinante è quella de La vergine delle rocce del Louvre, che riporta alla memoria la lezione di Erwin Panofsky. Giornalisticamente si può riassumere così: nell'arte rinascimentale il bello è il guscio, ma se si vuole l'uovo il guscio va rotto. C'è un mondo intero inscritto nell'arte maiuscola, se la si guarda con lenti che svelino il pensiero a essa sottesa. Ce n'è più di uno in quella di Leonardo, che lascia sempre lo spiraglio per un'interpretazione altra. «Vorremmo che certi dipinti ci invitassero dentro il quadro per partecipare al loro modo di essere», è la frase di Nicolás Gómez Dávila scelta per aprire il capitolo, e l'autore proprio nel quadro ci porta. Nella vicenda che vede il dipinto rifiutato dai committenti ed eseguito in due versioni (l'altra è alla National Gallery di Londra). Nei pressi della Vergine, ritratta in un contesto rivoluzionario rispetto alla tradizione, appunto tra le rocce, ossia in una grotta, simbolo, tra gli altri, di rinascita e del passaggio nell'aldilà. Vicino al piccolo Giovanni Battista, ma quello narrato nei vangeli apocrifi. Di fronte alla bellezza sfrontata dell'arcangelo Gabriele, o forse Uriel, condannato all'oblio da Papa Zaccaria nel 745, quando fu stabilito che gli arcangeli dovevano essere soltanto tre. Egli sorride di quel sorriso che è la cifra dei suoi volti più sfuggenti. I protagonisti di Leonardo sorridono quando ingannano. Dubbia è l'identità dell'arcangelo della Vergine delle rocce come lo è quella di Monna Lisa e di Salai. Sorridono perché un po' ci canzonano: come se sapessero chi siamo, mentre noi ancora non abbiamo idea di chi davvero siano loro. Sta anche in questo la sua grandezza: accompagnarci per sentieri di cui non si vede la destinazione. Dalmazio Frau lo ha capito bene e ci ha dato la chiave per aprire la porta del labirinto, poi sta a noi vedere se ne veniamo a capo.


sabato 31 ottobre 2020

Merlino, Morgana e Artù. Sulle tracce degli eroi ​più moderni del Medioevo

tratto da "Il Giornale" del 05/08/2020

Altro che secoli bui, la saga della Tavola Rotonda è piena di energia, colore e forza letteraria. Einaudi pubblica in volume il corpus arturiano

di Claudia Gualdana

Il Medioevo è un dilemma. Chi ne sa nulla lo marchia con aggettivi spiacevoli: buio, oscurantista, barbaro. Chi lo conosce ne preferisce altri, per esempio fantastico. È infatti il termine compare nel titolo di due opere importanti dedicate all'evo di mezzo (Il medioevo e il fantastico, Il medioevo fantastico), rispettivamente di Tolkien e di Baltrusaitis.

Un luogo della memoria a tal punto controverso val bene qualche lettura. I capolavori non mancano, e ce n'è uno fresco di stampa. È Artù, Lancillotto e il Graal Volume I (La storia del Santo Graal, La storia di Merlino, Il seguito della storia di Merlino, a cura di Lino Leonardi, Millenni Einaudi, pagg. 1116, euro 90), un testo maestoso con introduzioni accurate, brevi compendi, apparati critici, note, immagini tratte da manoscritti originali. Tra l'altro è un evento editoriale: l'intero ciclo, di cui l'opera è il primo volume, non era mai stato tradotto integralmente in italiano moderno. Neanche in Francia è stato trattato come merita, è entrato nella Pléiade solo pochi anni fa e tuttora si fatica a considerarlo un classico. Eppure materia e cifre stilistiche sono da capogiro. Siamo nel regno del meraviglioso per eccellenza: il ciclo arturiano ai suoi inizi, che gli autori radicano in Terra Santa, nel segno della cristianizzazione delle terre del nord. Il tutto con un rutilante corollario di storie d'arme e d'amore, donzelle, cavalieri, re e principesse, contese e battaglie, creature fantastiche e un mago che è una celebrità, Merlino.

Il curatore ricorda che Lancillotto compare nella Commedia di Dante: laddove Francesca parla di un libro che fu galeotto nell'amore con Paolo allude proprio al Lancelot-Graal, chiamato dagli esperti «ciclo della Vulgata». Di cui la prima parte è quella in cui ci si perde in queste pagine lunghe eppure tanto veloci e leggere, per la quantità di storie incastonate che rapiscono e trasportano in un mondo sospeso a mezz'aria, sideralmente opposto a quello quotidiano.

L'avventura, il mistero. La lotta perenne tra il bene e il male. L'amore, la morte. Ed è la base del grande romanzo europeo, perché il ciclo arturiano è anche un viatico all'elaborazione psicologica dei personaggi. Lancillotto è il prototipo del cavaliere e dell'uomo perfetto, colui a cui ciascun giovane, a quei tempi, avrebbe dovuto ispirarsi. Bello, onesto, valoroso, pronto a morire per un ideale, eppure terribilmente umano, tormentato com'è dall'amore per la Regina Ginevra. Sarebbe ozioso riassumere qui una trama tanto intricata. Essa solca decenni attraverso la penna di scrittori diversi, talvolta celebri, talaltra abilissimi a nascondersi per mettere in primo piano soltanto la leggenda, e laddove uno conclude appare un altro a prendere i fili per riannodarne di nuove, sempre in nome della fedeltà verso quanto scritto prima. Meglio dunque fermarci agli esordi, che danno linfa e ragion d'essere a tutto ciò che verrà dopo.

Sappiamo che il ciclo è stato scritto nella Francia settentrionale nei primi decenni del Duecento, ed è stupefacente non tanto per «l'estensione inaudita» - scrive Leonardi quanto per il suo essere, per la prima volta in Europa, del tutto sradicato dal mondo greco-romano. Non da quello cristiano. Il primo libro della trilogia qui proposta è il Conte du Graal, non il capolavoro di Chrétien de Troyes, ma quello redatto da un monaco anonimo, probabilmente un eremita, secondo il quale la storia gli sarebbe stata consegnata direttamente da Gesù. Mirabolante espediente letterario per fondare un'epopea cristiano-barbarica: nel prologo il chierico spiega che, nella notte del giovedì santo di settecentodiciassette anni dopo la Passione, il Cristo gli appare e gli affida il Libro, scritto di suo pugno. L'eremita scopre così che gli evangelizzatori del nord erano dello stesso lignaggio di Gesù. Quindi legge per noi la straordinaria avventura umana di San Giuseppe di Arimatea, che nei Vangeli si occupa della sepoltura del corpo di Gesù. Gli apocrifi e la fantasia medievale lo hanno trasformato nel personaggio leggendario che avrebbe evangelizzato interi popoli portando con sé il Santo Graal, una ciotola in cui aveva raccolto alcune gocce del sangue di Cristo.

Il ciclo arturiano fiorisce quindi nella santità dei dogmi cristiani, in modo particolare la transustantazione, la trasformazione del pane e del vino in carne e sangue, come stabilito dal Concilio lateranense del 1215.

È come se la cornice sacra inquadrasse tutte le altre vicende, in una serie di mise en abyme che senza di essa si perderebbero in mille rivoli. E invece no, se persino il racconto della vita di Merlino, mago, e dunque di ascendenza in qualche modo demonica, trova nel santo battesimo una sorta di esorcismo e di nobilitazione. I due libri rimanenti sono dedicati a questa figura di indovino semi-selvaggio, come se la parabola salvifica del Cristo volesse per suo tramite purificare tutto ciò che a settentrione era stato prima della lieta novella. Il profeta indovino è il ponte che unisce la Terrasanta al nord Europa, Giuseppe di Arimatea e Lancillotto, la salvezza cristiana e il sottobosco pagano che essa ingloba e rettifica. Una strategia narrativa geniale, in cui una creatura destinata al paganesimo viene riscattata al bene, così come terre barbare sono conquistate alla civiltà in nome del Vangelo. Quindi questa storia quasi senza fine ha un fine nella conquista della perfezione cristiana.

Nella cerca c'è spazio per una commedia umana pre moderna in cui la grande assente è la noia, anche per il buon gusto che ha il narratore di starsene in un angolo, con grande beneficio per i caratteri sulla scena. Non c'è spazio neanche per il buio, perché i colori sono davvero tanti. Il blu del mare solcato dalla nave di Salomone; il rosso dei capelli della fata Morgana, sorella di Artù. L'oro della coppa del Graal apparsa a Parceval in un castello incantanto. Il verde delle foreste del nord Europa. Un caleidoscopio che fa pensare alle vetrate coloratissime delle cattedrali gotiche. Che stanno lì da secoli, radicate e solide. Proprio come la leggenda di Artù e dei suoi cavalieri immortali.



sabato 8 settembre 2012

PER CAPIRE RENÉ GUÉNON

tratto da "Il Sole 24 Ore" del 9 maggio 1999

Metafisico e tradizionalista

di Claudia Gualdana

Nel 1886, a Blois, in Francia, nacque un uomo le cui opere, a quasi cinquant' anni dalla sua morte, dividono ancora il pubblico in lettori appassionati e detrattori. Stiamo parlando di René Guénon, imparziale critico dell' Occidente moderno. Dopo un lungo silenzio, da qualche anno i suoi scritti ricompaiono nei cataloghi di alcune raffinate case editrici. Del pari, sono ricomparsi anche equivoci e confusioni che, paradossalmente, da sempre accompagnano l' opera del più olimpico espositore delle dottrine tradizionali.

Di Guénon, si è detto e scritto di tutto, sovente a sproposito. Tuttavia, è possibile dissipare la nebbia che lo circonda, grazie a un libro uscito in questi giorni da Luni. Si tratta di René Guénon e l' Occidente, curato da Pietro Nutrizio, il maggiore esperto dell' opera del metafisico francese; nel volume, sono raccolti alcuni saggi pubblicati negli ultimi anni nella Rivista di Studi Tradizionali. Seguendo la direzione indicata da Nutrizio e Balestrieri, è possibile afferrare lo scopo dell' opera di Guénon e, in modo particolare, sfuggire gli equivoci.

Guénon non era un filosofo. Egli era un metafisico poiché la filosofia, nell' accezione moderna del termine, è il dominio del razionale distaccato dal principio divino, dunque una forma di pensiero legata all' individualità, alla sfera mentale e sentimentale. Dunque, nulla a che vedere con l' intellettualità pura, alias "ciò che gli Indù designano con la parola jnana (...), identica al greco Gnosis attraverso il suo radicale, il quale del resto è anche quello della parola conoscenza (da co-gnoscere), ed esprime un' idea di "produzione" o di "generazione", perché l' essere "diventa" quel che conosce e realizza se stesso attraverso tale conoscenza".

Diremo che non fu uno scrittore, bensì un tramite, attraverso cui trovano equa collocazione le concezioni metafisiche che riposano alla base di ogni tradizione ortodossa. Aggiungeremo anche che non fu certo un occultista, e che è un' assurdità far risalire le sciocchezze diffuse dalla new age alle concezioni da lui esposte. Lo dimostrano tutte le sue opere, ma in modo particolare Errore dello spiritismo (Luni editrice 1998), in cui Guénon mina le incerte fondamenta delle elucubrazioni di occultisti e spiritisti. Egli non scrisse opere "mistiche": i mistici sono degli irregolari, in quanto non ricollegati tramite iniziazione a tradizioni esoteriche ortodosse.

Guénon, pur essendosi convertito all' Islam, non spinse mai gli europei in tale direzione. Lo chiarisce egli stesso in Oriente e Occidente (Luni 1993): "Si tratta non di imporre all' Occidente una tradizione orientale, con forme che non corrispondono alla sua mentalità, ma di restaurare una tradizione occidentale con l' aiuto dell' Oriente". Concluderemo dicendo che il metafisico, considerato un pensatore di destra, non si occupò mai di politica, essendo la scienza sacra svincolata da implicazioni di tale natura.

Nell' ultimo capitolo di Autorità spirituale e potere temporale (Luni 1995), egli ebbe a scrivere: "Gli insegnamenti di tutte le dottrine tradizionali sono unanimi nell' affermare la supremazia dello spirituale nei confronti del temporale, e nel considerare normale e legittima soltanto l' organizzazione sociale in cui tale supremazia sia riconosciuta". Da questa dichiarazione, possiamo capire in quale senso egli fu antimoderno, così come comprendiamo che non avversò il cristianesimo. Guénon, a differenza dei suoi contemporanei, fornì una prospettiva sovrastorica, metafisica, alla decadenza dell' Occidente.

La sua disinteressata preoccupazione, fu quella di far comprendere che la tradizione non si apprende solo dai libri: lo studio è il primo passo su una strada assai lunga. Di chiarire che la metafisica costituisce il vero esoterismo, il quale non ha nulla a che vedere con quella congerie di stramberie cui alcuni alludono. Con Guénon, comprendiamo che l' uomo non ha in sé la sua ragion sufficiente, e che ogni civiltà "normale" si fonda su "principi intellettuali, o "spirituali", superiori al "divenire" e di origine tradizionale". Chi legge le sue opere, intuisce cos' è la tradizione primordiale. Chi ancora non le ha lette, può per lo meno meditare su una sua dolorosa riflessione: "La Somma teologica di San Tommaso d' Aquino era, al suo tempo, un manuale a uso degli studenti; dove sono oggi gli studenti in grado di approfondirla e di assimilarla?".


Pietro Nutrizio e altri, "René Guénon e l' Occidente", Luni Editrice, Milano-Trento 1999, pagg. 446, L. 42.000.