sabato 23 novembre 2019

RENÉ GUÉNON E L’IDEA METAFISICA*

tratto da: https://drive.google.com/file/d/12D2WJoksEsGgzOrHigN2cWcH7xJgsPb4/view

André Préau

Qualunque siano le conseguenze pratiche che sono state e potranno essere tratte dall’opera di René Guénon e quali che possano essere gli apprezzamenti cui darà luogo, v’è un punto sul quale i suoi fedeli lettori hanno sempre concordato: il loro attaccamento a quest’opera viene prima di tutto da ciò che ha permesso loro di “comprendere”. Per loro, tutto a un tratto, il caos intellettuale in cui vive l’uomo moderno s’è ordinato: hanno avuto la fortissima impressione di “vedere” e, se non “vedevano” tutto, almeno avevano la consapevolezza di possedere, per studiare qualsiasi questione, una posizione nuova e, a loro avviso, superiore. Analizzare quest’impressione, questa “sensazione” di chiarezza che il lavoro di René Guénon dà è un compito più complesso di quanto paia a prima vista; e ci limiteremo a chiarire l’elemento centrale, essenziale, della lucidità guénoniana e che è, crediamo, l’idea metafisica.

Quest’idea che, come ciascuno sa, Guénon ha presentato soprattutto nella sua forma indù, si riassume in poche parole: identità del Sé e di Brahma, Infinito e manifestazione, Essere e Non-Essere, stati molteplici. Quest’idea è “metafisica” in quanto è “ultima”, vale a dire che assicura alla mente la possibilità più grande: ora l’idea dell’Infinito apre all’intelligenza un campo illimitato in cui ogni cosa, qualsiasi visione dell’animo, persino qualsiasi errore, può trovare il suo posto. Permette così d’avvolgere tutto e di riportare tutto all’unità, il che è la prima condizione d’ogni comprensione. E, l’Infinito essendo in una volta Essere e Non-Essere, luce e tenebre, affermazione e negazione, può essere l’origine di tutte le posizioni come di tutte le esclusioni, avvicina e tiene a distanza, identifica e distingue, fa brillare e spegne. Con ciò è principio d’unione e di separazione e, per gli innumerevoli nessi, talvolta stranamente opposti, che implica tra tutte le forme e tutte le idee, è l’origine allo stesso tempo di discordia e d’armonia, di lotta e di conciliazione, vale a dire di vita intellettuale nel senso più elevato della parola, vita “intelligibile” cui partecipiamo debolmente e che è in definitiva quella della stabilità principale. Unità, non-limitazione, dualità del sì e del no, gerarchia: in questa complessa idea, l’intelligenza trova tutti gli elementi di un ordine universale, vale a dire che si
ritrova essa stessa e, con lei, tutti i modi, forme e “intenzioni” del pensiero, tutti i possibili giochi di conoscenza e d’ignoranza.

Quest’idea, come Guénon ha ben visto, non è puramente e semplicemente tradizionale, nel senso che vi sono delle tradizioni che non sono metafisiche. La dottrina dell’identità del Sé e di Brahma, che ne è un aspetto essenziale, è ignorata dal Buddismo e non è riconosciuta da alcuna delle tre tradizioni monoteiste. È anzitutto una dottrina del Brâhmanesimo, ma anche del Taoismo e del “Platonismo”; in realtà, allo stato attuale dei documenti accessibili, tali sono proprio le tre grandi sorgenti metafisiche dell’umanità. Va anche aggiunto che, pur lasciando da parte la negazione buddistica, la dottrina dell’identità non è stata criticata in nessun luogo più aspramente che in India, proprio là dove s’era affermata il più fortemente e dove poteva far valere numerosi testi delle Upanishad; e questa critica non è venuta soltanto dal vishnuismo, ma anche dallo shivaismo, segnatamente da quell’importante branca dello Shaiva-Siddhânta. Quest’atteggiamento di numerosi maestri indù è, in ultima analisi, con ogni probabilità imputabile a un indebolimento dello spirito metafisico; ma, poiché la dottrina dell’âtmâ è fondata su dei testi formali della Shruti, è ragionevole supporre che non avrebbe mai incontrato un’opposizione così forte e così estesa se l’esperienza non avesse dimostrato che il suo insegnamento non era privo di pericoli e che il suo senso vero era più sottile di quanto sembrasse a prima vista. L’indù, che si sa identico a Brahma, è tentato di considerare Brahma, che risiede nel loto del suo cuore, come una sorta di gioiello nascosto che sarebbe suo e di cui dovrebbe solo prendere possesso. La “realizzazione” spirituale, con cui diventa ciò che è, viene allora intesa come una sorta d’“affare personale”, per il quale i mezzi tradizionali sono solo procedimenti di risveglio e dei coadiuvanti: l’essenziale per l’uomo è di far penetrare la punta della sua coscienza attraverso tutti gli involucri che gli velano il Sé. Tale realizzazione, in altre parole, rischia assai d’essere concepita semplicemente come il ratto e l’assimilazione del Sé da parte dell’io, mentre essa è anche, e ancor più, il dono del Sé all’io e l’evizione dell’io da parte del Sé. Il Sé universale non è un possesso dell’io individuale, è il suo essere nascosto, cioè si rivela a lui quando piace. Da qui l’insistenza dei maestri sugli atteggiamenti d’amore e di sottomissione e sull’importanza della grazia (prasâda, anugraha, shaktipâta), che non era d’altronde stata dimenticata dalle scuole rimaste legate alla pura dottrina dell’identità, quali il vêdânta shankariano e lo shivaismo del Kashmir.

In modo generale, una dottrina spirituale è, in quanto tale, un’antropologia, cioè è d’ordine cosmologico. È una dottrina della dualità, poiché insegna una via, una direzione, definita al tempo stesso dal suo punto di partenza e dal suo punto d’arrivo: è mediatrice tra jîvâtmâ e Paramâtmâ. La metafisica è per lei un’implicazione, non il suo stesso corpo; e le difficoltà intellettuali che offrirà deriveranno spesso dalla necessità d’armonizzare le formule, sovente contraddittorie, della metafisica e della cosmologia. Una metafisica leggermente irrigidita minaccia la spiritualità; e questa, per difendersi, s’è frequentemente rifugiata in dottrine dualiste e pluraliste che, a loro volta, compromette
vano la sua fondamentale ispirazione dandole un carattere più o meno arbitrario.

Quest’ultima soluzione tuttavia non è stata quella del buddismo, come se obbedisse suo malgrado a qualche secondo fine metafisico. Partendo, come l’Induismo, della dualità del samsâra e della liberazione, distrugge il primo termine con l’idea d’illusione, di vuoto; e, quanto al secondo, lo vela in un’apofasi assoluta. Realizza l’unità in modo negativo, è l’unità del Vuoto. Infine, per dare il colpo di grazie all’uomo e lasciarlo senz’alcuna prospettiva di futuro, che diventerebbe velocemente per lui l’occasione di un desiderio, rompe il sûtrâtmâ, che riunisce tra loro i vari stati dell’essere, e non lascia più di fronte all’asceta che un compito da adempiere. Alla lunga, come si sa, questa dottrina non ha potuto mantenere il rigore della sua negazione originaria(1).
Nelle tradizioni monoteiste, al contrario, si è in pieno “realismo” e la nozione scritturale di creazione è stata interpretata dogmaticamente nel senso di un’irriducibile dualità del Creatore e della creatura. Senza dubbio si potrebbe far osservare che questa dualità, essendo d’ordine cosmologico e corrispondente a una prospettiva temporale, non contraddice la non-dualità metafisica. Si può considerare la creazione come inclusa nell’Atto eterno e infinito – Dio essendo e irraggiando per un solo e medesimo atto –; ma, dal momento che non lo si fa, si traspone quest’idea su un piano puramente razionale, temporale, la si “pensa” per mezzo di schemi la cui relatività è evidente e che implicano in qualche modo una dualità: o, in relazione a Dio, quella di un interno (il Creatore) e di un esterno vuoto che si tratta di riempire, o in Dio stesso quello della potenza, corrispondente allo stato “anteriore” alla creazione, e dell’atto, corrispondente allo stato “posteriore” o, se si preferisce, allo stesso Fiat creatore. Gli Indù hanno un Dio creatore, che è Brahmâ, ma il suo atto rientra nel dominio della Shakti, non in quello di Parama-Shiva. Senza dubbio la differenza e la distanza hanno i loro analoghi in ciò che abbiamo chiamato l’Atto eterno e infinito, che è l’unione, non la confusione, di Shiva e della Shakti: esse ne rappresentano dei “momenti” che una dottrina monistica rischierebbe di dimenticare. Ma i “momenti” dell’unità e dell’identità sono a loro volta, dal punto di vista in cui ci poniamo, un po’ troppo trascurati nelle teologie monoteiste, in cui l’unità divina s’oppone puramente e semplicemente alla diversità creata. L’esperienza degli spirituali, che ha fatto temere che il Sé, riconosciuto come divino, non venisse a gonfiare l’io invece di ridurlo e d’esaurirlo, ha con ogni probabilità giocato un ruolo importante nella costante affermazione del dualismo; cui è venuto ad aggiungersi, presso i teologi della Chiesa latina, l’influenza decisiva e ben nota dell’aristotelismo.
Se dunque la dottrina dell’identità non è accettata dalle tradizioni monoteiste, il minimo tuttavia che se ne può asserire è che infesta tutto il pensiero “platonico”, incluso il “platonismo cristiano”, per non parlare dei sufi, soggetti d’altronde alla duplice influenza dell’India e del neoplatonismo. S’è espressa, talvolta in modo molto chiaro, vuoi negli scritti di uomini naturalmente metafisici – ad esempio in Plotino e Nicola Cusano – o in quelli di spirituali che cercano di tradurre le loro illuminazioni. Ma, fondamentalmente estranea all’aristotelismo, è divenuta, dalla fine del Rinascimento, che è stato anche quella del platonismo, e malgrado certi sforzi dei cartesiani, e soprattutto dei filosofi romantici tedeschi, quasi estranea al pensiero moderno. L’opinione di Cartesio, che l’idea dell’Infinito fosse la prima di tutte, è rimasto per molti lettera morta e, in modo generale, la filosofia degli ultimi secoli è mancata del campo necessario alla sua speculazione. Sebbene reagisca oggi piuttosto fortemente contro il razionalismo e il materialismo, resta nondimeno lo specchio del suo tempo, ossia di un’epoca che trae dalle scienze positive la maggior parte del suo nutrimento intellettuale; e il desiderio, abbastanza naturale, di rimanere sempre in piena continuità con la scienza, di non abbandonare alcun punto di contatto con essa, la ricollega in realtà ai modi di pensiero e di conoscenza propriamente umani, razionali. Vorremmo quasi dire, se l’espressione non fosse così irriverente, che la filosofia moderna ha una palla al piede: la palla del “pensiero scientifico”, relativo per definizione. A parte alcune felici eccezioni, lo stato della filosofia contemporanea – per riprendere un paragone molto usato – è ancora sotto molti aspetti simile a quello dell’astronomia prima di Copernico: le costruzioni più ingegnose sono accumulate attorno a un postulato cui non si vuol rinunciare e che è qui la supremazia dell’uomo(2). Se si indica la “terra” come la dimora dell’uomo, il suo ambiente naturale, il “sole” come la verità che attrae le intelligenze, si potrebbe dire che l’attuale situazione intellettuale richiede una rivoluzione che faccia passare da un sistema geocentrico a un sistema eliocentrico, che faccia preferire la verità all’uomo, o più precisamente la verità in breve alla verità umana. Questa rivoluzione, Guénon l’ha compiuta per molti dei suoi lettori.
Ha restituito loro le regioni ipercosmiche e sovra-umane della realtà, quel che il pensiero moderno ha ritenuto di dover trascurare e quel che si è dimostrato incapace di sostituire. Senza dubbio si può giudicare che l’opposizione che Guénon ha stabilito tra le civiltà tradizionali e il mondo moderno è la parte della sua opera più visibile e più caratteristica; ma si sarebbe capita male senza il suo sfondo metafisico. Ecco perché ciò che abbiamo chiamato l’idea metafisica, con i suoi diversi aspetti e i suoi punti di partenza cosmologici, ci pare rappresentare la parte centrale del suo messaggio, la verità più “vivente” e più importante che ci abbia portato o richiamato. Siegfried Lang ha caratterizzato abbastanza bene la sua opera come un “rifugio della metafisica”.

Val appena la pena aggiungere che le verità più alte sono, per loro natura, proprie al dominio dell’inesprimibile e che non si rivelano con qualche formula, per quanto indovinata e opportuna possa essere. Mal si concilierebbero con procedimenti affrettati, che s’accontenterebbero d’opporre un dogmatismo a un altro dogmatismo. Come il ghiaccio di cui parla lo Yi-king («Si cammina sul ghiaccio. Grande circospezione»), i nostri concetti ci portano sempre solo fino a un certo punto; e la dottrina più chiara giace a nostra insaputa su un fondo yin, su un mistero, proprio come dietro al Deus revelatus, e velata dal suo splendore, si trova ancora il Deus absconditus che l’ha generato(3). Si tratterebbe, dunque, non tanto di “trasmettere” un’idea quale ad esempio quella dell’identità (se ne può solo trasmettere l’abito) quanto di studiarne le diverse espressioni, di meditarla e di comprenderla, se possibile, nelle sue più utili sfumature. Non è questione, beninteso, di cogliere lo spirito impercettibile in alcuna rete concettuale, ma soltanto d’affinarne e orientare la concezione, in modo che possa irradiare più liberamente in un dato ambiente mentale e, innanzitutto, in noi stessi.


* André Préau, René Guénon et l’idée métaphysique, in Études Traditionnelles,
n. 293-294-295, Numéro spécial consacré à René Guénon, 1951.

1) Per il suo spirito e le sue conclusioni, tale rigore può essere paragonato a quello di Simone Weil quando scrive che importa poco sapere se il Bene esiste o no, poiché in ogni modo «ciò che non è lui non è bene», o ancora che la questione delle ricompense non dev’essere posta, poiché implica un ritorno dell’anima a se stessa, un rilassamento del suo sforzo verso il Bene (vedi La connaissance surnaturelle, pp. 284 e segg. e p. 321).

2) Presso i tomisti, il postulato che non può essere messo in discussione è il “realismo” derivato dalla concezione aristotelica dell’“essere” e che fa considerare il platonismo, e ogni forma d’“idealismo”, come una tossina intellettuale.

3) Le formule e le definizioni dogmatiche, scrive Simone Weil, devono essere accettate, «non come verità, ma come qualcosa dietro cui si trova la verità» (Lettre à un religieux, p41)

mercoledì 20 novembre 2019

“Della Favola, del Viaggio e di altre cose” di Sergio Solmi in bancarella

Una piccola segnalazione libraria in collaborazione con Simone Berni (http://www.cacciatoredilibri.com/della-favola-del-viaggio-e-di-altre-cose-di-sergio-solmi-in-bancarella/)

ROMA PORTA PORTESE Domenica 8 Settembre 2019 Su una bancarella di Via Parboni, è stato avvistato un libro (pagine 109 in 8° piccolo) dello scrittore, poeta e saggista Sergio Solmi (1899-1981). Il volume s’intitola: Della Favola, del Viaggio e di altre cose – Saggi sul fantastico ed è stato pubblicato in prima edizione nel 1971 da Riccardo Ricciardi (Milano-Napoli). Si tratta di una raccolta di scritti che apparvero in riviste letterarie o furono presentati come prefazioni a libri di altri autori, qui riuniti per omogeneità di argomento. Il saggio viene offerto, come nuovo, a 15 € (E. P.)


giovedì 14 novembre 2019

Trofeo Letterario La Centuria e La Zona Morta

E’ partita la XII Edizione del “Trofeo Letterario La Centuria e La Zona Morta” per racconti fantasy con la collaborazione dell’Associazione “A Campanassa” di Savona e della manifestazione “Savona  International Model Show 2020”.
L’Associazione Culturale “La Centuria” e il sito “La Zona Morta” gestiranno le varie fasi dell'iniziativa e selezioneranno, tra gli scritti pervenuti, i racconti finalisti, i quali saranno poi valutati da una Giuria di qualità costituita da scrittori quali Davide Longoni, Donato Altomare, Filippo Radogna, Giovanni Mongini, Alessio Banini, Anna Giraldo ed Emanuele Manco, oltre a esperti appassionati del settore dell’Associazione “La Centuria”, dalla Prof.ssa BOTTINELLI Simonetta dell’Associazione “A  Campanassa” e da  autori di  giochi.
Ciascun testo verrà giudicato innanzitutto per l’originalità della trama e della scrittura, per la forma e la chiarezza  narrativa.
Per i primi cinque racconti classificati sono previsti un attestato, una medaglia e la pubblicazione sul sito internet de “La  Centuria” (www.lacenturia.it), sul sito internet “La  Zona  Morta”  (www.lazonamorta.it), sulla rivista cartacea “La Zona Morta Magazine” e sul sito di GdR www.dark-chronicles.eu, nonché sulla  brochure cartacea  ufficiale dedicata alla “Savona  International Model Show” prossima ventura e un libro a testa offerto dalle Edizioni Il Foglio Letterario.
Inoltre il primo classificato riceverà un Premio di 200,00 Euro, il secondo un  Premio di 100,00 Euro e il terzo un Premio di 100,00 Euro in buono-libri.
Per partecipare inviare i testi (max 4 per partecipante e max 21.600 caratteri, spaziature fra parole incluse) in formato .rtf e .txt a: associazione@lacenturia.it, longdav@libero.it e letteratura@dark-chronicles.eu.
La partecipazione al “Concorso letterario La Centuria e La Zona Morta” è pari a Euro 7,00 (sette/00), da versarsi tramite ricarica/accredito su Carta PostePay n. 4023 6009 1499 9893 intestata a Davide Longoni.
La scadenza è prevista per il 20 dicembre 2019, mentre la cerimonia di proclamazione dei vincitori avrà luogo nella tarda mattina/primo pomeriggio del giorno domenica 13 gennaio 2020 all’interno della Torre medievale del Brandale, Piazza del Brandale 2, a Savona (SV).
Ulteriori info all’interno dei siti citati.



mercoledì 6 novembre 2019

Le streghe in Toscana

in collaborazione con l'autore Michele Leone

tratto da http://micheleleone.it/le-streghe-in-toscana/

Un articolo della Rivista delle tradizioni popolari sulle streghe in Toscana

Le Streghe in Toscana è il primo articolo su streghe, stregoneria, stregheria e via dicendo, sperando di farti cosa gradita oltre a scrivere delle mie ricerche ti riporterò anche articoli o documenti dei secoli passati come ad esempio quello che stai per leggere. Pubblicato nella Rivista delle tradizioni popolari nel novembre 1894.

Ecco l’articolo sulle Streghe in Toscana

Le Streghe (credenze popolari pisane)

Nella Rivista delle tradizioni popolari è stato già pubblicato qualche cosa intorno alle streghe. In Toscana la credenza nelle streghe è molto diffusa, e potrà essere interessante porre in raffronto le diversità che presenta nelle varie Provincie e presso le diverse popolazioni una credenza uguale in origine. Esporrò qui intanto, senza fare commenti, quello che ho potuto raccogliere dalla bocca del nostro popolo.

Molto radicata e la credenza nelle streghe a Gello, piccolo paese vicinissimo a Pisa, che vive con l’industria dei tessuti; un’altra fonte di guadagno hanno le donne gellesi, le quali esercitano tutte il mestiere delle balie. Fu appunto la balia d’un mio bambino che mi fornì gran parte delle notizie che ora sono in grado di comunicare.

— Non bisogna crederci perché è peccato, ma le streghe ci sono; — ecco le sue precise parole.

Descrizione delle streghe in Toscana

Le streghe sono persone d’ambo i sessi, che mangiano e bevono, nascono e muoiono come tutte le altre; ce ne sono di vecchie e di giovani, di belle e di brutte, insomma per tutti i gusti: però, quando invecchiano, diventano più brutte delle altre. Possiedono un potere soprannaturale che possono esercitare a danno o talvolta anche a vantaggio degli uomini, e propagano la loro magia col semplice contatto, oppure anche somministrando bevande appositamente preparate, o facendo altre stregonerie. Hanno anche molti obblighi, come quello di lasciare le loro abitazioni per andar a girare nelle notti di mercoledì e di venerdì.

Le streghe, per la maggior parte, cercano di nascondere l’esser loro, che altrimenti sarebbero odiate e sfuggite; alcune però invece esercitano il mestiere, e queste potrebbero paragonarsi alle antiche sibille. Naturalmente indovinano il pensiero, leggono sulle dita delle mani, fanno certi speciali scongiuri e somministrano alcuni loro specifici per guarire persone affette da qualche malattia, specialmente nervosa. Molte volte riescono, forse per la fiducia con la quale il malato si sottopone alle loro cure, forse anche perché essi avranno fatto studi sull’arte medica, e conosceranno alcuni medicamenti utili in certe occasioni. Qui a Pisa ci sono stregoni d’ambo i sessi; pare, a quanto mi si dice, che gli uomini siano più reputati.

Nascere e diventare streghe in Toscana

Si può nascere stregoni e si può anche diventarlo in seguito. Tutti i bambini che nascono nella notte di San Giovanni (alcuni dicono anche di San Pietro) sono destinati alla stregoneria. C’è però mezzo di salvarli. Fino all’età di sette anni essi non acquistano il magico potere; bisogna che i genitori sorveglino il fanciullo nella notte di San Giovanni in cui egli compie il suo settimo anno, perché è allora soltanto che le streghe lo chiamano. Se alla voce che grida: — Vieni, alzati, — il bimbo risponde, egli è preso; se invece la madre, vegliando appositamente, risponde alle streghe prima che il figliuolo si desti, questi è salvo. Poiché pare, e ciò ho potuto dedurre anche da altri racconti, che le streghe non possano più esercitare il loro potere quando sono scoperte.

Questa credenza relativa alla notte di San Giovanni è molto diffusa: una donna di Campiglia Marittima mi narrò come una sua amica abbia udito la voce delle streghe che chiamavano il figliuolo, ed essendo essa andata con una granata per scacciarle, trovò, la mattina, la granata in bricioli sulla porta della sua casa.

Ho detto che si può anche acquistare in seguito il potere della stregoneria. Una strega, prima di morire, desidera di lasciare la propria eredità. Essa dice: — A chi la lascio? — e se qualche persona, credendo che la morente voglia alludere ad una eredità di danaro o di oggetti, risponde: — A me — in lei si trasfonde lo spirito della strega non appena questa abbia cessato di vivere.

Le tregende

Una volta c’erano anche le tregende, cioè processioni di streghe che giravano la notte a spargere i loro malefizi.

— Sarà una sessantina d’anni — mi disse la solita balia gellese — e alcuni vecchi si ricordano di averle vedute.

Ora, dopo che i preti benedicono le case e le strade di campagna, le tregende non ci sono più. Al proposito dei preti debbo segnalare un altro fatto, che mi è stato ripetuto da più d’una persona, e cioè che essi pure credono alle streghe, quantunque raccomandino di non parlarne per non spargere tali pregiudizi. Mi si assicura che molti preti, andando a benedire le case, dicono una benedizione speciale per allontanare i malefizi della stregoneria.

Guarire dall’ammaliamento e metodi per prevenire la stregoneria

C’è un santo al quale si rivolgono le persone ammaliate per esser guarite, e questi è San Valentino. Il malato dev’essere portato in una chiesa consacrata a quel santo; quanto più egli si avvicina alla mèta del suo viaggio, tanto più gli riesce difficile e faticoso proseguire la via, si dice perché le streghe vorrebbero impedirgli di giungere al tempio del santo liberatore. Il malato stesso pare che opponga resistenza, e dev’essere trascinato a forza dentro alla chiesa. Lì prorompe in grida e bestemmie, e se gli viene presentata l’immagine del santo, la ingiuria e la copre di vituperi. Poi, mentre si dibatte fra atroci spasimi, gli escono dal corpo gli spiriti che lo possedevano, e allora soltanto il malato, reso più mansueto, s’inginocchia a pregare ed a ringraziare il santo che lo ha liberato.

Anche questa credenza nel potere di San Valentino è assai diffusa. La donna di Cello aggiunse, a ciò che ho già narrato, che non sempre il santo è capace di fare la grazia. Allora la perlina ammaliata, nel delirio, dice per quanto tempo dovrà durare il suo male, e se confessa di essere stata stregata per tutta la vita, è condannata prima o poi a morire.

Si narra di una ragazza che, portata al tempio di San Valentino, disse di essere stata stregata per cinque anni. Difatti, corso quel termine, guarì, ed ora è monaca.

La strega stessa che ha ammaliata una persona è naturalmente capace anche di guarirla, anzi pare che sia in dovere di farlo quando venga scoperta. Vi è un mezzo per conoscere questa strega; però non tutti lo adottano, per quanto sia ritenuto infallibile, perché si dice che chi usa questo artifizio viene scomunicato. Mi si assicura che qualche madre, per salvare un figliuolo malato, abbia anche affrontato il pericolo della scomunica, e sia riuscita nel suo intento. Bisogna alla mezzanotte mettere a bollire in una pentola i panni della persona stregata, e bucarli con delle forche. Durante quest’operazione una persona verrà a picchiare all’uscio, e quella sarà la strega.

Molto spesso quando una persona è malata e i medicamenti valgono a farla guarire, il nostro popolo dice che quella persona è stata stregata. Quando, ad esempio, un bambino deperisce senza ragione, bisogna scucire il guancialino del suo letto, e se si trova la lana o la penna legate a trecce e a nodi, tal lavoro è opera di una strega, la quale per conseguenza deve aver stregato il bambino.

Per preservarsi dal pericolo della stregoneria, il nostro popolo, quando vede una persona sospetta, usa fare la castagna, come si dice comunemente, colle dita della mano; e c’è chi assicura che, mentre si fa questo segno, la strega resta immobile. Ci sono altri mezzi per conoscere le streghe. Se in chiesa si mette uno spillo alla ghirlanda di fiori che sta appesa sopra la piletta dell’acqua santa, la strega che bagna la mano nell’acqua benedetta vi resta come legata. Secondo un’altra versione, bisogna invece mettere un centesimo nella piletta per far sì che le streghe non possano uscir dalla chiesa.

Un episodio particolare sulle streghe in Toscana

Mi si raccontò un fatto curioso avvenuto parecchi anni or sono a Campiglia Marittima; lo scrivo quale mi è stato narrato senza fare commenti.

Un giovane faceva all’ amore con una ragazza, quando gli misero il dubbio che la sua innamorata fosse una strega. Per mettere in chiaro la cosa, egli andò a trovarla di venerdì sera, quando appunto le streghe sono costrette a riunirsi tutte insieme, lasciando le loro rispettive case. La ragazza sospetta dunque, per rimanere libera, diede allo sposo una bevanda destinata a farlo addormentare; egli però non cadde nel tranello, e dopo aver finto di bere, finse anche di dormire. La ragazza allora, sollevata una pietra del camino, ne trasse una specie di pomata, colla quale si unse tutta, ed uscì; il giovane le corse dietro, la raggiunse in riva al mare, e riuscì a nascondersi, arrampicandosi sull’albero della barca dove si riunirono le streghe sotto la direzione del loro capo. Lo stregone diceva: — Via per 10 — per far muovere la barca, ma la barca non partiva. Allora si decise a dire: — Via per 11 — e la barca lasciò la terra; le streghe non capirono nulla non essendosi accorte del nuovo loro compagno, il quale, dopo aver fatto un viaggio notturno, ritornò in terra; non seppe dare però altre notizie sulle arti delle streghe, e si contentò di abbandonare la sposa.

Conclusione

Ciò che mi sorprendeva durante le mie ricerche folk-loriche era la profonda convinzione con la quale il popolo mi parlava delle sue credenze e delle sue superstizioni, e mi narrava i fatti più strani. E qui voglio fare una distinzione: non mi farebbe meraviglia sentir parlare delle streghe quali esseri soprannaturali ed invisibili, poiché le credenze astratte sono a tutti permesse; le stesse religioni non sono forse fondate sopra miracoli? Ma ciò che mi sorprende è il sentirmi assicurare che molti sono stati testimoni di fatti che invece non presentano alcuna possibile verosimiglianza. Ciò non si spiega se non ammettendo che alcune persone abbiano delle allucinazioni cagionate da una cieca fede nelle loro credenze, e da una fantasia eccitata da strani e favolosi racconti. Sono stata lieta però di sentirmi ripetere da tutti che le streghe ai giorni nostri sono in minor numero di quello che non fossero una volta. Se dunque la loro famiglia si è già assottigliata, è sperabile che un giorno sparirà del tutto dalla faccia del globo, ed io mi auguro che in un tempo non molto lontano i folk-loristi potranno segnalare questo progresso della civiltà.

Emma Bonaventura



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sabato 2 novembre 2019

Crociate, misteri, delitti Nel Graal genovese c'è un giallo medievale

tratto da Il Giornale del 23/5/2019

Protagonista del libro ambientato nel XII secolo è il condottiero e detective Guglielmo Embriaco

di Matteo Sacchi

Il mare è la libertà. Ma un vascello può essere anche una prigione carica di orrore. Non per niente la parola «galera» che, all'origine, indicava le snelle navi medievali e rinascimentali a remi - derivate dai dromoni bizantini - è anche quella che si usa come sinonimo di carcere duro.

Quanto una nave possa diventare un claustrofobico inferno il lettore può scoprirlo tra le pagine de I senza cuore (Giunti, pagg. 416, euro 19), il nuovo romanzo di Giuseppe Conte. Conte è un maestro della parola, capace di spaziare agevolmente tra poesia e narrativa, e imbastisce un giallo storico che coniuga l'ambientazione medievale, quasi un Nome della rosa movimentato dalla violenza del maestrale, a un sottile clima di terrore psicologico che ricorda il romanzo The Terror di Dan Simmons, dove l'equipaggio di un bastimento isolato nei ghiacci polari precipita nella follia.

Proviamo a riassumere la trama del libro senza rovinare il piacere della lettura. Anno del signore 1116. Nella potente città marinara di Genova, il mercante crociato Guglielmo Embriaco, detto Testadimaglio, organizza un misterioso viaggio a bordo della sua nuova magnifica nave, la galera chiamata «La Grifona». Guglielmo (personaggio storico realmente esistito) ha partecipato alla Prima crociata, sono state le sue macchine d'assedio a far cadere Gerusalemme, e ha riportato in città meravigliose ricchezze, compreso il Sacro catino (ancora oggi nel museo della Cattedrale cittadina). Eppure una grande inquietudine attraversa l'animo del marinaio guerriero. Un antico segreto, rivelatogli contro la sua volontà, lo spinge a passare le Colonne d'Ercole per navigare verso Nord. Ma non sarà un viaggio fortunato. Sulla rembata di prua, una mattina, viene ritrovato il cadavere di Astor Della Volta, giovane ufficiale di nobile famiglia. Imbarcato a colpi di raccomandazioni, bellissimo ma cinico e malevolo, tra gli altri ufficiali aveva ben pochi amici, tra i banchi dei rematori o tra la ciurma ancora meno. Ma chi si poteva immaginare che qualcuno avrebbe approfittato delle tenebre di una notte di luna nuova per squartargli il petto e strappargli il cuore?

Tra i banchi della nave si diffonde il terrore che prende ufficiali, marinai e schiavi ai remi. Chi uccide sulla «Grifona», e perché? Subito c'è chi parla del maligno, a partire dal prete di bordo, Don Rubaldo Pelle. Del resto, in un ambiente così ristretto, dove gli uomini vivono pigiati gli uni agli altri tanto che domina sempre un tanfo insopportabile, come è possibile che qualcuno sia riuscito a compiere un delitto talmente efferato senza essere visto?

Sul mistero indagherà proprio Guglielmo Testadimaglio, con il suo scrivano Oberto da Noli (che è anche la voce narrante del racconto). I due uniranno le loro forze: da un lato la logica ferrea di Guglielmo, uomo più abituato a progettare macchine d'assedio che a ragionare sui meandri della mente umana, dall'altra la cultura umanistica del giovane letterato, che si trasforma nell'indispensabile braccio destro del comandante-detective. Ma nel frattempo sulla nave il sangue continuerà a scorrere, fra tempeste, inseguimenti di pirati barbareschi, bonacce sconsolanti e incontri con i vichinghi, vendite redditizie in porti amici ed eventi nefasti. Ma più che la trama, ben costruita, a contare è l'ordito. Conte approfondisce nel racconto la psicologia di una miriade di personaggi (dal cuoco di bordo al maestro d'ascia Giuseppe di Pietrabruna), riflette sul senso della pace e della guerra, su come il mare generi fratellanze indissolubili e odi furibondi, sulla colpa e sul perdono. Utilizza insomma la nave e i suoi spazi ristretti per mettere la natura umana alle corde e vivisezionarla.

E alla fine per rivelarci che il diavolo è femmina e, a volte, ha le sue ragioni, anche se nemmeno il più astuto degli investigatori può capirle.