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sabato 23 novembre 2019

RENÉ GUÉNON E L’IDEA METAFISICA*

tratto da: https://drive.google.com/file/d/12D2WJoksEsGgzOrHigN2cWcH7xJgsPb4/view

André Préau

Qualunque siano le conseguenze pratiche che sono state e potranno essere tratte dall’opera di René Guénon e quali che possano essere gli apprezzamenti cui darà luogo, v’è un punto sul quale i suoi fedeli lettori hanno sempre concordato: il loro attaccamento a quest’opera viene prima di tutto da ciò che ha permesso loro di “comprendere”. Per loro, tutto a un tratto, il caos intellettuale in cui vive l’uomo moderno s’è ordinato: hanno avuto la fortissima impressione di “vedere” e, se non “vedevano” tutto, almeno avevano la consapevolezza di possedere, per studiare qualsiasi questione, una posizione nuova e, a loro avviso, superiore. Analizzare quest’impressione, questa “sensazione” di chiarezza che il lavoro di René Guénon dà è un compito più complesso di quanto paia a prima vista; e ci limiteremo a chiarire l’elemento centrale, essenziale, della lucidità guénoniana e che è, crediamo, l’idea metafisica.

Quest’idea che, come ciascuno sa, Guénon ha presentato soprattutto nella sua forma indù, si riassume in poche parole: identità del Sé e di Brahma, Infinito e manifestazione, Essere e Non-Essere, stati molteplici. Quest’idea è “metafisica” in quanto è “ultima”, vale a dire che assicura alla mente la possibilità più grande: ora l’idea dell’Infinito apre all’intelligenza un campo illimitato in cui ogni cosa, qualsiasi visione dell’animo, persino qualsiasi errore, può trovare il suo posto. Permette così d’avvolgere tutto e di riportare tutto all’unità, il che è la prima condizione d’ogni comprensione. E, l’Infinito essendo in una volta Essere e Non-Essere, luce e tenebre, affermazione e negazione, può essere l’origine di tutte le posizioni come di tutte le esclusioni, avvicina e tiene a distanza, identifica e distingue, fa brillare e spegne. Con ciò è principio d’unione e di separazione e, per gli innumerevoli nessi, talvolta stranamente opposti, che implica tra tutte le forme e tutte le idee, è l’origine allo stesso tempo di discordia e d’armonia, di lotta e di conciliazione, vale a dire di vita intellettuale nel senso più elevato della parola, vita “intelligibile” cui partecipiamo debolmente e che è in definitiva quella della stabilità principale. Unità, non-limitazione, dualità del sì e del no, gerarchia: in questa complessa idea, l’intelligenza trova tutti gli elementi di un ordine universale, vale a dire che si
ritrova essa stessa e, con lei, tutti i modi, forme e “intenzioni” del pensiero, tutti i possibili giochi di conoscenza e d’ignoranza.

Quest’idea, come Guénon ha ben visto, non è puramente e semplicemente tradizionale, nel senso che vi sono delle tradizioni che non sono metafisiche. La dottrina dell’identità del Sé e di Brahma, che ne è un aspetto essenziale, è ignorata dal Buddismo e non è riconosciuta da alcuna delle tre tradizioni monoteiste. È anzitutto una dottrina del Brâhmanesimo, ma anche del Taoismo e del “Platonismo”; in realtà, allo stato attuale dei documenti accessibili, tali sono proprio le tre grandi sorgenti metafisiche dell’umanità. Va anche aggiunto che, pur lasciando da parte la negazione buddistica, la dottrina dell’identità non è stata criticata in nessun luogo più aspramente che in India, proprio là dove s’era affermata il più fortemente e dove poteva far valere numerosi testi delle Upanishad; e questa critica non è venuta soltanto dal vishnuismo, ma anche dallo shivaismo, segnatamente da quell’importante branca dello Shaiva-Siddhânta. Quest’atteggiamento di numerosi maestri indù è, in ultima analisi, con ogni probabilità imputabile a un indebolimento dello spirito metafisico; ma, poiché la dottrina dell’âtmâ è fondata su dei testi formali della Shruti, è ragionevole supporre che non avrebbe mai incontrato un’opposizione così forte e così estesa se l’esperienza non avesse dimostrato che il suo insegnamento non era privo di pericoli e che il suo senso vero era più sottile di quanto sembrasse a prima vista. L’indù, che si sa identico a Brahma, è tentato di considerare Brahma, che risiede nel loto del suo cuore, come una sorta di gioiello nascosto che sarebbe suo e di cui dovrebbe solo prendere possesso. La “realizzazione” spirituale, con cui diventa ciò che è, viene allora intesa come una sorta d’“affare personale”, per il quale i mezzi tradizionali sono solo procedimenti di risveglio e dei coadiuvanti: l’essenziale per l’uomo è di far penetrare la punta della sua coscienza attraverso tutti gli involucri che gli velano il Sé. Tale realizzazione, in altre parole, rischia assai d’essere concepita semplicemente come il ratto e l’assimilazione del Sé da parte dell’io, mentre essa è anche, e ancor più, il dono del Sé all’io e l’evizione dell’io da parte del Sé. Il Sé universale non è un possesso dell’io individuale, è il suo essere nascosto, cioè si rivela a lui quando piace. Da qui l’insistenza dei maestri sugli atteggiamenti d’amore e di sottomissione e sull’importanza della grazia (prasâda, anugraha, shaktipâta), che non era d’altronde stata dimenticata dalle scuole rimaste legate alla pura dottrina dell’identità, quali il vêdânta shankariano e lo shivaismo del Kashmir.

In modo generale, una dottrina spirituale è, in quanto tale, un’antropologia, cioè è d’ordine cosmologico. È una dottrina della dualità, poiché insegna una via, una direzione, definita al tempo stesso dal suo punto di partenza e dal suo punto d’arrivo: è mediatrice tra jîvâtmâ e Paramâtmâ. La metafisica è per lei un’implicazione, non il suo stesso corpo; e le difficoltà intellettuali che offrirà deriveranno spesso dalla necessità d’armonizzare le formule, sovente contraddittorie, della metafisica e della cosmologia. Una metafisica leggermente irrigidita minaccia la spiritualità; e questa, per difendersi, s’è frequentemente rifugiata in dottrine dualiste e pluraliste che, a loro volta, compromette
vano la sua fondamentale ispirazione dandole un carattere più o meno arbitrario.

Quest’ultima soluzione tuttavia non è stata quella del buddismo, come se obbedisse suo malgrado a qualche secondo fine metafisico. Partendo, come l’Induismo, della dualità del samsâra e della liberazione, distrugge il primo termine con l’idea d’illusione, di vuoto; e, quanto al secondo, lo vela in un’apofasi assoluta. Realizza l’unità in modo negativo, è l’unità del Vuoto. Infine, per dare il colpo di grazie all’uomo e lasciarlo senz’alcuna prospettiva di futuro, che diventerebbe velocemente per lui l’occasione di un desiderio, rompe il sûtrâtmâ, che riunisce tra loro i vari stati dell’essere, e non lascia più di fronte all’asceta che un compito da adempiere. Alla lunga, come si sa, questa dottrina non ha potuto mantenere il rigore della sua negazione originaria(1).
Nelle tradizioni monoteiste, al contrario, si è in pieno “realismo” e la nozione scritturale di creazione è stata interpretata dogmaticamente nel senso di un’irriducibile dualità del Creatore e della creatura. Senza dubbio si potrebbe far osservare che questa dualità, essendo d’ordine cosmologico e corrispondente a una prospettiva temporale, non contraddice la non-dualità metafisica. Si può considerare la creazione come inclusa nell’Atto eterno e infinito – Dio essendo e irraggiando per un solo e medesimo atto –; ma, dal momento che non lo si fa, si traspone quest’idea su un piano puramente razionale, temporale, la si “pensa” per mezzo di schemi la cui relatività è evidente e che implicano in qualche modo una dualità: o, in relazione a Dio, quella di un interno (il Creatore) e di un esterno vuoto che si tratta di riempire, o in Dio stesso quello della potenza, corrispondente allo stato “anteriore” alla creazione, e dell’atto, corrispondente allo stato “posteriore” o, se si preferisce, allo stesso Fiat creatore. Gli Indù hanno un Dio creatore, che è Brahmâ, ma il suo atto rientra nel dominio della Shakti, non in quello di Parama-Shiva. Senza dubbio la differenza e la distanza hanno i loro analoghi in ciò che abbiamo chiamato l’Atto eterno e infinito, che è l’unione, non la confusione, di Shiva e della Shakti: esse ne rappresentano dei “momenti” che una dottrina monistica rischierebbe di dimenticare. Ma i “momenti” dell’unità e dell’identità sono a loro volta, dal punto di vista in cui ci poniamo, un po’ troppo trascurati nelle teologie monoteiste, in cui l’unità divina s’oppone puramente e semplicemente alla diversità creata. L’esperienza degli spirituali, che ha fatto temere che il Sé, riconosciuto come divino, non venisse a gonfiare l’io invece di ridurlo e d’esaurirlo, ha con ogni probabilità giocato un ruolo importante nella costante affermazione del dualismo; cui è venuto ad aggiungersi, presso i teologi della Chiesa latina, l’influenza decisiva e ben nota dell’aristotelismo.
Se dunque la dottrina dell’identità non è accettata dalle tradizioni monoteiste, il minimo tuttavia che se ne può asserire è che infesta tutto il pensiero “platonico”, incluso il “platonismo cristiano”, per non parlare dei sufi, soggetti d’altronde alla duplice influenza dell’India e del neoplatonismo. S’è espressa, talvolta in modo molto chiaro, vuoi negli scritti di uomini naturalmente metafisici – ad esempio in Plotino e Nicola Cusano – o in quelli di spirituali che cercano di tradurre le loro illuminazioni. Ma, fondamentalmente estranea all’aristotelismo, è divenuta, dalla fine del Rinascimento, che è stato anche quella del platonismo, e malgrado certi sforzi dei cartesiani, e soprattutto dei filosofi romantici tedeschi, quasi estranea al pensiero moderno. L’opinione di Cartesio, che l’idea dell’Infinito fosse la prima di tutte, è rimasto per molti lettera morta e, in modo generale, la filosofia degli ultimi secoli è mancata del campo necessario alla sua speculazione. Sebbene reagisca oggi piuttosto fortemente contro il razionalismo e il materialismo, resta nondimeno lo specchio del suo tempo, ossia di un’epoca che trae dalle scienze positive la maggior parte del suo nutrimento intellettuale; e il desiderio, abbastanza naturale, di rimanere sempre in piena continuità con la scienza, di non abbandonare alcun punto di contatto con essa, la ricollega in realtà ai modi di pensiero e di conoscenza propriamente umani, razionali. Vorremmo quasi dire, se l’espressione non fosse così irriverente, che la filosofia moderna ha una palla al piede: la palla del “pensiero scientifico”, relativo per definizione. A parte alcune felici eccezioni, lo stato della filosofia contemporanea – per riprendere un paragone molto usato – è ancora sotto molti aspetti simile a quello dell’astronomia prima di Copernico: le costruzioni più ingegnose sono accumulate attorno a un postulato cui non si vuol rinunciare e che è qui la supremazia dell’uomo(2). Se si indica la “terra” come la dimora dell’uomo, il suo ambiente naturale, il “sole” come la verità che attrae le intelligenze, si potrebbe dire che l’attuale situazione intellettuale richiede una rivoluzione che faccia passare da un sistema geocentrico a un sistema eliocentrico, che faccia preferire la verità all’uomo, o più precisamente la verità in breve alla verità umana. Questa rivoluzione, Guénon l’ha compiuta per molti dei suoi lettori.
Ha restituito loro le regioni ipercosmiche e sovra-umane della realtà, quel che il pensiero moderno ha ritenuto di dover trascurare e quel che si è dimostrato incapace di sostituire. Senza dubbio si può giudicare che l’opposizione che Guénon ha stabilito tra le civiltà tradizionali e il mondo moderno è la parte della sua opera più visibile e più caratteristica; ma si sarebbe capita male senza il suo sfondo metafisico. Ecco perché ciò che abbiamo chiamato l’idea metafisica, con i suoi diversi aspetti e i suoi punti di partenza cosmologici, ci pare rappresentare la parte centrale del suo messaggio, la verità più “vivente” e più importante che ci abbia portato o richiamato. Siegfried Lang ha caratterizzato abbastanza bene la sua opera come un “rifugio della metafisica”.

Val appena la pena aggiungere che le verità più alte sono, per loro natura, proprie al dominio dell’inesprimibile e che non si rivelano con qualche formula, per quanto indovinata e opportuna possa essere. Mal si concilierebbero con procedimenti affrettati, che s’accontenterebbero d’opporre un dogmatismo a un altro dogmatismo. Come il ghiaccio di cui parla lo Yi-king («Si cammina sul ghiaccio. Grande circospezione»), i nostri concetti ci portano sempre solo fino a un certo punto; e la dottrina più chiara giace a nostra insaputa su un fondo yin, su un mistero, proprio come dietro al Deus revelatus, e velata dal suo splendore, si trova ancora il Deus absconditus che l’ha generato(3). Si tratterebbe, dunque, non tanto di “trasmettere” un’idea quale ad esempio quella dell’identità (se ne può solo trasmettere l’abito) quanto di studiarne le diverse espressioni, di meditarla e di comprenderla, se possibile, nelle sue più utili sfumature. Non è questione, beninteso, di cogliere lo spirito impercettibile in alcuna rete concettuale, ma soltanto d’affinarne e orientare la concezione, in modo che possa irradiare più liberamente in un dato ambiente mentale e, innanzitutto, in noi stessi.


* André Préau, René Guénon et l’idée métaphysique, in Études Traditionnelles,
n. 293-294-295, Numéro spécial consacré à René Guénon, 1951.

1) Per il suo spirito e le sue conclusioni, tale rigore può essere paragonato a quello di Simone Weil quando scrive che importa poco sapere se il Bene esiste o no, poiché in ogni modo «ciò che non è lui non è bene», o ancora che la questione delle ricompense non dev’essere posta, poiché implica un ritorno dell’anima a se stessa, un rilassamento del suo sforzo verso il Bene (vedi La connaissance surnaturelle, pp. 284 e segg. e p. 321).

2) Presso i tomisti, il postulato che non può essere messo in discussione è il “realismo” derivato dalla concezione aristotelica dell’“essere” e che fa considerare il platonismo, e ogni forma d’“idealismo”, come una tossina intellettuale.

3) Le formule e le definizioni dogmatiche, scrive Simone Weil, devono essere accettate, «non come verità, ma come qualcosa dietro cui si trova la verità» (Lettre à un religieux, p41)

domenica 16 settembre 2018

IN MEMORIAM RENÉ GUÉNON

in collaborazione con la rivista Lettera e Spirito:
https://drive.google.com/file/d/15c_HR8PsRbsvq_NDA5w7ym5NvbblmRF6/view


Frans Vreede

René Guénon era francese di nascita. Nell’ambiente orientale in cui ha trascorso gli ultimi venti anni della sua vita è restato francese – almeno agli occhi dei suoi lettori stranieri – per l’irresistibile logica
dell’espressione verbale.
Questa traduzione logica di un pensiero tradizionale era tuttavia ai propri occhi solo una modalità d’espressione tra molte altre ugualmente verbali che gli erano meno familiari: artistica, poetica, pragmatica ...

René Guénon non era, infatti, molto “geniale” nel senso che s’attribuisce oggi a questo termine; la sua originalità consisteva al contrario nel fatto che, in un mondo infatuato di un modernismo superficialmente internazionale, si sia sforzato di rimanere strettamente fedele all’antica tradizione di un’autentica universalità di spirito.

Il suo inflessibile attaccamento ai principi, di cui aveva riconosciuto una volta per tutte l’immutabilità, faceva di lui una guida sicura e imperturbabile attraverso il dedalo dei movimenti d’idee e di teorie contemporanee dalle denominazioni spesso fuorvianti.

Bisogna dire che i giudizi precisi e intransigenti, che alcuna accusa turbava e che erano piuttosto propensi a chiarire l’intendimento di coloro che ne erano l’oggetto, non tenevano conto delle reazioni da prevedere da parte delle persone che potevano sentirsi prese di mira.
Se la carità propriamente cristiana sembrava fargli difetto, la sua intelligenza, che conosceva solo la passione per la verità, non mancava certo del luminoso calore che emana da ogni superiorità veramente umana
Mi sia consentito di menzionare qui alcuni ricordi personali:
Nel corso degli anni già lontani quando, a Parigi, lo vedevo quasi ogni giorno, ho assistito parecchie volte a casa sua a dei prolungati
incontri a notte fonda, durante i quali, malgrado la fatica, rispondeva con un’instancabile e lucida pazienza alle questioni intelligenti o strambe poste dai visitatori in visita: Indù, Musulmani, Cristiani...

Più tardi, al Cairo, dove ho trascorso due inverni consecutivi con lui, questa lungimirante facilità d’accoglienza sembrava aver ritrovato la sua cornice naturale nel favorevole ambiente dell’ospitalità orientale e tradizionale.

Pochi mesi prima della sua morte, ricevetti di questa larghezza d’animo una conferma sorprendente che non sapevo allora dovesse restare per me l’ultimo segno di vita di quest’intelligenza eccezionalmente aperta: Avendo scritto A Brief introduction to Hindu Philosophy, destinato ai miei studenti, gliene comunicai il testo a lui prima ancora d’inviare il manoscritto all’editore.

Quando si ricorda la sua inappellabile condanna della moderna “filosofia”, si sarà forse sorpresi di sapere che, dopo alcune iniziali riserve, aveva finito con l’ammettere senza alcuna difficoltà che in inglese tale termine “filosofia” poteva essere accettato per rendere ciò che nelle proprie opere scritte in francese, aveva costantemente cercato di suggerire con il termine “metafisica”.
L’universalità delle sue vedute oltrepassava infatti da ogni lato i limiti del suo temperamento individuale e rimarrà, per coloro che hanno avuto il privilegio d’accostarlo, un ricordo prezioso e ispiratore, che completa felicemente l’immagine data dai suoi libri, immagine fedele della sua intelligenza, ancorché parziale della sua personalità. Ed è proprio per questo che la scomparsa di René Guénon è, per i suoi amici personali, una perdita irreparabile.

Frans Vreede, In memoriam René Guénon, in Études Traditionnelles, n. 293-
294-295, Numéro spécial consacré à René Guénon, 1951.

domenica 7 gennaio 2018

Sulle condizioni dell’iniziazione

in collaborazione con la rivista Lettera e Spirito:
http://acpardes.com/letteraespirito/sulle-condizioni-delliniziazione/

di René Guénon

Possiamo ora tornare alla questione delle condizioni dell’iniziazione, e diremo innanzitutto, quantunque la cosa possa parere ovvia, che la prima di tali condizioni è una certa attitudine o disposizione naturale, senza la quale ogni sforzo risulterebbe vano, giacché l’individuo può evi­dentemente sviluppare solo le possibilità che porta in sé dall’origine; tale attitudine, che fa quello che taluni chiamano l’“iniziabile”, costituisce propriamente la “qualificazione” richiesta da tutte le tradizioni iniziatiche[1]. Del resto, questa condizione è la sola che sia, in un certo senso, comune all’iniziazione e al misticismo, giacché è chiaro che anche il mistico deve avere una disposizione naturale particolare, quantunque interamente diversa da quella dell’“iniziabile”, se non addirittura opposta per certi versi; ma tale condizione, per lui, se è del pari necessaria, è inoltre sufficiente; non ce ne sono altre che debbano aggiungersi a essa, e le circostanze fanno tutto il resto, facendo passare a loro piacimento dalla “potenza” all’“atto” queste o quelle altre possibilità che comporta la disposizione in questione. Ciò risulta direttamente da quel carattere di “passività” di cui abbiamo parlato sopra: in un simile caso, non può infatti trattarsi di un qualsivoglia sforzo o lavoro personale, che il mistico non dovrà mai effettuare, e dai quali dovrà anzi invece guardarsi con cura, come da qualcosa che sarebbe in opposizione con la sua “via”[2], mentre, al contrario, per quanto riguarda l’iniziazione e dato il suo carattere “attivo”, un lavoro del genere costituisce un’altra condizione non meno strettamente necessaria della prima, e senza la quale il passaggio dalla “potenza” all’“atto”, che è propriamente la “realizzazione”, non può assolutamente effettuarsi[3].

Eppure, non è ancora tutto: finora abbiamo insomma soltanto sviluppato la distinzione, che avevamo posto all’inizio, dell’“attività” iniziatica e della “passività” mistica, per trarne la con­seguenza che, per l’iniziazione, v’è una condizione che non esiste e non può esistere per quanto riguarda il misticismo; ma v’è ancora un’altra condizione non meno necessaria di cui non abbiamo parlato, e che si situa in qualche modo tra quelle di cui abbiamo appena trattato. Tale condizione, sulla quale occorre tanto più insistere poiché gli Occidentali sono in generale abba­stanza portati a ignorarla o a sottovalutarne l’importanza, è inoltre, per la verità, la più caratte­ristica di tutte, quella che permette di definire l’iniziazione al di fuori di ogni possibile equi­voco, e di non confonderla con qualche altra cosa; in virtù di essa, il caso dell’iniziazione è delimitato assai meglio di quanto non può esserlo quello del misticismo, per il quale nulla di simile esiste. È spesso assai difficile, se non del tutto impossibile, distinguere il falso misticismo dal vero; il mistico è, per definizione, un isolato e un “irregolare”, e talvolta non sa neppure lui che è veramente; e il fatto che nel suo caso non si tratta di conoscenza allo stato puro, ma che pure ciò che è conoscenza reale è sempre interessata da una mescolanza di sentimento e d’im­maginazione, è inoltre ben lungi dal semplificare la questione; in ogni caso, si è in presenza di qualcosa che sfugge a qualsiasi controllo, cosa che potremmo esprimere dicendo che non esiste per il mistico alcun “mezzo di riconoscimento”[4]. Si potrebbe dire anche che il mistico non ha “genealogia”, che egli non è tale se non per una sorta di “generazione spontanea”, e pensiamo che tali espressioni siano facili da capire senza ulteriori spiegazioni; pertanto, come si potrebbe affermare indubitabilmente che qualcuno è un mistico autentico e che un altro non lo è, quando invece tutte le apparenze possono essere sensibilmente le medesime? Per contro, le contraffa­zioni dell’iniziazione possono sempre essere rivelate infallibilmente grazie all’assenza della condizione alla quale abbiamo appena accennato, e che altro non è se non il ricollegamento a un’organizzazione tradizionale regolare.

Vi sono degli ignoranti che s’immaginano che ci “si inizi” da soli, il che è una sorta di contraddizione in termini; dimenticando, se mai l’hanno saputo, che la parola initium significa “entrata” o “inizio”, confondono l’atto stesso dell’iniziazione, intesa in senso rigorosamente eti­mologico, con il lavoro da compiere in seguito perché tale iniziazione, da virtuale che è stata in principio, divenga più o meno pienamente effettiva. L’iniziazione, così intesa, è ciò che tutte le tradizioni si accordano nel designare come “seconda nascita”; come potrebbe, perciò, un essere agire da sé ancor prima d’essere nato[5]? Sappiamo bene che cosa si potrà obiettare a questo: se l’essere è veramente “qualificato”, porta già in sé le possibilità che si tratta di sviluppare; per­ché, se le cose stanno così, non potrebbe realizzarle con il proprio sforzo, senza alcun intervento esteriore? È questa infatti una cosa che è permesso prevedere teoricamente, a condizione di concepirla come il caso di un uomo “nato due volte” fin dal primo momento della sua esistenza individuale; ma, se ciò non presenta impossibilità di principio, v’è nondimeno un’impossibilità di fatto, nel senso che ciò è contrario all’ordine stabilito per il nostro mondo, perlomeno nelle condizioni attuali. Non siamo nell’epoca primordiale in cui tutti gli uomini possedevano in modo normale e spontaneo uno stato che è oggi inerente a un elevato grado d’iniziazione[6]; e d’altronde, a dire il vero, la stessa parola iniziazione in quell’epoca non poteva avere alcun senso. Siamo nel Kali-Yuga, ossia in un tempo in cui la conoscenza spirituale è divenuta na­scosta, e in cui solamente qualcuno può ancora raggiungerla, purché si ponga nelle condizioni richieste per ottenerla; ora, una di tali condizioni è precisamente quella di cui stiamo parlando, così come un’altra condizione è uno sforzo di cui gli uomini delle prime età non avevano ugualmente nessun bisogno, poiché lo sviluppo spirituale avveniva in essi in modo altrettanto naturale quanto lo sviluppo corporeo.

Si tratta quindi di una condizione la cui necessità s’impone in conformità con le leggi che governano il nostro mondo attuale; e, per farlo meglio comprendere, possiamo ricorrere qui a un’analogia: tutti gli esseri che si svilupperanno nel corso di un ciclo sono contenuti fin dal principio, nello stato di germi sottili, nell’“Uovo del Mondo”; pertanto, perché non potrebbero nascere nello stato corporeo da soli e senza genitori? Neppure questa è un’impossibilità assolu­ta, ed è possibile concepire un mondo in cui ciò avverrebbe; ma, in realtà, questo mondo non è il nostro. Facciamo, beninteso, una riserva per le anomalie; può accadere che vi siano dei casi eccezionali di “generazione spontanea”, e, nell’ordine spirituale, abbiamo noi stessi applicato poco fa quest’espressione al caso del mistico; ma abbiamo anche detto che questi è un “irrego­lare”, mentre l’iniziazione è cosa essenzialmente “regolare”, che non ha niente a che vedere con le anomalie. Inoltre, occorrerebbe sapere esattamente fin dove queste possono spingersi; an­ch’esse devono pur rientrare in definitiva in qualche legge, giacché tutte le cose non possono esistere che come elementi dell’ordine totale e universale. Questo solo, se ci si volesse riflettere bene, potrebbe bastare per far pensare che gli stati realizzati dal mistico non sono precisamente gli stessi di quelli dell’iniziato, e che, se la loro realizzazione non è soggetta alle stesse leggi, è perché si tratta effettivamente di qualcos’altro; ma possiamo ora accantonare interamente il caso del misticismo, sul quale abbiamo detto abbastanza per quel che ci proponevamo di comprova­re, per considerare esclusivamente solo quello dell’iniziazione.

Ci resta infatti da precisare il ruolo del ricollegamento a un’organizzazione tradizionale, che non può, beninteso, dispensare in nessun modo dal lavoro interiore che ciascuno può compiere solo da sé, ma che è richiesto, come condizione preliminare, perché tale lavoro possa effettiva­mente portare i suoi frutti. Si deve capire bene, fin d’ora, che coloro che sono stati stabiliti come depositari della conoscenza iniziatica non possono comunicarla in un modo più o meno parago­nabile a quello con cui un professore, nell’insegnamento profano, comunica ai suoi allievi delle formule libresche che essi dovranno solo immagazzinare nella loro memoria; qui si tratta di qualcosa che, nella sua stessa essenza, è propriamente “incomunicabile”, poiché sono degli stati da realizzare interiormente. Quanto si può insegnare, sono solamente dei metodi preparatori per l’ottenimento di tali stati; ciò che può essere fornito dall’esterno al riguardo, è insomma un aiuto, un appoggio che facilita grandemente il lavoro da compiere, e anche un controllo che elimini gli ostacoli e i pericoli che possono presentarsi; sono tutte cose tutt’altro che trascurabili, e colui che ne fosse privato correrebbe il grosso rischio d’incorrere in un fallimento, ma ancora questo non giustificherebbe interamente quel che abbiamo detto quando abbiamo parlato di una condi­zione necessaria. Comunque non è quello cui intendevamo riferirci, almeno in modo immediato; sono tutte cose che intervengono solo secondariamente, e in certo qual modo a titolo di conse­guenze, dopo l’iniziazione intesa nel suo senso più stretto, quale abbiamo indicato sopra, e allorché si tratti di sviluppare effettivamente la virtualità che essa costituisce; ma ancora biso­gna, prima di tutto, che simile virtualità preesista. È dunque in modo diverso che dev’essere intesa la trasmissione iniziatica propriamente detta, e non potremmo caratterizzarla meglio se non dicendo che essa è essenzialmente la trasmissione di un’influenza spirituale; dovremo tornarvi più ampiamente, ma, per il momento, ci limiteremo a determinare più esattamente il ruolo che gioca tale influenza, tra l’attitudine naturale prima inerente all’individuo e il lavoro di realizzazione che compirà in seguito.

Abbiamo fatto notare in altro luogo che le fasi dell’iniziazione, così come quelle della “Grande Opera” ermetica che non ne è in fondo che una delle espressioni simboliche, riprodu­cono quelle del processo cosmogonico[7]; tale analogia, che si fonda direttamente su quella tra il “microcosmo” e il “macrocosmo”, permette, meglio di ogni altra considerazione, d’illuminare la questione di cui si tratta presentemente. Si può dire, infatti, che le attitudini o possibilità incluse nella natura individuale sono innanzitutto, in quanto tali, soltanto una materia prima, cioè una pura potenzialità, in cui non v’è nulla di sviluppato o di differenziato[8]; si tratta perciò dello stato caotico e tenebroso, che il simbolismo iniziatico fa precisamente corrispondere al mondo pro­fano, e nel quale si trova l’essere che non è ancora pervenuto alla “seconda nascita”. Perché questo caos possa incominciare a prender forma e a organizzarsi, occorre che una vibrazione iniziale gli sia comunicata dalle potenze spirituali, che la Genesi ebraica indica con il nome di Elohim; tale vibrazione è il Fiat Lux che illumina il caos, e che è il punto di partenza necessario di tutti gli sviluppi ulteriori; e, dal punto di vista iniziatico, quest’illuminazione è precisamente costituita dalla trasmissione dell’influenza spirituale della quale abbiamo appena parlato[9]. Per­tanto, e in virtù di tale influenza, le possibilità spirituali dell’essere non sono più la semplice potenzialità che erano prima; esse sono divenute una virtualità pronta a svilupparsi in atto nei diversi stadi della realizzazione iniziatica.

Possiamo riassumere tutto quanto precede dicendo che l’iniziazione implica tre condizioni che si presentano in modo successivo, e che si potrebbero far corrispondere rispettivamente ai tre termini di “potenzialità”, “virtualità” e “attualità”: 1. la “qualificazione”, costituita da certe possibilità inerenti alla natura propria dell’individuo, e che sono la materia prima sulla quale il lavoro iniziatico dovrà effettuarsi; 2. la trasmissione, per il tramite del ricollegamento a un’orga­nizzazione tradizionale, di un’influenza spirituale che conferisce all’essere l’“illuminazione” che gli permetterà d’ordinare e di sviluppare queste possibilità che porta in sé; 3. il lavoro interiore mediante il quale, con l’aiuto di “ausili” o di “supporti” esteriori eventuali e soprattutto durante i primi stadi, tale sviluppo sarà realizzato gradualmente, facendo passare l’essere, di scalino in scalino, attraverso i differenti gradi della gerarchia iniziatica, per condurlo alla meta finale della “Liberazione” o dell’“Identità Suprema”.



René Guénon

[1] Si vedrà d’altronde, dallo speciale studio che dedicheremo in seguito alla questione delle qualifica­zioni iniziatiche, che tale questione presenta in realtà degli aspetti molto più complessi di quanto si po­trebbe credere sulle prime e se ci si arrestasse alla sola nozione molto generale che ne diamo qui.

[2] Anche i teologi vedono volentieri, e non senza ragione, un “falso mistico” in colui che cerca, con uno sforzo qualsiasi, d’ottenere visioni o altri stati straordinari, quand’anche tale sforzo si limitasse a concepire un semplice desiderio.

[3] Da ciò discende, tra altre conseguenze, che le conoscenze d’ordine dottrinale, che sono indispensa­bili all’iniziato, e la cui comprensione teorica è per lui una condizione preliminare d’ogni “realizzazione”, possono mancare interamente al mistico; da qui viene sovente, in quest’ultimo, oltre alla possibilità di errori e di molteplici confusioni, una strana incapacità d’esprimersi in modo intelligibile. D’altronde dev’essere beninteso che le conoscenze in questione non hanno assolutamente niente a che vedere con tutto quel che è soltanto un’istruzione esteriore o “sapere” profano, che non ha qui alcun valore, come spiegheremo ancora in seguito, e che pure, tenuto conto di che cos’è l’istruzione moderna, costituirebbe piuttosto un ostacolo che non un aiuto in molti casi; un uomo può benissimo non sapere né leggere né scrivere e raggiungere nondimeno i gradi più elevati dell’iniziazione, e casi del genere non sono rarissimi in Oriente, mentre vi sono degli “studiosi” e persino dei “geni”, secondo il modo di vedere del mondo profano, che non sono “iniziabili” a nessun titolo.

[4] Non intendiamo con ciò delle parole o segni esteriori e convenzionali, ma quello di cui simili mezzi non sono in realtà che la rappresentazione simbolica.

[5] Ricordiamo qui l’adagio scolastico elementare: «per agire, bisogna essere».

[6] È quello che la parola Hamsa indica nella tradizione indù, intesa come nome alla casta unica che esi­steva in origine, e che designa propriamente uno stato che è ativarna, vale a dire di là dalla distinzione delle caste attuali.

[7] Vedere L’Ésoterisme de Dante, segnatamente le pp. 63-64 e 94 (I ed.).

[8] Va da sé che, a rigore, si tratta di una materia prima solo in senso relativo, non in senso assoluto; ma tale distinzione non ha importanza dal punto di vista in cui qui ci poniamo, e d’altronde lo stesso si può dire della materia prima di un mondo come il nostro, che, essendo già determinata in un certo modo, non è in realtà, nei confronti della sostanza universale, che una materia secunda (cf. Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, cap. II), dimodoché, anche secondo quest’aspetto, l’analogia con lo sviluppo del nostro mondo a partire dal caos iniziale è rigorosamente esatta.

[9] Da qui provengono espressioni come quelle di “dare la luce” e “ricevere la luce”, usate per indicare, con riferimento rispettivamente all’iniziatore e all’iniziato, l’iniziazione in senso stretto, vale a dire la trasmissione vera e propria di cui stiamo trattando. Si noterà anche, per quanto concerne gli Elohim, che il numero settenario loro attribuito è in relazione con la costituzione delle organizzazioni iniziatiche, che deve essere effettivamente un’immagine dello stesso ordine cosmico.

domenica 13 agosto 2017

RIFLESSIONI SULLA VOLONTÀ

in collaborazione con la rivista Lettera e Spirito:
https://letteraespirito.wordpress.com/riflessioni-sulla-volonta/

Albano Martin de la Scala

René Guénon nella sua opera Il Re del Mondo nel capitolo VIII scrive [1]: «Il periodo attuale è dunque un periodo di oscuramento e di confusione; le sue condizioni sono tali che, finché persisteranno, la conoscenza iniziatica deve necessariamente rimanere nascosta; da qui il carattere dei “Misteri” dell’antichità detta “storica” (la quale non risale neppure all’inizio di tale periodo) e delle organizzazioni segrete di tutti i popoli: organizzazioni che conferiscono una iniziazione effettiva là dove sussiste ancora una vera dottrina tradizionale, ma non ne offrono che l’ombra quando lo spirito di tale dottrina ha cessato di vivificare i simboli che non ne sono che la rappresentazione esteriore, e questo perché, per ragioni diverse, ogni legame cosciente con il centro spirituale del mondo si è ormai rotto, ciò che è il senso più specifico della perdita della tradizione, quello che concerne in particolar modo questo o quel centro secondario, che cessa di essere in relazione diretta ed effettiva con il centro supremo. Si deve dunque, come già dicevamo sopra, parlare di qualcosa di nascosto piuttosto che veramente per¬duto, poiché non per tutti è perduto e certuni lo posseggono ancora integralmente; e, se così è, altri hanno sempre la possibilità di ritrovarlo, purché lo cerchino come si conviene, vale a dire la loro intenzione sia diretta in modo che, attraverso le vibrazioni armoniche che risveglia secondo la legge delle “azioni e reazioni concordanti” [2], essa possa metterli in comunicazione spirituale effettiva con il centro supremo [3]. Questa direzione dell’intenzione ha d’altronde, in tutte le forme tradizionali, la sua rappresentazione simbolica; intendiamo parlare dell’orientazione rituale: essa, infatti, è propriamente la direzione verso un centro spirituale che, qualunque esso sia, è sempre un’immagine del vero “Centro del Mondo” » [4].

La creazione è un atto di volontà del Principio che, irraggiandosi dal “Centro dell’Universo”, raggiunge il centro di ogni singolo mondo, essere o cosa, e fa sì che essa sia esattamente ciò che Egli vuole. Questo atto, essendo atemporale, dal punto di vista della manifestazione si rinnova in ogni istante. La Volontà universale così intesa corrisponde perciò alla presenza divina esistente al centro di ogni cosa o, ponendoci da un altro angolo visuale, a ciò che avevamo chiamato vocazione [5].
Tale presenza, rispecchiandosi nella realtà individuale umana origina la volontà dell’uomo, la sola cosa che gli appartiene in proprio, ed è questa stessa realtà che lo fa esistere in quanto individuo: egli può utilizzarla, entro i ristretti limiti imposti dalla sua condizione, per scegliere fra il bene e il male. Il dono di cui parliamo corrisponde al libero arbitrio [6], mediante il quale l’uomo ha la facoltà di orientare la propria volontà verso quella universale oppure verso il mondo. È facendo uso di questa facoltà che Adamo ed Eva mangiarono simbolicamente dall’albero del bene e del male e furono cacciati dal paradiso terrestre; allo stesso modo l’essere, in ogni istante, con un atto della sua volontà, si imprigiona da solo nella propria condizione individuale [7].
Le differenti fasi della discesa ciclica, che progressivamente allontanano l’umanità dalla percezione delle realtà spirituali, corrispondono a questo processo di autolimitazione dell’essere. In quella che simbolicamente è stata chiamata “Età dell’oro” l’essere umano riconosceva naturalmente la propria volontà, ancora unificata, come riflesso di quella universale e, con un semplice sforzo di concentrazione, era in grado di reintegrarvela.

In una seconda fase, attratto dalle realtà relative del mondo, pur non perdendo di vista la volontà universale, l’uomo cominciò a frammentare la propria. Successivamente avrebbe rivolto verso il mondo un numero crescente dei suoi atti di volontà, arrivando inesorabilmente a dimenticare l’esistenza della Volontà universale e a credere di possederne una autonoma, capace di determinare il proprio futuro. L’umanità aveva purtuttavia ancora degli ideali e questa volontà individuale, pur tesa verso obiettivi mondani, era caratterizzata da una fede profonda in qualcosa che agiva come agente unificante dandole quindi forza [8].

La discesa di cui parliamo però non si è arrestata a quel punto e sta portando l’umanità a non avere più fede in nulla. Sovente, senza rendersene conto, l’uomo ha oggi le idee piuttosto confuse, manca di chiari obiettivi, finendo così per essere in balia delle sensazioni del momento, delle psicosi e degli influssi dell’ambiente. In queste condizioni l’individuo pensa spesso di volere ciò che in realtà è l’ambiente a suggerire [9]. Questi influssi, proprio come strati geologici nel terreno, si sono sovrapposti nel corso dei secoli e hanno caratterizzato la discesa ciclica dell’umanità, divenendo sempre più avvolgenti. Limitato in tal modo l’essere che ne è vittima perde il controllo della propria volontà che è fagocitata dal mondo, e quindi non è più nelle condizioni di sviluppare in modo armonico e completo le proprie possibilità.

Purtroppo, pur con tutti i suoi limiti, la volontà individuale ha un marcato istinto di sopravvivenza, sa bene che può continuare a esistere solo finché ha la possibilità di nutrirsi della volontà separativa dell’ambiente e fa di tutto per attaccarvisi finendo per restarne invischiata [10].

La condizione profana che abbiamo descritta è drammatica, ed è ancora più terrificante se si pensa che dopo la morte fisica, a causa della sua tendenza verso la disgregazione, non potrà concludersi che con una “precipitazione” dell’essere in una condizione infraumana e infernale.

Per gli uomini e le donne di buona volontà esiste però ancora la possibilità, facendo leva sul corretto utilizzo del libero arbitrio, di compiere un percorso “a ritroso” e riportare la volontà individuale alla propria origine.

Il desiderio di intraprendere questo “viaggio” può nascere in modi apparentemente molto diversi, anche come reazione a qualche evento drammatico occorso nella propria vita; in ogni caso tale risveglio implicherà un “ricordo” più o meno conscio del Principio. Utilizzando il concetto simbolico sin qui espresso, si può dire che la volontà umana, orientandosi correttamente anche se solo per un attimo, magari nel sincero e contrito atto di richiesta di aiuto, si sia come rispecchiata, in modo ancora sfuggevole e velato, nella sua origine, e questo fatto ha portato alla nascita, ancora “embrionale”, del desiderio ardente [11] di tornare là dove è la propria vera patria.

Il primo passo per compiere questo percorso dovrà essere inevitabilmente quello di orientarsi, ancorché in modo parziale e insicuro, verso il centro. Questo atto richiederà già un minimo di discernimento e un orizzonte intellettuale ampio almeno quanto basta per concepire in qualche modo il divino. Si può quindi dire che il primo lavoro da compiere, per chi intende liberarsi dalla drammatica condizione descritta, debba essere quello di procedere a una chiarificazione intellettuale basata sull’enunciazione dei principi universali e delle loro applicazioni [12]. Questo lavoro, se compiuto con la giusta attitudine, porterà all’acquisizione di certezze e punti fermi che faranno da bussola e permetteranno di discernere il vero dal falso [13]. L’opera di cui parliamo, in quanto utile al discernimento, dovrà essere costantemente portata avanti da tutti coloro che intendono fare buon uso del libero arbitrio, anche nelle successive fasi del proprio cammino.

Come avevamo avuto occasione di vedere nel nostro studio sull’aspirazione [14], l’orientarsi, anche se in modo ancora necessariamente imperfetto, verso il centro porrà l’essere, eventualmente in modo incosciente, sotto il benefico influsso della Volontà divina [15].

Il lavoro di approfondimento dottrinale ben presto porterà l’essere a cercare sul proprio piano di esistenza qualcosa che attualizzi e vivifichi il proprio legame con il sopra-individuale, e così egli non potrà far altro che rendersi conto che la “tradizione”, intesa nel suo senso reale, ha esattamente questo scopo. Tale presa di coscienza lo porterà a integrarsi in una delle sue forme ortodosse, la quale gli fornirà gli strumenti e l’appoggio necessario per proseguire nel suo cammino. In questo nuovo contesto la volontà individuale verrà particolarmente sollecitata: vi sarà una Legge da seguire con tutto il suo carico [16] di obblighi, precetti e indicazioni. La fede potrà giungere in aiuto permettendo di unificare la propria volontà moltiplicandone la forza così consentendo all’individuo di riottenerne almeno in parte il dominio, liberandola dalla tirannia dell’ambiente [17]. Inoltre questa stessa fede farà orientare l’essere verso il Principio, permettendo alla propria volontà di tornare a riflettere, anche se in modo ancora parziale e volubile [18] quella universale; egli prenderà in tal modo sempre maggior coscienza della sua esistenza accettandola e riconoscendo in essa il suo bene. I segni del suo intervento, a volte propriamente miracolosi, saranno via via più presenti nella vita di chi avrà compiuto questo percorso. Questo fatto creerà un circolo virtuoso che farà crescere la fede e la fiducia dell’essere verso il divino, che, in tal modo, potrà ancor più sviluppare la sua benefica azione.

Il libero arbitrio così come la volontà individuale troveranno la loro legittima collocazione e l’essere, in buona parte riunificato e correttamente orientato, e per ciò stesso attivamente legato al Principio, resterà anche al momento della morte fisica [19] nella propria caratterizzazione umana in modo definitivo; tale caratterizzazione è privilegiata poiché “centrale” nel suo grado di esistenza e quindi tale da permettere, almeno virtualmente, di ritornare coscientemente al “Centro del Mondo”, ottenendo, in una condizione “paradisiaca” ancora separativa e individuale, la propria “salvezza” [20].

Quando la fede è pura, supportata da un orizzonte intellettuale sufficientemente ampio e appoggiata da una conoscenza teorica abbastanza estesa, può condurre l’essere a comprendere che ogni suo atto deve essere fatto per compiere la volontà di Dio. Questa presa di coscienza può portarlo a riscontrare che nella sua esistenza, nonostante la Legge e le regole che segue, sovente si trova in situazioni nelle quali non riesce a comprendere con chiarezza quale sia la volontà divina. Egli potrà pure rendersi conto che questa volontà è presente nel suo cuore ma che non è in grado di decifrarla. In queste condizioni la domanda che si porrà sarà: come fare a comprendere cosa Dio vuole realmente da me [21]? La risposta a questo quesito è che esistono organizzazioni iniziatiche che hanno come fine proprio quello di aiutare gli esseri che ne entrano a far parte a prendere coscienza di questa volontà divina presente nel loro cuore; esistono esseri che questo percorso hanno compiuto almeno in parte e che sono in grado di indicare la via da seguire. La volontà richiede un discernimento e una comprensione reale che la guidino. Solo subordinandola alla vera conoscenza si potrà dirigerla rettamente. Tale conoscenza proviene dalla propria verità interna più profonda, ma, all’inizio del cammino, si manifesterà necessariamente e provvisoriamente come un’autorità tradizionale apparentemente esterna all’essere. I veri centri spirituali sono i rappresentanti della Volontà divina in questo mondo, e coloro che camminano nella Via sono i collaboratori coscienti al piano divino [22].

Il patto iniziatico implica almeno virtualmente la rinuncia al proprio libero arbitrio, questo atto è quindi propriamente il sacrificio dell’unica cosa che appartiene veramente all’uomo: la sua volontà. In questo senso esso è considerato, a ragione, come la morte della propria individualità, morte che in realtà corrisponde al riassorbimento e quindi superamento dei limiti individuali nella loro origine trascendente.

Ogni organizzazione iniziatica ha le proprie metodologie di lavoro specifiche, spesso molto diverse fra loro proprio per potersi meglio adattare alle differenti tipologie e fasi umane e ai diversi gradi di purificazione dei loro membri [23]; tuttavia vi sono alcune caratteristiche di fondo che le accomunano tutte.
In particolare, volendo mettere in risalto l’aspetto relativo alla volontà individuale, si può notare come, con un utilizzo corretto della stessa, sia particolarmente importante “vegliare sui propri istanti”, essere costantemente [24] presenti e attenti a che essa, proprio perché agisce nel presente, aiuti a orientare l’essere verso il centro e a distoglierlo, nel contempo, dalle continue attrazioni mondane, unificandolo [25].

La chiave per adempiere in ogni occasione ai doveri del proprio stato, e quindi uniformarsi alla volontà divina, sta nel seguire esteriormente e interiormente le indicazioni che provengono dall’autorità cui ci si riferisce che è simbolo della volontà universale, della conoscenza e del proprio centro. È verso di essa che l’iniziato deve essere costantemente vigile e ricettivo.

In tal modo egli, sempre meno condizionato dall’ambiente, potrà più facilmente e profondamente accettare gli eventi che gli occorrono, riconoscendo in modo via via più chiaro l’azione della volontà divina della quale diviene sempre più strumento cosciente [26].
Se l’attitudine è pura e disinteressata, i provvidenziali segni non tarderanno a manifestarsi, accrescendo la fiducia del discepolo verso la propria autorità, fiducia che avrà un’azione catalizzante e unificante nei confronti della sua volontà che così potrà orientarsi in modo sempre più completo verso il Principio, svuotando nel contempo l’essere dai propri attaccamenti individuali [27].

Quando l’iniziato, utilizzando in modo totale la propria volontà, è occupato in ogni singolo istante a tendere verso il centro, egli finisce per dimenticare se stesso, allora e solo allora questa stessa volontà individuale è totalmente riunificata e ben orientata e può quindi integralmente rispecchiare quella universale. Solo in questo momento, tramite un totale cambiamento di prospettiva, potrà avvenire la reintegrazione dell’individualità nel suo Principio rendendo finalmente l’essere libero [28].



1. R. Guénon, Le Roi du Monde, Éditions Traditionnelles, Paris, 1950. Le note che si riferiscono alla citazione sono dello stesso Guénon.?

2. Questa espressione è mutuata dalla dottrina taoista; d’altra parte, prendiamo qui la parola “intenzione” in un senso che è affatto esattamente quello dell’arabo niyah, che viene abitualmente tradotto così, e tale senso è peraltro conforme all’etimologia latina (da in-tendere, tendere verso).?

3. Quanto abbiamo appena detto permette di interpretare in un senso molto preciso queste parole del Vangelo: «Cercate e troverete; chiedete e riceverete; bussate e vi sarà aperto». – Occorrerà beninteso riferirsi qui alle indicazioni che abbiamo già dato a proposito della “retta intenzione” e della “buona volontà”; e si potrà così completare agevolmente la spiegazione di questa formula: Pax in terra hominibus bonæ voluntatis.?

4. Nell’Islam, tale orientazione (qiblah) è come la materializzazione, se così si può dire, dell’intenzione (niyah). L’orientazione delle chiese cristiane è un altro caso particolare che si riferisce essenzialmente alla stessa idea.?

5. In questo senso la volontà creatrice è identica al Verbo o alla “chiamata”. Vedere il nostro articolo La vocazione, apparso nel no 34 di questa rivista.?

6. Dante Alighieri parla dell’argomento quando dice (Divina Commedia, Paradiso, V, vv. 19 e segg.):
Lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando ed alla sua bontate
piú conformato e quel ch’e’ piú apprezza,
fu della volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e son dotate.?

7. Questa prigione non è altro che il regno del Demiurgo: «… in realtà il Demiurgo non è affatto una potenza esteriore all’uomo; non è in principio che la volontà dell’uomo in quanto essa realizza la distin¬zione del Bene e del Male. Ma in seguito l’uomo, limitato come essere individuale da questa volontà che è la sua propria, la considera come qualcosa a lui esteriore, e così essa diviene distinta da lui; non solo, siccome essa si oppone agli sforzi ch’egli fa per uscire dal dominio dove egli stesso si è rinchiuso, la considera come una potenza ostile, e la chiama Shathan o l’Avversario. Osserviamo peraltro che questo Avversario, che noi stessi abbiamo creato e che creiamo a ogni istante, giacché ciò non deve essere con¬siderato come accaduto in un tempo determinato, che questo Avversario, dicevamo, non è malvagio in se stesso, ma è soltanto l’insieme di tutto ciò che ci è contrario» (R. Guénon, Mélanges, Éditions Gallimard, Paris, 1976, cap. I).?

8. La forza di volontà è tanto maggiore quanto più grande è la determinazione, la convinzione, la perseveranza o la fede con cui è messa in atto. Basti pensare a un esempio esteriore come quello sportivo per rendersene conto. Quando una squadra è coesa e motivata può ottenere dei risultati molto migliori rispetto a una che ha delle frizioni al suo interno. Allo stesso modo, se un essere unifica tutte le proprie energie per raggiungere un fine stabilito, potrà veramente superare limiti che apparivano come insormontabili. Quello che andiamo dicendo è insito nella caratteristica della fiducia quale elemento in grado di unificare le potenze dell’essere, e questo a prescindere dal fatto che sia più o meno ben riposta (ricordiamo il detto profetico riportato dallo Scheik Tadili nella sua opera La vita tradizionale è la sincerità, pubblicato nel n° 29 di questa rivista, hadîth che dice: «Se aveste fiducia in delle pietre, ne trarreste beneficio»), cieca o illuminata dalla dottrina, anche se è chiaro che, qualora entrino in gioco le forze spirituali, i risultati potranno essere, a maggior ragione, amplificati e divenire veramente miracolosi.?

9. Questa condizione generale è ideale per chi possegga determinate “chiavi” e abbia l’intenzione di manipolare i popoli favorendo, attraverso la più grande instabilità e mutabilità, lo sviluppo del mondo in un senso antitradizionale.?

10. L’individualità ha una grandissima capacità di adattarsi alle situazioni. A ogni modificarsi delle condizioni è pronta a trovare i propri spazi, anche negli interstizi più impensati, pur di gonfiarsi e sopravvivere. Più queste situazioni si cristallizzeranno e più sarà difficile e doloroso liberarsene. Non a caso, un’autentica autorità iniziatica spesso rompe gli equilibri nei quali si trova il discepolo per permettergli di raggiungerne di più profondi e reali.?

11. Dante accosta la Volontà allo Zolfo che brucia le scorze e quindi permette di purificarsi e raggiungere il centro. Analogamente lo Scheik Tadili nella sua opera La vita tradizionale è la sincerità pubblicata nel n° 29 di questa rivista si esprime in questi termini: «… con “la volontà del faqîr” (irâdah), intendiamo un’ardente aspirazione che provoca tutte le illuminazioni; essa è chiamata “la piangente” (nâihah) ed è a essa che fanno allusione questa parole dell’Inviato d’Allah – su di lui il saluto e la pace! – “quando non c’è la piangente nel cuore, esso è in rovina come è in rovina la casa disabitata”».?

12. L’argomento della preparazione teorica è estremamente importante e meriterebbe uno studio a parte, in questa occasione ci limiteremo a precisare che non intendiamo riferirci a un solo lavoro libresco e di erudizione.?

13. Questo saper discernere, e avere chiaro il proprio “fine”, diviene ancora più importante in un mondo come quello attuale che è pieno di realtà ambigue, parodie, contraffazioni e trappole di ogni genere.?

14. Alcune considerazioni sull’Aspirazione, in Lettera e Spirito, nº 32.?

15. Il problema è che questo atto di volontà dovrà essere costantemente e attivamente ribadito, poiché l’ambiente ha una grandissima forza attrattiva nei confronti dell’essere umano e la sua volontà tende ad attaccarsi, in modo quasi morboso, alle caratterizzazioni da esso proposte.?

16. Carico particolarmente pesante specialmente all’inizio del proprio percorso, quando non si è ancora preso il “gusto” all’esecuzione dell’attività rituale.?

17. Alla luce di quanto detto la qualifica iniziatica massonica: “libero e di buoni costumi” può essere interpretata come “possessore della propria volontà all’interno della Legge”.?

18. Questa “volubilità” è un aspetto che in genere accompagna ogni percorso spirituale, anche negli stadi più avanzati e permette eventualmente a chi lo percorre di raggiungere temporaneamente degli stati e delle percezioni che poi svaniscono, lasciando però un “ricordo” che infonde forza e sicurezza.?

19. Morte corporea che, a differenza di quanto molti pensano, non può minimamente modificare il livello spirituale di chi la subisce.?

20. Sull’argomento, che in questo scritto ci limitiamo a toccare di sfuggita, vedasi R. Guénon, Initiation et Réalisation spirituelle, Éditions Traditionnelles, Paris, 1952, cap. VIII, Salvezza e liberazione.?

21. Un caso molto più frequente è quello in cui l’individuo, magari senza rendersene conto e con la pretesa di riconoscere unicamente Dio come autorità, prenda dalla tradizione solo gli elementi, interpretati a modo proprio, che più si adattano alle sue inclinazioni individuali (o alle inclinazioni di chi condiziona la sua vita), tralasciando o dando poca importanza a tutto il resto. In questo modo egli si crea un “mondo” nel quale appaga la sua necessità di sentirsi “a posto con la propria coscienza” e si rinchiude in una caratterizzazione nella quale la sua individualità può gonfiarsi a piacimento e dalla quale ben difficilmente riuscirà a liberarsi.?

22. Certo la situazione di diffusa degenerazione nella quale spesso versano le organizzazioni iniziatiche potrebbe indurre certuni ad affidarsi a una illusoria autonomia piuttosto che ad appoggiarsi ad esse. Inutile dire che questa non può certo essere la soluzione del problema. A coloro che cercano con sincerità, consigliamo la pazienza e la tenacia e ricordiamo il detto indù: “dove c’è un cela c’è un guru”, dove c’è un discepolo con la giusta attitudine, là si manifesta il Maestro.?

23. Vedasi R. Guénon, Initiation et Réalisation spirituelle, cit., cap. XVIII, Le tre vie e le forme iniziatiche, apparso nel no 33 di questa rivista.?

24. La regola massonica da 24 pollici ricorda proprio questa necessità di non arrestare mai il proprio lavoro.?

25. Emerge qui in modo chiaro il carattere eminentemente attivo del lavoro iniziatico, che quindi non può essere in alcun modo confuso con il misticismo.?

26. Ricordiamo il seguente hadith qudsi, nel quale il Profeta Maometto riporta in prima persona la parola di Allah: «Il mio servitore non cessa di avvicinarsi a me, attraverso degli atti di devozione surrogatori, fino a quando lo amo, e quando lo amo sono l’Orecchio con il quale sente, la Vista con la quale vede, la Mano con la quale combatte e il Piede con il quale marcia» (Bukhâri, Riqâq, 37). Precisiamo che questo processo, in cui l’essere diviene strumento nelle mani del Principio, può attuarsi per gradi.?

27. Facciamo presente che questi attaccamenti possono essere anche del tutto legittimi da un punto di vista umano. Ad esempio l’amore per i propri cari, se vissuto in contrasto con l’accettazione del volere divino, ponendosi da un ottica iniziatica, è una forma di idolatria nascosta che fa orientare la propria volontà verso l’esteriore. In questo modo l’essere che aspiri a ritornare al proprio centro sarà distolto dal suo obiettivo e limitato. A questo proposito ricordiamo il passaggio coranico: «O voi che credete, nelle vostre spose e nei vostri figli c’é un nemico per voi» (Corano, LXIV, 14). A scanso di equivoci precisiamo in ogni caso che con queste affermazioni non intendiamo suggerire di non occuparsi delle proprie famiglie, ma solo che questa attività deve essere svolta, così come tutte le altre, in funzione del raggiungimento del proprio fine superiore. La volontà divina è presente in ogni cosa o essere e questo orientarsi verso il Centro non implica quindi necessariamente l’allontanarsi dal mondo, ma solo il guardarlo senza arrestarsi al suo aspetto superficiale. In questo senso anche l’amore per i propri cari potrà svilupparsi in modo ancor più armonioso e profondo.?

28. Precisiamo che il risultato di cui parliamo corrisponde al raggiungimento del Centro dello stato umano, là dove la Volontà divina incontra il nostro piano di esistenza, che è il fine dei “piccoli misteri” e dove l’essere è liberato dai limiti individuali. Nel nostro scritto non abbiamo quindi considerato il percorso superiore, quello dei “grandi misteri” che porta a reintegrare questo stesso centro nel vero Centro dell’Universo, cioè porta l’essere a realizzare gli stati superiori dell’essere e a giungere in fine allo stato incondizionato: la “Liberazione finale”. Vedere R. Guénon, Aperçus sur l’Initiation, Éditions Traditionnelles, Paris, 1946, cap. XXXIX, Grandi misteri e piccoli misteri.?

mercoledì 19 luglio 2017

Discorsi del discernimento

in collaborazione con la rivista Lettera e Spirito:
http://acpardes.com/letteraespirito/discorsi-del-discernimento/

Meister Eckhart

5. Considera che cosa rende buona la natura e il fondo dell’uomo

La ragione per cui la natura e il fondo dell’uomo, dai quali traggono la loro bontà le opere dell’uomo, sono del tutto buoni, è che lo spirito dell’uomo è completamente rivolto a Dio. Impegna ogni tuo sforzo perché Dio divenga grande per te, sì che tutta la tua attenzione e il tuo impegno siano per lui in ogni tuo agire. In verità, più fai così, migliori sono le tue opere, quali che siano. Se tu ti stringi a Dio, lui ti coprirà di ogni suo bene. Cerca Dio, e troverai Dio e ogni bene. Sì, in verità, se in tale disposizione d’animo tu inciampi in una pietra, ciò è opera più divina che fare la comunione pensando anzitutto a se stessi e con minor distacco della mente. A chi si stringe a Dio, Dio stesso e tutte le virtù si stringono. E ciò che prima cercavi, ora cerca te, e ciò che prima inseguivi, ora insegue te, e ciò che prima fuggivi, ora fugge te. Infatti, a chi si stringe intensamente a Dio, tutte le cose divine si stringono, mentre tutto ciò che è lontano e dissimile da Dio da costui fugge.



6. Del distacco e del possesso di Dio

Mi è stata posta la seguente questione: alcuni vorrebbero separarsi completamente dagli altri e stare soli – e in ciò troverebbero la pace, e nello stare in chiesa: è questa la cosa migliore? Io ho risposto di no, ed ecco perché. Chi è come deve essere, in verità, si trova bene in ogni luogo e con chiunque, ma chi non è come deve essere non si trova bene in nessun luogo con nessuno. Colui che è come deve essere, ha Dio vicino a sé in verità, e chi possiede Dio in verità, lo possiede ovunque: per la strada e accanto a qualsiasi persona, così come in chiesa, in solitudine o nella cella. Se un uomo siffatto lo possiede veramente, e possiede lui soltanto, nessuno gli può essere di ostacolo.

Perché?

Perché egli ha Dio solo e a Dio solo va la sua intenzione, e tutte le cose divengono per lui Dio solo. Un tale uomo porta Dio in tutte le sue opere e in ogni luogo, ed è Dio soltanto a compiere tutte le opere di un tale uomo. Infatti l’opera appartiene più propriamente a colui che ne è la causa che non a chi la realizza: se dunque la nostra intenzione è soltanto e unicamente Dio, allora sarà lui a compiere le nostre opere, e nulla può impedirgli di operare, né il luogo né le persone. Perciò nessuno può essere di ostacolo a questo uomo, giacché egli non considera, non cerca e non gode null’altro che Dio, il quale si unisce a lui in ogni sua intenzione. E come il molteplice non può distrarre Dio, nello stesso modo nulla può distrarre e disperdere quest’uo­mo: egli è uno in quell’Uno, in cui tutto il molteplice è Uno e non più molteplice.

L’uomo deve cogliere Dio in ogni cosa, e abituare il proprio spirito ad aver Dio sempre presente in sé, nella propria intenzione e nel proprio amore[1]. Considera dunque in che modo sei rivolto a Dio quando sei in chiesa o nella tua cella, e mantieni un’identica disposizione dello spirito anche in mezzo alla folla, nel tumulto, fra le cose disuguali. Come ho detto altre volte, quando si parla di “uguaglianza” non si intende dire che tutte le opere, i luoghi o le persone vadano considerati uguali: ciò sarebbe completamente falso, giacché pregare è opera migliore che filare, e la chiesa un luogo più nobile della strada. Occorre però avere in tutte le opere una stessa disposizione dello spirito, una stessa confidenza e uno stesso amore per Dio, e una medesima serietà. Invero, se tu fossi così di identico animo, nessuno potrebbe impedirti la presenza di Dio.

Ma l’uomo in cui Dio non abita veramente, e che deve cercare Dio all’esterno, in questa cosa e in quell’altra, e che cerca Dio in modi disuguali: nelle opere o nelle persone o nei diversi luoghi, non possiede Dio. Un tale uomo incontra facilmente degli ostacoli, giacché egli non possiede Dio, e non cerca lui solo, né lui solo ama o ha nella mente; perciò gli sono di ostacolo non soltanto le cattive compagnie, ma anche quelle buone, e non soltanto la strada, ma anche la chiesa, e non soltanto le parole e le opere cattive, ma anche quelle buone: l’ostacolo intatti è in lui, perché Dio non è divenuto tutto per lui. Se invece così fosse, egli si sentirebbe a proprio agio dovunque e con chiunque, giacche avrebbe Dio, e nessuno glielo potrebbe togliere, o impedirgli di compiere l’opera sua.

In che cosa consiste dunque questo vero possesso di Dio, in virtù del quale veramente lo si possiede?

Questo vero possesso di Dio risiede nello spirito, in una profonda tensione verso Dio e nell’avere lui nella mente e non in un pensiero continuo e sempre identico – ciò è impossibile, o assai difficile, alla natura, e non sarebbe neppure la cosa migliore. L’uomo non si deve accon­tentare di un Dio pensato, perché così, quando il pensiero ci abbandona, anche Dio ci abban­dona. Si deve invece possedere Dio nella sua essenza, che è molto al di sopra del pensiero del­l’uomo e di ogni creatura. Così Dio non ci abbandona mai, a meno che l’uomo non si distolga volontariamente da lui.

Chi possiede Dio nella sua essenza, coglie Dio nella sua divinità; per quest’uomo Dio risplende in tutte le cose: per lui infatti tutte le cose sanno di Dio e in esse egli vede la sua immagine. In lui Dio risplende in ogni tempo, in lui si compiono distacco e abbandono e in lui si imprime l’immagine del Dio tanto amato e presente. In egual modo, chi ha una grande sete può anche fare cose diverse e avere pensieri diversi dal bere, eppure, qualsiasi cosa faccia e con chiunque sia, qualunque sia il suo pensiero o la sua occupazione, l’immagine della bevanda non lo abbandona fin tanto che dura la sua sete, e, più la sete è grande, più vivida è l’immagine della bevanda – più presente, continua, interiore. O ancora: chi ama con tutte le sue forze una cosa, in modo da non provare gioia in nessun’altra, desidera soltanto quella e null’altro, e il suo amore non vien meno in lui dovunque sia, per diverse che siano le sue compagnie o le sue occupazioni: in ogni cosa trova l’immagine di ciò che ama, e tanto più presente quanto più forte diviene il suo amore. Quest’uomo non cerca la quiete, giacché nessuna inquietudine lo turba.

Quest’uomo è particolarmente gradito a Dio, poiché egli sente tutte le cose come divine e su­periori a quanto siano in sé. In verità, occorre zelo, amore, giusta considerazione dell’interiorità dell’uomo e una conoscenza viva, meditata, effettiva dell’intenzione dello spirito in mezzo alle cose e alle persone. L’uomo non può apprendere questo cercando la fuga, fuggendo dalle cose e rifugiandosi esteriormente nella solitudine: bisogna piuttosto che egli apprenda la solitudine in­teriore, dovunque e con chiunque sia. Bisogna imparare a passare attraverso tutte le cose, a co­gliere in esse Dio, imprimendolo fortemente in noi secondo la sua essenza. Nello stesso modo in cui chi vuole imparare a scrivere deve, per apprendere quest’arte, esercitarsi molto e spesso a farlo, per quanto duro e faticoso sia; e, anche se in un primo momento può sembrargli impos­sibile, imparerà quest’arte applicandosi spesso e con impegno. In verità, costui deve anzitutto rivolgere i suoi pensieri a ciascuna lettera e imprimerla fortemente in sé; quando poi si è impa­dronito di quest’arte, si affranca completamente dall’immagine e dal pensiero e scrive con faci­lità e senza sforzo. Lo stesso avviene per il suono di una viola o per qualsiasi altra opera che richieda abilità: è necessario soltanto volerla praticare, e, anche se non se ne è sempre coscienti, si compie l’atto grazie all’abilità acquisita, qualunque sia il pensiero.

Così l’uomo deve essere pervaso dalla presenza divina, plasmato nella forma di Dio amatis­simo, e mutato nella sua essenza, in modo che la sua presenza lo illumini senza alcuno sforzo ed egli possa distaccarsi da tutte le cose, rimanendo pienamente svincolato da esse. All’inizio occorrono però una riflessione e un’attenzione continua, come per colui che intenda apprendere un’arte.

[1] Quest’attitudine ricorda l’Ihsan nella tradizione islamica che, secondo un hadîth, «consiste nel ser­vire Allah come se lo vedessi: perché se tu non lo vedi, Egli ti vede» (Muslim, Sahîh, 1, 1).

domenica 9 luglio 2017

Le dodici fatiche d’Eracle

in collaborazione con la rivista Lettera e Spirito:
http://acpardes.com/letteraespirito/le-dodici-fatiche-deracle/

Apollodoro


Eracle (chiamato dai latini Hercules, Ercole) è un personaggio della mitologia greca conosciuto per la straordinaria forza, sulle cui origini vi sono tradizioni differenti. Secondo la versione più diffusa del mito (che si riassume nelle tradizioni tebane), Eracle era figlio di Zeus e di Alcmena, posseduta dal dio nell’aspetto del marito Anfitrione, e venne educato a Tebe in ogni disciplina da uno specialista mitico: da Eurito nell’arco, da Autolico nella lotta, nelle armi da Castore. L’episo­dio in cui Eracle uccise Lino, suo insegnante di scrittura e musica, lascia intravedere l’aspetto selvaggio insito della sua natura e come questo eroe rappresenti l’uomo combattuto tra virtù e vizio. Mandato per punizione sul Citerone a custodire le greggi, diede a 18 anni prova della sua forza uccidendo un leone che terrorizzava il paese governato da Tespio, padre di 50 figlie, con le quali Eracle giacque, generando un figlio da ciascuna.

Per ricompensa della guerra vinta, Eracle ottenne in moglie da Creonte re di Tebe la figlia Megara, dalla quale ebbe tre figli (o più secondo altre versioni). Quando Euristeo re di Tirinto (o Micene) lo chiamò al suo servizio, Eracle uccise i propri figli in un accesso d’ira causatogli dalla dea Era, sposa gelosa di Zeus.

Le dodici fatiche, compiute da Eracle al servizio d’Euristeo per la durata di dodici anni, gli furono imposte dall’oracolo di Delfi come espiazione per l’uccisione dei propri figli e ottenere l’immor­talità. Le fatiche rappresentano le prove dell’anima che si libera progressivamente dai vizi, vince il destino e conquista l’eternità con la forza della virtù. Eracle è quindi simbolo della forza virile che va messa in atto in una via di purificazione per sopraffare i vizi e far trionfare la virtù[1].

Di seguito proponiamo il celebre racconto d’Apollodoro delle dodici fatiche d’Eracle.



Dopo avere udito queste parole Eracle si recò a Tirinto per sottoporsi ai comandi di Euri­steo. Come prima impresa costui gli ordinò di portargli la pelle del leone nemeo, che era una belva invulnerabile figlia di Tifone. Partito alla volta del leone, giunse a Cleonea, dove venne ospitato da un pover uomo chiamato Molorco. Il giorno seguente, quando il suo ospite volle of­frire un sacrificio, Eracle gli raccomandò di attendere trenta giorni: allora, se fosse ritornato salvo dalla caccia, si sarebbe fatto un sacrificio a Zeus Salvatore, mentre se fosse morto avrebbe dovuto versargli libagioni come si fa con un eroe.
Giunto a Nemea andò alla ricerca del leone e dapprima gli scagliò una freccia; quando però comprese che era invulnerabile afferrò la clava e iniziò a incalzarlo. Il leone si rifugiò in una spelonca a due uscite; allora Eracle ne sbarrò una e attraverso l’altra raggiunse l’animale: gli circondò il collo con un braccio e strinse fino a soffocarlo. Poi lo caricò sulle spalle e lo portò a Cleonea, dove trovò Molorco che nell’ultimo dei giorni stabiliti stava per offrirgli libagioni come se fosse morto; così, dopo avere sacrificato a Zeus Salvatore, portò il leone a Micene.

Euristeo rimase sbigottito dal suo valore e per il futuro gli vietò di entrare in città, imponen­dogli di esibire il frutto delle sue imprese dall’esterno delle mura. Dicono anche che, terroriz­zato, avesse fatto costruire una giara di bronzo per nascondersi sotto terra e avesse imposto ad Eracle le fatiche attraverso l’araldo Copreo, figlio di Pelope di Elide, il quale si era rifugiato a Micene per avere ucciso Ifito e aveva preso dimora in quel luogo dopo essere stato purificato da Euristeo.

La seconda fatica che il re gli impose fu di uccidere l’Idra di Lerna; questo mostro era cre­sciuto nella palude di Lerna e si aggirava per la pianura massacrando le mandrie e devastando la regione. L’Idra aveva un corpo immenso e nove teste: otto erano mortali, quella di mezzo im-mortale. Ebbene, Eracle salì sul carro (Iolao ne teneva le redini) e giunse a Lerna; scovò l’Idra sopra una collinetta nei pressi delle Sorgenti di Amimone, dove essa aveva la tana. Bersagliandola con frecce infuocate la snidò, e mentre quella usciva la ghermì e la tenne stretta; l’Idra però si avvinghiò a uno dei suoi piedi. Eracle la percuoteva sulle teste con la clava ma non riusciva ad averne la meglio, perché ogni volta che una testa veniva frantumata ne crescevano due; inoltre in aiuto all’Idra era accorso un enorme granchio che gli aveva attanagliato un piede. Perciò Eracle lo uccise e a sua volta chiamò in soccorso Iolao: questi appiccò il fuoco a una par­te della selva vicina e, bruciando con torce le teste a mano a mano che crescevano, impedì che rinascessero. In questo modo Eracle riuscì a eliminare le teste che rispuntavano; infine tagliò la testa immortale, la seppellì e vi pose sopra un pesante macigno, lungo la strada che attraverso Lerna porta a Eleunte. Poi squarciò il corpo dell’Idra e immerse le frecce nella sua bile. Tuttavia Euristeo rifiutò di includere questa prova tra le dieci perché Eracle non aveva sopraffatto l’Idra da solo ma con l’aiuto di Iolao.

La terza fatica che il re gli impose fu di condurre a Micene, ancora viva, la cerva di Cerinea. Questa cerva si trovava a Enoe, aveva corna d’oro ed era consacrata ad Artemide. Poiché Eracle non voleva né abbatterla né ferirla, la inseguì per un intero anno; quando infine l’animale, spos­sato dalla caccia, si rifugiò sul monte chiamato Artemisio e lì, presso il fiume Ladone, Eracle lo ferì con una freccia nel momento in cui stava per guadare il corso d’acqua; così lo catturò, se lo caricò in spalla e attraversò l’Arcadia. Ma Artemide e Apollo gli sbarrarono il passo, e la dea cercò di togliergli la cerva rimproverandolo perché aveva abbattuto il suo animale sacro: ma Eracle rispose che aveva agito per necessità e attribuì la colpa a Euristeo. In tal modo placò l’ira della dea e portò l’animale ancora vivente a Euristeo.

Come quarta fatica il re gli impose di portargli vivo il cinghiale di Erimanto. Questa belva devastava Psofi scendendo dal monte che chiamano Erimanto. Ebbene, mentre Eracle stava attraversando Foloe fu ospitato dal centauro Folo, figlio di Sileno e di una ninfa melia. Costui offrì a Eracle carni cotte, mentre lui stesso le divorava crude; quando poi Eracle gli chiese del vino, rispose che temeva di aprire la giara che possedeva in comune con gli altri Centauri. Eracle gli fece coraggio e così Folo la dissigillò, ma poco dopo, attirati dall’odore, presso la grotta Folo accorsero i Centauri armati di pietre e bastoni. Eracle volse in fuga, bersagliandoli con delle torce, i primi che osarono penetrarvi, Anchio e Agrio, e inseguì gli altri a colpi di freccia sino al Malea.

Di lì essi si rifugiarono presso Chirone, che era stato scacciato dai Lapiti, e dal monte Pelio si era trasferito presso il Malea. Mentre i Centauri erano raggruppati attorno a lui, Eracle scagliò contro di loro una freccia, che dopo avere trapassato il braccio di Elato si conficcò nel ginocchio di Chirone. Eracle addolorato si precipitò a estrarre il dardo e applicò sulla ferita un farmaco che gli aveva porto Chirone. Ma la piaga era inguaribile: allora Chirone si ritirò nel suo antro dove fu preso dal desiderio di morire, ma non poteva poiché era immortale. Prometeo allora offrì a Zeus di scambiare il suo destino con quello di Chirone, che cedendo a lui la propria immortalità poté finalmente morire.

Gli altri Centauri fuggirono disperdendosi: alcuni giunsero al monte Malea; Eurizione a Foloe; Nesso al fiume Eveno. Poseidone diede asilo agli altri celandoli in una montagna presso Eleusi. Quanto a Folo, dopo avere estratto una freccia dal corpo di un morto, si meravigliò che un oggetto così piccolo avesse ucciso tali nemici: ma essa, sfuggitagli di mano, lo punse a un piede e lo uccise all’istante. Quando Eracle fece ritorno a Foloe e vide Folo morto, lo seppellì e partì alla ricerca del cinghiale; gridando lo stanò da una macchia e lo inseguì sino a sfinirlo nella neve alta, lo intrappolò e lo condusse a Micene.

La quinta fatica che Euristeo gli impose fu di rimuovere in un solo giorno il fimo delle man­drie di Augia. Augia era il re di Elide, figlio secondo alcuni di Elio, secondo altri di Poseidone, oppure (secondo altri ancora) di Forbo, e possedeva una grande quantità di bestiame. Eracle si recò presso di lui e, senza nulla rivelargli degli ordini di Euristeo, si offrì di rimuovere il fimo in un solo giorno purché il re gli donasse la decima parte delle mandrie. Augia, pur essendo incre­dulo, accettò; allora Eracle prese come testimone Fileo, figlio di Augia, quindi aprì una breccia nelle fondamenta della stalla e vi fece scorrere le acque mescolate dei fiumi Alfeo e Peneo, dei quali aveva deviato il corso, avendo prima creato un’altra apertura perché l’acqua vi defluisse. Quando Augia venne a sapere che quest’impresa era stata compiuta per ordine di Euristeo, ri­fiutò di pagare la ricompensa e aggiunse inoltre di non avere mai promesso alcun premio, di­chiarandosi anzi pronto ad affrontare un processo su questo argomento. Quando i giudici si fu­rono riuniti, Fileo venne convocato da Eracle e testimoniò contro suo padre, ammettendo che aveva promesso una ricompensa; allora, prima che la sentenza fosse emessa, Augia adirato bandì Eracle e Fileo dall’Elide.

Fileo si trasferì a Dulichio, dove prese dimora; Eracle invece andò a Oleno presso Dessa­meno e lo trovò in procinto di concedere in moglie, contro la propria volontà, la figlia Mnesi­mache al centauro Eurizione. Chiamato in soccorso dall’amico, Eracle, quando Eurizione si pre­sentò per condurre via la sposa, lo uccise. Euristeo però non volle computare tra le dieci fatiche neppure questa, accampando il pretesto che era stata compiuta dietro compenso.

Come sesta fatica gli impose di scacciare gli uccelli stinfalidi. Presso Stinfalo, una città del­l’Arcadia, si apriva infatti un lago chiamato Stinfalo, ombreggiato da una fitta selva. Presso questo lago si era rifugiato un numero sterminato di uccelli, che temevano di diventare preda dei lupi. Eracle non sapeva come fare per scacciare gli uccelli da quel bosco, quand’ecco che Atena gli donò dei crotali di bronzo che aveva ricevuto da Efesto. Percuotendoli dalla cima di un monte che sovrastava il lago spaventò gli uccelli, i quali non riuscendo a sopportare il frastuono volarono via terrorizzati e in questo modo Eracle poté abbatterli con l’arco.

La settima fatica che Euristeo gli impose fu di portargli il toro di Creta, che (secondo Acusi-lao) era lo stesso che aveva trasportato per mare Europa a Zeus; altri invece sostengono che si trattava di quello che Poseidone aveva fatto uscire dalle acque quando Minosse aveva promesso di sacrificargli ciò che fosse apparso dal mare: ma si dice che davanti alla bellezza del toro lo mandò libero tra le mandrie e a Poseidone offrì un altro sacrificio; perciò il dio si adirò e rese selvatico il toro. Quando Eracle giunse a Creta per catturarlo, Minosse rispose alla sua richiesta di aiuto dicendo che avrebbe dovuto affrontarlo e domarlo da solo; allora Eracle lo catturò e lo condusse da Euristeo, e, dopo averglielo mostrato, lo lasciò libero. E il toro, dopo avere vagato per Sparta e per tutta l’Arcadia, attraversò l’Istmo e giunse sino a Maratona, in Attica, dove tor­mentava gli abitanti.

Come ottava fatica il re gli comandò di portare a Micene le cavalle del tracio Diomede: co-stui, che era figlio di Ares e Cirene, regnava in Tracia sul bellicosissimo popolo dei Bistoni e possedeva cavalle antropofaghe. Ebbene, dopo avere raggiunto per nave quella regione assieme a un gruppo di volontari, Eracle sopraffece i guardiani che custodivano i recinti delle cavalle e le condusse sino al mare. Quando i Bistoni accorsero in armi, egli consegnò le cavalle ad Abdero perché le custodisse; costui, un figlio di Ermes nato a Oponte in Locride, era il giovane amante di Eracle: ma le cavalle lo uccisero facendolo a brani.

Eracle affrontò i Bistoni e uccise Diomede, costringendo gli altri alla fuga; poi fondò la città di Abdera presso la tomba del defunto Abdero, condusse le cavalle da Euristeo e gliele conse­gnò. Ma Euristeo le lasciò libere ed esse arrivarono sino al monte chiamato Olimpo, dove fu­rono sbranate dalle bestie feroci.

La nona fatica che Euristeo impose a Eracle fu di portargli la cintura di Ippolita, la regina delle Amazzoni che abitavano presso il fiume Termodonte: un popolo possente in guerra. Esse erano dedite ad attività guerriere e se mai si univano a un uomo e davano alla luce un figlio alle­vavano solo le femmine, alle quali comprimevano il seno destro perché non fossero impacciate nel lanciare il giavellotto, mentre lasciavano crescere quello sinistro per l’allattamento. Ippolita, dunque, possedeva la cintura di Ares, emblema del potere che esercitava su tutte.

Eracle fu inviato alla conquista di questa cintura perché la figlia di Euristeo, Admeta, deside­rava possederla; così egli, dopo avere arruolato dei volontari, con una sola nave si mise in mare. Giunse quindi all’isola di Paro, in cui avevano dimora i figli di Minosse: Eurimedonte, Crise, Nefalione e Filolao. Accadde però che due dei naviganti, che erano sbarcati, fossero assassinati dai figli di Minosse. Eracle, sdegnato da questo, subito li uccise; poi cinse d’assedio gli altri iso­lani finché essi gli inviarono ambasciatori con la proposta che in cambio dei morti egli condu­cesse con sé due persone a sua scelta. Allora Eracle rinunciò all’assedio e dopo avere scelto Alceo e Stenelo, i due figli di Androgeo, figlio di Minosse, giunse in Misia presso Lico, figlio di Dascilo, dal quale fu ospitato. Quando Lico fu assalito dal re dei Bebrici, Eracle venne in suo aiuto e uccise molti nemici, tra i quali anche il re Migdone, fratello di Amico; così, dopo avere confiscato una larga parte del territorio dei Bebrici, la consegnò a Lico, che chiamò tutta quella regione Eraclea.

Infine approdò nel porto di Temiscira, dove ricevette la visita di Ippolita, che gli chiese la ragione del suo arrivo e promise di consegnargli la cintura. Ma Era assunse l’aspetto di un’a­mazzone e si diede a circolare tra la folla dicendo che gli stranieri che erano arrivati stavano rapendo la regina. Allora esse presero le armi e corsero alla nave sui loro cavalli. Quando Eracle le vide giungere armate, credette si trattasse di un tradimento: perciò uccise Ippolita e la spogliò della cintura; poi tenne a bada le altre e salpò alla volta di Troia.

In quell’epoca accadeva che la città soffrisse a causa dell’ira di Apollo. Infatti Apollo e Po­seidone, che volevano mettere alla prova l’arroganza di Laomedonte, avevano assunto sem­bianze umane e promesso di edificare le mura di Pergamo in cambio di un compenso; quando però ebbero completato l’opera il re rifiutò di pagarli. Per questo motivo Apollo inviò una pesti­lenza e Poseidone un mostro marino che usciva dal riflusso della marea e rapiva gli uomini nella pianura. Gli oracoli vaticinarono che le sciagure avrebbero avuto termine se Laomedonte avesse offerto in pasto al mostro la figlia Esione; perciò egli la espose, legata alle rocce che sorgevano sulla riva del mare. Vedendola così esposta Eracle promise di salvarla, a condizione che Laome­donte gli cedesse i cavalli che aveva ricevuto in dono da Zeus come risarcimento per il ratto di Ganimede. Laomedonte promise e così Eracle uccise il mostro e salvò Esione; ma il re rifiutò di consegnare il compenso pattuito e pertanto Eracle salpò minacciando di muovere guerra contro Troia.

Poi raggiunse Eno, dove fu ospitato da Poltide. Mentre stava partendo, sulla costa di Eno uccise con un colpo di freccia Sarpedone, figlio di Poseidone e fratello di Poltide, che era un uomo violento. Giunto a Taso, soggiogò i Traci che la popolavano e consegnò l’isola ai figli di Androgeo perché la abitassero. Partito da Taso raggiunse Torone, dove uccise in una gara di lot­ta Poligono e Telegono, figli di Proteo che era figlio di Poseidone, i quali l’avevano sfidato. Poi portò la cintura a Micene e la consegnò a Euristeo.

Come decima fatica gli fu imposto di portare da Erizia le mandrie di Gerione. Erizia era un’i­sola presso l’Oceano che ora è chiamata Gades; in essa abitava Gerione, figlio di Crisaore e di Calliroe, figlia di Oceano. Egli aveva un corpo triplice: sino all’altezza del ventre era unico, ma a partire dai fianchi e dalle cosce si suddivideva in tre busti di uomo. Gerione possedeva delle giovenche rosse, di cui era mandriano Eurizione, custodite dal cane Orto, che aveva due teste ed era nato da Echidna e Tifone.

Eracle dunque attraversò l’Europa alla volta delle mandrie di Gerione, uccidendo molti ani­mali selvaggi, e s’inoltrò in Libia; giunto a Tartesso innalzò come segno del suo passaggio due colonne, una di fronte all’altra, ai confini tra Europa e Libia. Lungo il percorso fu arso dai raggi di Elio e tese l’arco contro il dio: questi allora, ammirato per il suo valore, gli diede una coppa d’oro sulla quale Eracle attraversò l’Oceano. Giunto a Erizia si accampò sopra il monte Abante. Il cane si avvide di lui e lo assalì, ma Eracle lo abbatté con la clava e uccise poi anche il bovaro Eurizione che era accorso in aiuto al cane. Allora Menete, che pascolava in quel luogo le man­drie di Ade, riferì l’accaduto a Gerione, il quale raggiunse Eracle mentre stava traghettando i buoi presso il fiume Antemo e venne a battaglia con lui, ma morì trafitto da una freccia. Eracle imbarcò la mandria sulla coppa e dopo la traversata sino a Tartesso la restituì a Elio.

Dopo avere percorso l’Abderia, giunse in Liguria, dove Ialebione e Dercino, figli di Poseidone, cercarono di rubargli la mandria, ma Eracle li uccise e proseguì il suo viaggio attra­verso la Tirrenia[2]. A Reggio un toro imbizzarrito si gettò in mare e giunse a nuoto fino in Sicilia; dopo avere attraversato la regione vicina [che da lui fu chiamata Italia (i Tirreni infatti chiamano ίταλόζ il toro)], arrivò alla pianura di Erice, un figlio di Poseidone che regnava sugli Elimi. Costui aggregò il toro alle proprie mandrie. Allora Eracle affidò gli altri buoi a Efesto e si pose alla sua ricerca; quando infine lo trovò tra le mandrie di Erice, questi affermò che non l’avrebbe restituito se non fosse stato sconfitto nella lotta: così l’eroe lo atterrò tre volte fino a ucciderlo e dopo avere unito il toro al resto della mandria la condusse sulle rive del mare Ionio. Ma quando Eracle giunse all’insenatura di quel mare, Era aizzò un tafano contro i buoi cosicché le bestie si dispersero tra le falde dei monti di Tracia; Eracle le inseguì e riuscì a catturarne alcune, che condusse fino all’Ellesponto, mentre le altre, lasciate libere, s’inselvatichirono. Dopo avere ra­dunato il bestiame con grande fatica, Eracle incolpò dell’accaduto il fiume Strimone e riempì di pietre il suo letto tanto da renderlo inaccessibile alle imbarcazioni, mentre prima era navigabile; infine consegnò le bestie a Euristeo che le sacrificò a Era.

Le fatiche furono compiute nello spazio di otto anni e un mese; tuttavia Euristeo non volle riconoscere quelle del bestiame di Augia e dell’Idra e gli impose come undicesima fatica di por­targli i pomi d’oro delle Esperidi. Essi non si trovavano (come alcuni hanno detto) in Libia, ma sull’Atlante tra gli Iperborei, ed erano i doni che Gea aveva fatto a Zeus quando aveva sposato Era: li custodiva un drago immortale, figlio di Tifone ed Echidna, che aveva cento teste e sapeva parlare con voci svariate. Assieme a lui custodivano i pomi le Esperidi: Egle, Erizia, Esperia e Aretusa. Eracle dunque lungo il suo cammino giunse al fiume Echedoro, dove Cicno, figlio di Ares e Pirene, lo sfidò a duello: fu Ares, che lo difendeva, a sollecitare la sfida, ma un fulmine caduto fra i combattenti fece cessare lo scontro.

Poi Eracle percorse a piedi l’Illiria e si affrettò a raggiungere presso il fiume Eridano le ninfe figlie di Zeus e Temi, le quali gli rivelarono il nascondiglio di Nereo; così Eracle lo sorprese addormentato e lo legò benché quello assumesse forme diverse, e si rifiutò di liberarlo prima che gli rivelasse dove si trovavano i pomi e le Esperidi. Seguendo le sue informazioni percorse la Libia, dove allora regnava Anteo, figlio di Poseidone, che costringeva gli stranieri a lottare con lui e li uccideva. Anche Eracle fu obbligato a misurarsi con lui e avendolo sollevato a mezz’aria stretto fra le braccia lo stritolò e lo uccise: accadeva infatti che Anteo diventasse più forte ogni volta che toccava terra, e questo è il motivo per cui alcuni lo dissero figlio di Gea.

Dopo la Libia attraversò l’Egitto, dove regnava Busiride, che era nato da Poseidone e Lisia­nassa, figlia di Epafo. Egli aveva l’abitudine di sacrificare gli stranieri sopra l’altare di Zeus in obbedienza a un oracolo: infatti quando una carestia novennale s’abbatté sull’Egitto, giunse da Cipro Frasio, un esperto indovino, il quale disse che la carestia sarebbe cessata se ogni anno essi avessero sacrificato a Zeus uno straniero. Per primo Busiride sacrificò l’indovino; poi continuò con gli stranieri che sopraggiungevano. Eracle dunque fu catturato e trascinato presso l’altare, ma spezzò i legami e uccise Busiride insieme a suo figlio Anfidamante.

Attraversando l’Asia giunse poi a Termidre, il porto di Lindo. Qui sciolse dal carro di un bovaro uno dei due tori, lo sacrificò e si mise a banchettare. Il bovaro non era in grado di difendersi; perciò si rifugiò sulla cima di un monte e lo maledisse. Ecco il motivo per cui anche oggi i Lindi, quando sacrificano a Eracle, lo fanno con maledizioni.

Attraversando l’Arabia uccise Emazione, figlio di Titono; poi lungo il percorso tra la Libia e il mare esterno ricevette da Elio la coppa. Dopo essere passato nel continente antistante, sul Caucaso trafisse l’aquila, figlia di Echidna e Tifone, che rodeva il fegato di Prometeo. Così libe­rò Prometeo e scelse come propria catena una corona d’olivo mentre a Zeus offrì come risar­cimento Chirone, che accettò di morire benché fosse immortale.

Prometeo aveva ammonito Eracle di non cogliere lui stesso i pomi ma di inviare in sua vece Atlante, dopo avere preso sulle proprie spalle il peso della sfera celeste; ed Eracle, quando giun­se presso Atlante nella terra degli Iperborei, seguì il consiglio e scambiò il ruolo con Atlante. Questi allora colse dalle Esperidi tre pomi e ritornò da Eracle, ma non era più disposto a rias­sumere sulle spalle il cielo e disse che avrebbe portato lui stesso i pomi a Euristeo e pretese che Eracle reggesse la volta celeste al posto suo. Eracle promise di farlo, ma la restituì ad Atlante con un’astuzia. Seguendo il suggerimento di Prometeo, pregò Atlante di sostenere il finché si fosse avvolto una benda attorno al capo. A queste parole Atlante depose a terra le mele e riprese sulle spalle la sfera celeste: così Eracle le raccolse e se ne andò. Altri tuttavia dicono che Eracle non ebbe i pomi da Atlante, ma che li colse egli stesso dopo avere ucciso il serpente che li cu­stodiva. In tal modo portò le mele a Euristeo e gliele consegnò: ma questi, dopo averle avute, le donò a Eracle, dal quale le ebbe poi Atena, che le riportò indietro: non era lecito, infatti, che esse stessero altrove.

Come dodicesima fatica gli fu comandato di portare Cerbero dall’Ade. Questi aveva tre teste di cane, una coda di drago e sul dorso teste di serpenti di tutte le specie. Mentre dunque era sulla via per andarlo a prendere, Eracle si recò a Eleusi presso Eumolpo con l’intenzione di essere ini­ziato ai misteri. In quell’epoca però non era consentito che uno straniero venisse iniziato; allora egli cercò di avere accesso al rito facendosi adottare da Pilio, ma non poteva ancora assistere ai misteri in quanto non era stato purificato per l’uccisione dei Centauri; perciò fu purificato da Eumolpo e allora venne iniziato. Giunto quindi al Tenaro, in Laconia, dove si trova l’imbocca­tura dell’Ade, vi entrò.

Quando le ombre dei morti lo videro si diedero alla fuga, ad eccezione di Meleagro e della gorgone Medusa; contro la Gorgone come se fosse viva Eracle snudò la spada, ma da Ermes apprese che si trattava soltanto di un vano fantasma. Arrivato accanto alle porte dell’Ade incon­trò Teseo e Piritoo, che aveva osato corteggiare Persefone e per questo era stato incatenato. Ve­dendo Eracle essi gli tesero le mani sperando di essere restituiti alla vita grazie alla sua forza. Egli afferrò Teseo per le mani e lo fece alzare, ma mentre cercava di sollevare Piritoo la terra tremò, cosicché dovette lasciarlo; poi fece rotolare via anche la pietra di Ascalafo. E poiché vo­leva procurare alle anime del sangue sgozzò una delle giovenche di Ade; allora Menete, custode delle mandrie e figlio di Ceutonimo, sfidò Eracle nella lotta, ma l’eroe lo afferrò per la vita e gli stritolò i fianchi, fino a che, per richiesta di Persefone, lo lasciò libero. Eracle allora chiese Cer­bero a Plutone, e Plutone volle che se ne impadronisse senza usare le armi che portava; egli, di­feso solo dalla corazza e dalla pelle di leone, lo scovò presso le porte dell’Acheronte, lo afferrò con le mani attorno alla testa e non smise di stringerlo e di soffocarlo finché l’ebbe domato[3], benché fosse morso dal drago che quello aveva per coda. Poi lo prese e se ne andò risalendo da Trezene; quanto ad Ascalafo, Demetra lo trasformò in allocco. Eracle, dopo avere mostrato Cer­bero a Euristeo, lo ricondusse nell’Ade.

[1] Via di purificazione come quella massonica, dove Ercole presiede al seggio del primo sorvegliante e dove «D’altra parte, è detto che, “nella Loggia di san Giovanni, si elevano templi alla virtù e si scavano prigioni per il vizio”; queste due idee d’“elevare” e di “scavare” si riferiscono alle due “dimensioni” verti­cali, altezza e profondità, calcolate secondo le due metà di uno stesso asse che va “dallo Zenith al Nadir”, prese in senso inverso l’una all’altra; queste due direzioni opposte corrispondono rispettivamente a sattwa e a tamas (l’espansione delle due “dimensioni” orizzontali corrisponde a rajas), cioè alle due tendenze dell’essere verso i Cieli (il tempio) e verso gli Inferi (la prigione), tendenze che sono qui “allegorizzate”, piuttosto che simboleggiate, propriamente parlando, dalle nozioni di “virtù” e di “vizio” esattamente come nel mito d’Ercole sopra menzionato» (R. Guénon, Symboles fondamentaux de la Science sacrée, Gallimard, Paris, 1962, cap. XXXVII: Le symbolisme solsticial de Janus).

[2] Un’altra allusione al furto del toro di Gerione si trova nell’Inferno della Divina Commedia, canto XXV, 31-33, dove lo stesso viene attribuito a Caco, un centauro mostruoso ucciso a mazzate da Ercole:

«onde cessar le sue opere biece | sotto la mazza d’Ercule, che forse | gliene diè cento, e non sentì le diece.»

[3] Di questa lotta si parla nell’Inferno della Divina Commedia, canto IX, 98-100, citando Cerbero come esempio di chi s’oppone inutilmente e a sue spese al volere divino:

«Che giova ne le fata dar di cozzo? | Cerbero vostro, se ben vi ricorda, | ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo.»

domenica 28 maggio 2017

Via iniziatica e via mistica

in collaborazione con la rivista Lettera e Spirito:
http://acpardes.com/letteraespirito/via-iniziatica-e-via-mistica/

di René Guénon

La confusione tra il dominio esoterico e iniziatico e il dominio mistico, o, se si preferisce, tra i punti di vista che rispettivamente vi corrispondono, è una di quelle che più frequentemente si commettono oggi, e questo, sembra, in un modo che non è sempre interamente disinteressato; v’è in ciò, del resto, un atteggiamento piuttosto nuovo, o che almeno, in certi ambienti, è andato molto generalizzandosi in questi ultimi anni, ed è per questo che ci pare necessario incominciare con lo spiegarci chiaramente su tale punto. Va ora di moda, se così si può dire, qualificare come “mistiche” persino le dottrine orientali, ivi comprese quelle in cui non v’è neppure l’ombra di un’apparenza esteriore che possa, per coloro che non vanno oltre, dar luogo a una tale qualifica; l’origine di questa falsa interpretazione è naturalmente imputabile a certi orientalisti, che pos­sono d’altronde non esservi stati indotti innanzitutto da un secondo fine chiaramente definito, ma soltanto dalla loro incomprensione e dal partito preso più o meno incosciente, che è loro abituale, di ricondurre tutto a dei punti di vista occidentali[1]. In seguito ne sono però venuti altri, che si sono impadroniti di quest’assimilazione abusiva e che, vedendo i vantaggi che ne poteva­no trarre per i propri fini, si sforzano di propagarne l’idea al di fuori del mondo particolare, e tutto sommato abbastanza circoscritto, degli orientalisti e della loro clientela; e questo è più grave, non soltanto perché è soprattutto così che tale confusione si diffonde sempre più, ma anche perché non è difficile vedere in ciò dei segni non equivoci di un tentativo “annessio­nistico” contro il quale è opportuno stare in guardia. Infatti, coloro cui ci riferiamo sono quelli che si possono considerare come i negatori più “seri” dell’esoterismo, vogliamo dire con ciò gli exoteristi religiosi che rifiutano d’ammettere alcunché fuori del proprio dominio, ma che riten­gono probabilmente tale assimilazione o “annessione” più abile di una brutale negazione; e, a giudicare dal modo in cui alcuni di loro si danno da fare per travestire da “misticismo” le dottrine più nettamente iniziatiche, sembrerebbe davvero che questa bisogna rivesta ai loro occhi un carattere particolarmente urgente[2]. A dire il vero, vi sarebbe pure, in questo stesso ambito religioso cui appartiene il misticismo, qualcosa che, sotto certi aspetti, potrebbe prestarsi meglio a un accostamento, o piuttosto a un’apparenza d’accostamento: è ciò che viene designato col termine “ascetica”, giacché si tratta almeno di un metodo “attivo”, invece dell’assenza di metodo e della “passività” che caratterizzano il misticismo e sulle quali dovremo ritornare tra poco[3]; ma è ovvio che queste similitudini sono del tutto esteriori, e, d’altra parte, questa “ascetica” ha forse scopi solo troppo visibilmente limitati per poter essere utilizzata con van­taggio in quel modo, mentre, con il misticismo, non si sa mai molto esattamente dove si va, e proprio tale vaghezza è sicuramente propizia alle confusioni. Soltanto, coloro che si dedicano a tale lavoro con proposito deliberato, come pure quelli che li seguono più o meno inconsape­volmente, non paiono rendersi conto che, in tutto ciò che ha attinenza con l’iniziazione, non v’è in realtà niente di vago né di nebuloso, ma si tratta al contrario di cose molto precise e molto “positive”; e, in realtà, l’iniziazione è, per sua stessa natura, propriamente incompatibile con il misticismo.

Tale incompatibilità, d’altronde, non deriva da ciò che la stessa parola “misticismo” implica originariamente, che è anzi manifestamente apparentato all’antica denominazione dei “misteri”, vale a dire di qualcosa che appartiene al contrario all’ordine iniziatico; ma tale parola è una di quelle per le quali, lungi dal potersi riferire unicamente all’etimologia, si è rigorosamente obbli­gati, se ci si vuol far comprendere, a tener conto del senso che è stato loro imposto dall’uso, e che è, in realtà, il solo che gli si attribuisca attualmente. Ora ciascuno sa che s’intende con “misticismo”, ormai già da molti secoli, cosicché non è più possibile servirsi di questo termine per designare qualcos’altro; ed è questo che noi diciamo non ha e non può avere niente in comune con l’iniziazione, in primo luogo perché questo misticismo appartiene esclusivamente al dominio religioso, vale a dire exoterico, e poi perché la via mistica differisce dalla via iniziatica in tutti i suoi caratteri essenziali, e questa differenza è tale che ne risulta tra di loro una vera incompatibilità. Precisiamo d’altronde che si tratta di un’incompatibilità di fatto piuttosto che di principio, nel senso che non si tratta da parte nostra di negare il valore almeno relativo del misticismo, né di contestare il posto che gli può legittimamente competere in certe forme tradizionali; la via iniziatica e la via mistica possono dunque coesistere perfettamente[4], ma quel che vogliamo dire, è che è impossibile che qualcuno segua sia l’una sia l’altra, e questo senza neppure pronunciarsi sullo scopo cui possono condurre, benché del resto si possa già prevedere, in ragione della differenza profonda dei domini cui si riferiscono, che tale scopo non può essere lo stesso in realtà.

Abbiamo detto che la confusione che fa vedere a certuni del misticismo là dove non ve n’è la minima traccia ha la sua origine nella tendenza a tutto ridurre ai punti di vista occidentali; si è che, infatti, il misticismo propriamente detto è qualcosa d’esclusivamente occidentale e, in fon­do, di specificamente cristiano. A tal proposito, ci è capitato di fare un’osservazione abbastanza curiosa perché la riportiamo qui: in un libro di cui abbiamo già parlato in altra sede[5], il filosofo Bergson, opponendo quelle che egli chiama la “religione statica” e la “religione dinamica”, vede la più alta espressione di quest’ultima nel misticismo, che d’altronde non capisce molto, e che ammira soprattutto per ciò che noi potremmo al contrario trovarvi di vago e persino di difettoso sotto certi aspetti; ma quel che può sembrare veramente strano da parte di un “non cristiano”, è che, per lui, il “misticismo completo”, per quanto poco soddisfacente sia l’idea che se ne fa, è comunque quello dei mistici cristiani. Per la verità, come conseguenza necessaria della poca stima che prova per la “religione statica”, egli dimentica un po’ troppo che questi ultimi sono cristiani ancor prima d’essere mistici, o almeno, per giustificarli d’essere cristiani, pone indebi­tamente il misticismo all’origine stessa del Cristianesimo; e, per stabilire a tal proposito una sorta di continuità tra quest’ultimo e l’Ebraismo, arriva al punto di trasformare in “mistici” i profeti ebraici; evidentemente non ha la minima idea del carattere della missione dei profeti e della natura della loro ispirazione[6]. Comunque sia, se il misticismo cristiano, per quanto defor­mato o sminuito sia il concetto che se ne fa, è così ai suoi occhi il tipo stesso del misticismo, la ragione ne è, in fondo, ben facile da capire: si è che, in realtà e rigorosamente parlando, non esiste altro misticismo che quello cristiano; e anche i mistici che si chiamano “indipendenti”, e che noi diremmo più volentieri “aberranti”, s’ispirano in realtà soltanto, fosse pure a loro insa­puta, a idee cristiane snaturate e più o meno interamente svuotate del loro contenuto originario. Ma anche questo, come tante altre cose, sfugge al nostro filosofo, che si sforza di scoprire, anteriormente al Cristianesimo, degli «abbozzi del futuro misticismo», mentre si tratta di cose totalmente diverse; vi sono segnatamente sull’India alcune pagine che rivelano un’incompren­sione inaudita. Vi sono anche i misteri greci, e qui l’accostamento, fondato sulla parentela eti­mologica che segnalavamo sopra, si riduce insomma a un ben brutto gioco di parole; del resto, Bergson è obbligato a confessare lui stesso che «la maggior parte dei misteri non ebbe nulla di mistico»; ma allora perché parlarne sotto questo vocabolo? Quanto a quel che furono quei misteri, egli se li rappresenta nel modo più “profano” possibile; tutto ignorando dell’iniziazione, come potrebbe capire che vi fu lì, così come nel caso dell’India, qualcosa che per prima cosa non era assolutamente d’ordine religioso, e poi andava incomparabilmente più lontano del suo “misticismo”, e, bisogna pur dirlo, anche del misticismo autentico, che, per il fatto stesso che si confina nel dominio puramente exoterico, ha necessariamente anch’esso le sue limitazioni[7]?

Non ci proponiamo affatto al presente d’esporre in dettaglio e in modo completo tutte le differenze che separano in realtà i due punti di vista iniziatico e mistico, giacché solo questo ri­chiederebbe un intero volume; la nostra intenzione è soprattutto d’insistere qui sulla differenza in virtù della quale l’iniziazione, nel suo stesso processo, presenta caratteri completamente di­versi da quelli del misticismo, se non addirittura opposti, il che basta a mostrare che di fatto si tratta di due “vie” non soltanto distinte, ma incompatibili nel senso già da noi precisato. Ciò che più spesso si dice a questo proposito, è che il misticismo è “passivo”, mentre l’iniziazione è “attiva”; ciò è d’altronde verissimo, a condizione di determinare bene l’accezione nella quale si deve intenderla esattamente. Ciò significa soprattutto che, nel caso del misticismo, l’individuo si limita a ricevere semplicemente quel che gli si presenta, e come gli si presenta, senza interve­nire per nulla; e, diciamolo subito, è in ciò che sta per lui il principale pericolo, per il fatto che è così “aperto” a tutte le influenze, di qualunque ordine siano, e che per di più, in generale e salvo rare eccezioni, non ha la preparazione dottrinale che sarebbe necessaria per permettergli di stabilire tra di esse una qualsivoglia discriminazione[8]. Nel caso dell’iniziazione, al contrario, è all’individuo che compete l’iniziativa di una “realizzazione” che perseguirà metodicamente, sotto un controllo rigoroso e incessante, e che dovrà normalmente condurre al superamento delle possibilità stesse dell’individuo come tale; è indispensabile aggiungere che tale iniziativa non basta, giacché è ben evidente che l’individuo non può andare al di là di se stesso con i pro­pri mezzi, ma, ed è ciò che per il momento ci importa, è essa a costituire obbligatoriamente il punto di partenza di qualsiasi “realizzazione” per l’iniziato, mentre il mistico non ne ha nessuna, sia pure per cose che non vanno assolutamente al di là del dominio delle possibilità individuali. Questa distinzione può già parere abbastanza netta, poiché fa vedere bene come non si possano seguire contemporaneamente le due vie iniziatica e mistica, purtuttavia non può bastare; po­tremmo anzi dire che essa corrisponde ancora soltanto all’aspetto più “exoterico” della questio­ne, e, in ogni caso, è troppo incompleta per quanto riguarda l’iniziazione, di cui è molto lontana dall’includere tutte le condizioni necessarie; sennonché, prima d’affrontare lo studio di tali con­dizioni, ci restano ancora da dissipare alcune confusioni.



René Guénon

[1] È così che, specialmente da quando l’orientalista inglese Nicholson si è azzardato a tradurre taçawwuf con mysticism, si è convenuto in Occidente che l’esoterismo islamico è qualcosa d’essenzial­mente “mistico”; anzi, in questo caso, non si parla più del tutto d’esoterismo, ma unicamente di misti­cismo, vale a dire si è arrivati a una vera e propria sostituzione di punti di vista. Il più bello è che, su questioni di quest’ordine, l’opinione degli orientalisti, che queste cose le conoscono solo attraverso i libri, conta manifestamente molto di più, agli occhi dell’immensa maggioranza degli Occidentali, del parere di coloro che ne hanno una conoscenza diretta ed effettiva!

[2] Altri si sforzano pure di travestire le dottrine orientali da “filosofia”, ma questa falsa assimilazione, in fondo, è forse meno pericolosa dell’altra, a causa della stretta limitazione dello stesso punto di vista filosofico; costoro d’altronde non riescono molto, per il modo speciale in cui presentano tali dottrine, se non a ridurle a qualcosa di totalmente privo d’interesse, e quanto sprigiona dai loro lavori è soprattutto una prodigiosa impressione di “noia”!

[3] Possiamo citare, come esempio di “ascetica”, gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio da Loyola, il cui spirito è incontestabilmente quanto c’è di meno mistico, e per i quali è almeno verosimile che egli si sia in parte ispirato a certi metodi iniziatici, d’origine islamica, ma, beninteso, applicandoli a uno scopo intera­mente diverso.

[4] Potrebbe essere interessante, a tale proposito, fare un confronto con la “via secca” e la “via umida” degli alchimisti, ma ciò esulerebbe dal quadro del presente studio.

[5] Les deux sources de la morale et de la religion. – Vedere sull’argomento Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, cap. XXXIII.

[6] In realtà, si può trovare un misticismo ebraico propriamente detto soltanto nello Hassidismo, vale a dire in un’epoca molto recente.

[7] Il sig. Alfred Loisy ha voluto rispondere a Bergson e sostenere contro di lui che v’è una sola “fonte” della morale e della religione; nella sua qualità di specialista di “storia delle religioni”, preferisce le teorie di Frazer a quelle di Durkheim, e anche l’idea di una “evoluzione” continua a quella di una “evoluzione” per brusche mutazioni; per noi tutto ciò che si equivale; ma v’è almeno un punto sul quale dobbiamo dargli ragione, e lo deve certamente alla sua formazione ecclesiastica: grazie a quest’ultima, egli conosce i mistici molto meglio di Bergson, e fa notare che essi non hanno mai avuto il minimo sospetto di qualcosa che assomiglia anche soltanto un poco allo “slancio vitale”; evidentemente, Bergson ha voluto fare di loro dei “bergsoniani” ante litteram, ciò che non è molto conforme alla semplice verità storica; e il sig. Loisy si stupisce anche giustamente di vedere Giovanna d’Arco annoverata tra i mistici. – Segnalia­mo di sfuggita, giacché vale la pena di registrarlo, che il suo libro si apre con un’ammissione assai di­vertente: «L’autore del presente opuscolo», egli dichiara, «non si riconosce particolari inclinazioni per le questioni d’ordine puramente speculativo». Lodevole franchezza; e, poiché è lui stesso che lo dice, e in modo del tutto spontaneo, gli crediamo volentieri sulla parola!

[8] È anche questo carattere di “passività” che spiega, benché non li giustifichi, gli errori moderni che tendono a confondere i mistici, vuoi con i “medium” e altri “sensitivi”, nel senso attribuito dagli “psichisti” a tale parola, vuoi addirittura con dei semplici malati.