domenica 29 marzo 2020

REX ARTURIUS La stirpe dei sacerdoti

 Di Andrea Romanazzi

Abbiamo parlato in altra sede del culto unico della dea madre, di come esso fosse in stretta relazione con il culto solare, e di come tali culti fossero il retaggio di un culto ancora più antico e dimenticato: il culto della Luna. Gli antichi sceglievano come luoghi sacri a tali culti particolari punti in cui si sviluppavano e si sviluppano tuttora energie telluriche notevoli, abbiamo chiamato tali punti "nodi vibranti" già che tali energie si basano sul concetto di vibrazione il cui ricordo ritroviamo nella cultura egizia, in particolare nei culti isidei, nelle cosi’ dette "parole di potenza".

Sempre seguendo la nostra ricerca abbiamo trovato, poi, il "simbolo" di questa religione, il Graal, considerato, sia oggetto materiale sia metafora del ventre della dea Terra.

A questo punto ci chiediamo chi erano i "sacerdoti di questo culto? Quanti ce ne sono stati in passato?

Ed ecco che per rispondere alle nostre domande dobbiamo tornare alla "materia di Bretagna" e alla figura di re Artù.

Diverse sono le ipotesi sull’origine etimologica di Artù, Il nome potrebbe derivare dai termini celtici ART (roccia) o ARTH GWYR (uomo orso), Artù fu citato come personaggio storico solo nel X secolo d.C., ma le tradizioni lo portano indietro fino al V VI secolo. Nel 600 viene composto un poema epico, GODODDIN,il suo autore cita in un interessantissimo passo un guerriero che "forni' cibo ai corvi presenti sui bastioni senza essere un ARTU'.Che significa questa frase? Esisteva più di un artù? Se così fosse ciò giustificherebbe alcune contraddizioni temporali che caratterizzano il re celtico.Alcuni pensano che il termine artù, nato da un primo mitico re, fosse un titolo che veniva preso da tutti i suoi successori, un po' come il titolo di Cesare per i romani. Questo giustificherebbe le varie discrepanze di tempo che vi sono su tale figura, anzi, poiché re artù venne legato alla mitica impresa di recupero del graal, può essere che tutti quelli che erano designati a tale missione prendessero tale titolo. Per alcuni, Artù è un personaggio ispirato a Cu Chulainn , protagonista di poemi epici irlandesi e il nome potrebbe derivare dal latino Artorius  (in tal caso Artù era forse un Comes Britanniarum , ovvero un rappresentante locale dell'Impero Romano e quindi ancora piu’ che un nome reale rappresenterebbe un titolo).Ancora la figura di Artù la troviamo nella Vita di San Colombano, santo legato alla scoperta del nuovo continente,(VIII secolo) ove l’agiografo Adomnan da Iona nomina Un principe britanno chiamato "Arturius figlio di Aedàn mac Gabrain Re di Dalriada" .

La ricerca delle prove storiche dell'esistenza di Artù continua, appassionata e ininterrotta, fin dal 1190, quando i monaci di Glastonbury identificarono la loro Abbazia con la mitica Avalon, ove il sovrano era stato trasportato dopo essere stato mortalmente ferito a Camlann.

Artù diventa protagonista o comprimario di narrazioni gallesi intorno al 600 d.C.; in un poema del ciclo Gododdin è descritto come un guerriero invincibile, in un altro Artù discende agli inferi per recuperare un magico calderone, e qui ritroviamo metaforicamente sia il culto ctonio (la grotta) sia il simbolo della coppa. Comunque solo Verso il 1190 Chretien de Troyes, nel poema Perceval le Gallois ou le Conte du Graal, introdusse nella "materia" il tema della del Graal.

L'epopea arturiana venne definitivamente messa a punto, poi, da , Sir Thomas Malory. Nel frattempo appare un’altra figura:infatti Gran consigliere del re è il druido Merlino, che fa concepire lo stesso artù con l’inganno.Ma chi era Merlino?

La denominazione Merlinus venne utilizzata per la prima volta da Geoffrey di Monmouth nell'Historia Regum Britanniae, nelle Prophetiae Merlini e nella Vita Merlini,
Il Merlino storico visse probabilmente nel VI secolo; era un Bardo gallese - identificato da alcuni storici con un altro famoso Bardo, Taliesin - specializzato in testi profetici. La sua vita - almeno secondo le incerte cronologie del basso medioevo - fu incredibilmente lunga, tanto che certi commentatori ritengono che siano esistiti due Merlini diversi.. Della produzione letteraria di Merlino resta un solo frammento dell'opera Afallenau: la strofa di una profezia in un arcaico dialetto gaelico che nessuno è mai riuscito a tradurre:

Saith ugein haelion a aethant ygwyllon
yng koed Kelydon y daruyant:
kanys mi vyrdin wedy Taliessin
Byathad kyffredin vyn darogan

Fu il Vescovo Alessandro di Lincoln a richiedere a Geoffrey di "prophetias Merlinide Britannico in latinum transferre", ovvero di tradurre le profezie dal gaelico al latino, e, difatti, le Prophetiae Merlini (che, molto probabilmente, l'autore aveva reinventato) sono precedute da una dedica all'alto prelato. Forse proprio grazie all'autorità del committente, la Chiesa Cattolica considerò Merlino un profeta "cristiano" e degno di rispetto; del resto, nella saga arturiana, è proprio il mago a innescare il processo che permette "al dio Unico di cacciar via i molti Dèi celtici". In realtà la ricerca del dio unico si riferirebbe non già a quello cristiano, ma al culto unico della Dea Madre.

Altro personaggio della saga è Morgan Le Fay e’ un personaggio direttamente derivato dalle divinità Morrighan, Macha  e Modron  la grande madre celtica compare per la prima volta nella Vita Merlini di Geoffrey e aiuta Artù a guarire dalle sue mortali ferite. All’inizio dunque vi è uno ottimo rapporto tra morgana ed artù solo successivamente. Nelle opere tardo medioevali, dimenticate le origini semidivine, viene presentata come una perfida seduttrice,: il prototipo, insomma, della "donna sessuata" - la strega  - aborrita e temuta dalla Chiesa cattolica. Ancora una volta siamo di fronte ad un tentativo di camuffare e confondere le tracce del culto della grande dea che quindi era vicina all’artu’.

Ora dopo questa breve introduzione sul mito arturiano vediamo come la figura di re artù si trovi spesso anche in italia, Alfredo Castelli, nell’"enciclopedia del mistero" presenta la seguente composizione

Lo Re Artù k'avemo perduto
Cavalieri siamo di Bretagna
ke vegnamo de la montagna
ke l'omo appella Mongibello.
Assai vi semo stati ad ostello
per apparare ed invenire
la veritade di nostro sire
lo Re Artù, k'avemo perduto
e non sapemo ke sia venuto.
Or ne torniamo in nostra terra
ne lo reame d'Inghilterra

La poesia, è di un autore duecentesco noto come Gatto Lupesco,un nome piuttosto pittoresco che ricorderà da vicino altre simbologie in Italia, legate al mitico rex. La leggenda di Artù nell'Etna è riportata anche negli Otia Imperialia dell'inglese Gervase di Tilbury (XII secolo), il quale l'aveva appresa sul luogo intorno al 1190.

Testimonianze di carattere architettonico si riscontrano nel Duomo di Modena, sul portale della Cattedrale di Bari e nel mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto.

In particolare facciamo un accenno alla cattedrale di otranto.

.il pezzo forte di tal basilica e’ il mosaico, esso rappresenta l’albero della vita che descrive le vicende umane, per la maggior parte sono vicende bibliche, da Adamo ed Eva a Noé…si parte dall’alto fino a scendere verso il basso,ove vi e’ la storia della città di Otranto. La spiritualità del mosaico di otranto e’ di tipo orientale, e’ Dio che scende verso gli uomini e non gli uomini che salgono verso dio.

Sempre nel mosaico troviamo la Scacchiera, simbolo poi adottato dai Templari, essa rappresenta l’ordine cosmico, l’eterna lotta del bene e del male, che non ha mai fine .Anche la scacchiera ha un significato esoterico, il re rappresenta il sole, il principio creatore limitato, la regina (la Donna) rappresenta la Terra, si può spostare in ogni direzione, la torre rappresenta saturno il suo movimento è il quadrato, l’alfiere è giove il trigono, mentre il cavallo indica il cavaliere che deve effettuare il salto per potersi purificare mentre il pedone è l’uomo.Ma non divaghiamo, e arriviamo a re Artu’. Infatti nel mosaico rex Artù è rappresentato in groppa ad una pecora con un gatto (leopardo), che appunto ricorda il nome di "gatto lupesco" che cerca di assalirlo.Potrebbe essere il ricordo della morte di un "artù" in italia?Nei nostri studi nell’Italia misteriosa abbiamo trovato una tomba di un artù, in particolare essa è situata a Roma, ma questa e’ un’altra storia….torniamo al mosaico… A guardar questa scena vi è, forse Parcival ,il cui aspetto e’ particolare, sta in piedi, dritto, bello, si eleva sopra artù e abele, quasi simbolo di chi è degno del cielo. Potrebbe esser proprio Parcival che, dopo il recupero del graal, "sembra raddrizzarsi e riluce di una bellezza sovrumana".

Ma ancora

Le leggende arturiane, cariche di significato esoterico, hanno un "prologo" in Italia, attorno alla figura inquietante di un singolare santo-avventuriero, San Galgano, figura comunque antecedente al mito arturiano e quindi , appunto, che fa pensare ad un significato piu’ profondo della materia di bretagna, la spada nella roccia può metaforicamente rappresentare il Raggio di sole in relazione alla pietra, cioé ancora l’unificazione del culto della pietra col culto solare.

Ma chi era questo San Galgano?

Riportiamo un antico documento sulla vita del santo:


-Dal Codice conservato nella biblioteca Chigiana del Vaticano-

Incomincia la leggenda di santo Galgano confessore:

 "Galgano per natione fu di Toschana, del contado della città di Siena, d'un castello che si chiama Chiuslino lo cui padre ebbe nome Guidotto e la sua madre Deonigia, nato di nobile parentado e di generatione,ma di virtù e sanctità più nobile. Lo quale Galgano fu huomo feroce e lascivo a mmodo che sono e' giovani, implicato nelle cose mondane e terrene. Ma le revelationi di misser santo Micchele arcangelo profetaro ch'elli doveva essere cavalieri di Dio: perciò che cui la dispensatione divina vuole salvare, non é tanto peccatore né involto ne le cose carnali e terrene che lo possino tenere che a Dio non torni.

 Onde, essendo Galgano in questo stato che detto é, cioé innanzi la sua conversione a Dio, sì gli apparbe santo Micchele arcangelo in visione, lo quale affettuosamente addomandava a sua madre che lo dovesse vestire e addornare d'abito di cavaliere; la cui madre a le preghiere dell'angelo acconsentiva, ed elli, essendo così addornato da la sua madre di vestimenta di cavaliere, con efforzati passi seguitava l'arcangelo così come la visione li mostrava.

 E desto e isvegliato che fu dal sonno, la detta rivelatione e visione incontamente l'ebbe manifestata a la sua madre, la quale con ineffabile allegrezza, ripiena di molta letitia, tacitamente quello che la visione significasse considerava. E in questo modo parlò al suo figliuolo, e dixe: "Figliuol mio, buona é la tua visione e ammirabile, e perciò non dubitare che grande allegrezza significherà, con ciò sia cosa che io sia vedova, e tu sia orfano rimaso dopo la morte del tuo padre. Onde sappi che noi saremo raccomandati a la custodia e guardia del beato santo Micchele a ccui lo tuo padre, quando viveva, spetiale e singulare reverentia e devotione aveva sopra tutti gli altri santi".

 Passati che furono alquanti anni, pensando Galgano nell'animo suo che fine avarebbe la detta visione e revelatione, lo detto arcangelo anco si apparbe in visione a Galgano e dixeli: "Seguitami". Allora Galgano, con esmisurata allegrezza e gaudio levandosi, e desiderando a la detta cavalleria pervenire che ll'arcangelo gli aveva promesso in visione, e con grandissima devotione le pedate e le vestigie sue seguitava insino a un fiume, sopra el quale era un ponte el quale era molto longo e senza grandissima fadigha non si poteva passare, sotto lo qual ponte, siccome la visione li mostrava, si era uno mulino lo quale continuamente si rotava e si volleva, lo quale significava le cose terrene le quali sono in perpetua fluxione e movimento e senza nessuna stabilità e in tutto labili e transitorie. E, passando oltre, pervenne in uno bellissimo e dilettevole prato, lo quale era pieno di fiori, del quale esciva smisurato odore e gratioso. Poi, escendo di questo prato, parveli di entrare sottoterra e venire in Monte Siepi, nel qual monte trovava dodici appostoli in una casa ritonda, li quali recavano uno libro aperto, e che elli lo leggesse ne la qual parte del libro era questa sentenza: Quoniam non cognovi licteraturam, introibo in potentias Domini, Domine memorabur iustitiae tuae solius. Essendo in questa chasa ritonda cogli occhi in cielo, vidde una immagine speciosa e bellisima nell'aire. Unde dimandò che fusse quella immagine, e gli apostoli risposero e dixero: "Quella immagine si è quelli che fu ed era, e che die venire a ggiudicare el mondo, Idio e Huomo". Udito che ebbe Galgano queste parole, meravigliandosi tra sé medesimo de la visione, si svegliò e subbitamente narrò a la madre sua le sopra detta visione, e con esmisurato gemito e pianto di letitia pregò la madre sua ch'ella insieme co llui andasse al luogo de la detta visione, andasse cioè a quello Moonte Siepi, e menasse maestri di pietra e di legname, li quali ine facessero una casa ritonda, come quella che lli mostrò l'arcangelo, a onore de la maestà divina e de' dodici appostoli. Allora rispose la madre, e dixe: "Figliuol mio carissimo, el tempo è ora fuore di stagione, però che è di verno, ed è el freddo grandissimo, ed è la fame grande, e el luogo è agresto, e quasi di non potervi andare ora; ma tosto verrà tempo abile, sicché al tuo desiderio e volere ti potrà satisfare".

E di po' questo, andando Galgano a un castello che si chiama Civitella, el cavallo andando per la via si trattenne, e stette fermo; e speronando Galgano el cavallo con ammenduni gli speroni, e non volendo el cavallo mutarsi né andare più oltre, tornò adietro ad un castello de la Pieve di Luriano, lo quale v'era presso, e ine si albergò. L'altro dì, tornando al detto luogo e passo per andare al detto castello di Civitella, lo detto cavallo in quello medesimo luogo anco si rattenne, e, speronandolo cogli speroni e non potendolo far mutare, si posò la retine sopra lo collo del cavallo, e pregò Idio devotissimamente in queste parole, e dixe: "Creatore altissimo, principio di tutti e' principii, e che facesti lo mondo di quattro elementi, et che lo mondo, per li peccati degli uomini corrotto, per diluvio sì sanasti e purificasti, e che passare facesti lo tuo popolo e seme d'Abram lo Mare Rosso a ppiedi secchi, e che, nel tempo de la plenitudine de la gratia, del seno del tuo Padre nel ventre de la Vergine Maria descendesti vestito de la nostra humanitade, e lo patibolo de la croce, li chiovi, e sputi, e fragellato e humiliato per ricomprarci sostenesti, e lo terzo dì resuscitando da morte a coloro che tti credettero apparisti, e che lo quadragesimo dì in cielo salisti, per cui comandamento e volontà tutte le cose procedono; drizzami ne le tue semite e ne la tua vita e nell'opere de' tuoi comandamenti, acciò che, al tuo servigio devotissimamente stando, lo promesso habito di cavaliere meriti d"acquistare, lo quale ne la visione mi mostrasti; e menami, Signor mio, ne la via de la pace e de la salute, siccome menasti lo tuo servo e profeta nel lago de' leoni, lo quale portasse lo cibo da mangiare a Daniello".

 Finita che fu l'oratione, incontenente senza che altri lo guidasse, e senza che Galgano co li speroni lo pognesse, el cavallo senza endugio si pervenne in Monte Siepi, del quale con grandissima allegrezza si discese da cavallo in quello luogo, dove in visione li dodici appostoli aveva veduti, e, non potendo fare una croce di legname, si prese la spada ch'egli aveva a llato e in luogo di croce su la dura pietra la ficcò, la quale insino al dì d'oggi così è ne la pietra fitta. Poi acconciò il suo mantello a mmodo di veste manacile, e, fatto uno forame nel mezzo a mmodo di schappulare, sel vestì. Di po' questo, diliberando nell'animo di ritornare a ccasa per distribuire a' poveri quello che questo misaro mondo gli aveva dato, la prima volta, e la seconda, e la terza, udì dal cielo questa boce che diceva così: "Galgano, Galgano, sta' fermo, perciò che in questo luogo gli tuoi dì finirai. Non si vuole al principio corrare colui che combatte, ma a la fine".

 Unde Galgano, udito ch'ebbe questa boce, si stette fermo e lassò ogni pensiero di volere dispensare lo suo patrimonio. Et essendo in luogo salvatico, che non v'aveva cosa neuna da mangiare, si discendeva a ppiè del monte e ine sostentava lo corpo suo d'erbe selvatiche, che si chiamano crescioni. Et essendo una notte fra due valli a ppiei di questo monte appiattato fra due carpini, udì lo demonio venire contra di lui, lo quale si ingenia di ingannare ogni huomo che vuol servire Dio. Galgano, come costante e fermo, si uscì contra lo demonio per combattere co llui. Allora, vedendo lo demonio la costantia sua, sì percosse in quel luogo una trave di fuoco, et con grande stridore confuso se n'andò.

 Unde di lì a ppochi dì si propose nell'animo suo di andare ad visitare la basilica degli appostoli, cioè a rRoma, per la visione ch'egli ebbe di loro: et partendo da Monte Siepi pervenne a rRoma, e infinite basiliche di santi sì visitò. Et facendo a rRoma alcuna dimoranza, si vennero alquanti pieni d'invidia al luogo dove la sua spada era fitta, et ine con marroni e altri ferri sì si engegnavano sconficcarla di terra, e con molta fadiga, come a Dio piacque, non potendola sconficcare, sì la ruppeno; et volendola portare co lloro, e non potendo, sì la lassaro così rotta in terra e andavansene. Et andandosene per tornare alle lor case, per divino giudicio ne furono così puniti: e, partiti che furono, e ll'uno cadde in uno fiumicello d'acqua e annegò, e all'altro vene una saetta da ccielo e uciselo, poi venne uno lupo e aventossi addosso all'altro e preselo per lo braccio; e raccomandandosi al biato Galgano, incontanente el lupo fuggì, e non morì.

 Galgano, tornando da rRoma, e trovando la spada rotta, incominciò ad avere grandissimo dolore, e dixe: "Forse perciò permisse Idio che la mi fosse rotta, perch'io lassai el luogo che l'angelo m'aveva mostrato". Sicché, volendo Idio la sua tristizia consolare, una volta e due e tre sì gli apparbe in visione, e mostrogli che dovesse porre la spada rotta in sul pezzo ch'era rimasto fitto ne la pietra, et che la spada starebbe più ferma che innanzi. Allora Galgano così fece, tolse la spada e congionse l'un pezzo con l'altro. La spada fu incontenente risalda, ed é stata così salda insino al dì d'oggi. Dipo' questo, Galgano si fece una cella a mmodo di romito, ne la quale el dì e la nocte vacava in digiuni, e orationi, e meditazioni, e contemplationi, sempre macerando così lo suo corpo. Questa cella era di  legname fatta, ritonda a mmodo di quella che oggi è fatta di pietra, come l'angelo gli aveva mostrato in visione. Galgano contemplava in questa cella, avendo sempre la mente a le cose celestiali, spogliandosi d'ogni atto e cogitatione terrena. Lo suo cibo era d'erbe selvatiche, d'altro non rechedeva lo suo corpo. Contemplava la fragilità di questo mondo, come gli onori e la gloria mondana sono cose fuggitive e caduche e come è breve lo tenpo che ci aviamo a vivere. Et contemplava la vita etterna com'ella è inestimabile e perpetua senza fine. Et vegghiando una notte, e stando in oratione, subito vidde la cella illuminata di tanto splendore che parbe che per mille forami uno razo di sole e di luce risplendesse come fuoco, et entrasse nella cella dov'elli era. Et di questa luce uscì una boce chiara che dixe: "Galgano mio, te' quello che seminasti". Unde, al suono di questa boce stupefatto, e ricordandosi che lo dì del Signore cioè la notte come ladro viene, incontenente, levate le mani al cielo e le ginocchia poste in terra, con boce piena di lagrime dixe così: "Tu, Signore, che tucte le cose sai, a ccui niuno secreto è nascosto, lo quale facesti lo ladrone ch'era su la croce crucifixo partecipe di vita etterna, et che tutti gli huomini del ventre de le madri loro innudi li fai nasciare e innudi li ricevi, e che ogni persona fai ritornare ne la sua propria materia, cioè in cennere, come di cennere e di terra li creasti tu, Signor mio, ricevi me escendo de le miserie et de le cattività di questo mondo, e pericoli, et menami nel porto de la tua tranquillità, e pace, sicché cogli eletti tuoi e nel consortio de' giusti io meriti d'essere gloriato ed exaltato".

 Fatta ch'ebbe questa oratione, l'anima sua si partì dal corpo, e meritò di pervenire a la patria celestiale de' santi di vita eterna.   Visse el beato Galgano in questa heremitica vita et conversione uno anno meno due dì et fu sepolto con grande honore e reverentia ne la detta sua cella, ove poi si fece una chiesa ritonda come l'angelo gli aveva mostrato in visione, ne la quale continuamente gli miracoli sono multiplicati. A laude e gloria del nostro Signore Gesù Cristo, lo quale regna col suo Padre in secula seculorum. Amen."


Questa Vita di Galgano é tratta da un codice quattrocentesco conservato nel fondo chigiano della Biblioteca Apostolica Vaticana nel quale sono contenute una serie di vite di santi. E' stato pubblicato per la prima volta nel libro di Franco Cardini "San Galgano e la spada nella roccia" edito da Cantagalli di Siena che si può considerare uno dei testi fondamentali per la comprensione della leggenda galganiana.

Secondo le tradizioni quindi , Galgano Guidotti, fondatore di un ordine monastico di tipo francescano - era stato cavaliere di ventura e non aveva condotto un vita proprio esemplare.

Dopo la sua morte, avvenuta nel 1181 - che coincide, peraltro, con la nascita di San Francesco - ,(e anche questo e’ un fatto piuttosto curioso già che il santo di Assisi ebbe numerosi contatti con la figura di Federico II) ,attorno a Montesiepi ed al luogo ove egli aveva infisso in una roccia la sua spada di ex cavaliere convertito al saio, iniziarono a svolgersi eventi ed episodi mai del tutto chiariti, a cominciare dalla costruzione della stessa chiesetta circolare che custodisce, , un frammento di roccia con la spada del santo ancora conficcata in una fessura. Questa chiesetta è, a pianta circolare e già questo è molto strano, infatti questo tipo di pianta ricorda la pianta di templi pagani e nn solo.Infatti molto probabilmente il luogo era già sacro in precedenza e comunque legato a culti e tradizioni celtiche,del resto deve ricordarsi che il più antico nome di Montesiepi era Cerboli, che rimanda al Cervo, animale totemico tipicamente celtico, emblematizzato addirittura in una delle principali divinità, Cernumno. Inoltre in un sito vicinissimo a Montesiepi v'è il paesino di Brenna, il quale, oltre il richiamo a Brenno (re celto-gallico) e a Bran (eroe fondatore celtico),

La frettolosa beatificazione del santo, poi, ha tutta l'aria di un "coperchio" messo su un movimento ed un personaggio che le gerarchie dell'epoca dovevano avvertire essere in odore di eresia.. ..

Anche Dante Alighieri menziona Re Artù nel De Vulgari Eloquentia (Arturis regis ambages pulcerrimae, "le bellissime avventure di re Artù"), e, nell'episodio di Paolo e Francesca dell'Inferno, riprende la sequenza del primo bacio tra Lancillotto e Ginevra, uniti dai buoni uffici di Lady Galehaut (Galeotto).La menzione Dantesca non ci sembra affatto casuale del resto Dante era affiliato alla setta dei "Seguaci d’Amore" e ,anche se non in maniera molto precisa conosceva la funzione degli artu’ individuando in Virgilio uno di questi sacerdoti e come noi sappiamo,non aveva sbagliato.

-LA MITICA AVALON-

Strettamente legata al miti arturiano e’ l’isola di Avalon, mitico luogo da dove provennero i Thuatha de Danann e ove, secondo la leggenda fu seppellito il primo Artù.

Il nome Avallon deriva dal cimrico AFAL cioe’ pomo. La figura del pomo, e quindi del legame agricolo fa parte di tutta una simbologia dell’isola che la lega cosi’ di diritto al culto lunare altrimenti poi detto della dea Madre.

Avalon dunque significa "terra dei pomi", ma il nome Avalon riporta da vicino a Ablem\Belem che sarebbe l’equivalente celtico di Apollo e quindi ritroviamo anche qui il dualismo Terra-Sole di cui abbiamo già parlato. Un altro nome di Avalon era la "terra degli immortali" O, detta anche Tir na n’-og , "paese della giovinezza".

Sempre secondo le leggende celtiche simbolo della terra iperborea e’ anche l’ ALBERO D’ARGENTO CHE RECA IL SOLE ALL’ESTREMITA’ ( e il simbolo e’ facilmente riconducibile al culto lunare il cui metallo e’ proprio l’argento) LA FONTANA DELLA GIOVINEZZA e LA COPPA ( ovviamente legata al simbolismo tellurico).

E’da Avalon che provengono i Thuatha de Danann , letteralmente "la stirpe della dea Dana " , detta anche ANA la quale nn solo e’ madre ma e’ anche nutrice invisibile.

Potrebbe essere un caso se la madre della Madonna, spesso scambiata con una vergine nera , si chiama proprio ANNA? Quindi da tradizioni iperboriche il nome anna è simbolo di Madre.

Il legame tra Avalon e le terre iperboree dei miti greci è notevole, infatti secondo i miti greci nelle terre iperboriche avevano soggiornato sia Apollo che Artemide, e quindi anche nelle terre iperboriche ritroviamo il ricordo del culto lunare-solare e del dualismo uomo-donna , terra-sole….

Le terre iperboree erano posizionate per i greci nelle vicinanze del polo nord, come del resto il Giardino delle Esperidi. Molti eroi si recarono in siffatto luogo alla ricerca, guarda un po’, delle mele d’oro, che non fanno altro che ricordare la "terra dei pomi" cioé ancora avalon. Molti furono gli eroi che tentarono di raggiungere questo mitico luogo, tra loro Eracle riesce ad accedere al giardino poiché immortale , e non a caso un’altra dizione di avalon e’ quella di "terra degli immortali", qui il nostro erode deve lottare contro tritone e per passare indenne attraverso l’oceano usa la COPPA DEL SOLE (altro riferimento ai miti celtici).

Custode del giardino e dell’albero delle mele d’oro è il serpente Ladone, secondo alcune versioni Eracle uccide il serpente. Abbiamo già esaminato la profonda simbologia dell’uccisione del serpente o del drago da parte di Thot, San Michele e numerosi altri santi…essa non rappresenta altro che la conquista della conoscenza e il saper domare le potenti energie telluriche.

Ma un mito simile lo ritroviamo anche in oriente, con Alessandro Magno , egli raggiunge il famoso regno di Prete Gianni, ove "crescono gli alberi del sole e della luna", dizione che ricorda da vicino l’albero d’argento con il sole in sommità di Avalon e non solo, perché anche nel regno di Prete Gianni e’ presente una fonte della giovinezza, le cui acque ridonavano gioventù e vigore, lo stesso Prete Gianni vi si sarebbe immerso più volte raggiungendo la rispettabile età di cinquecentosessantadue anni.

Cosi’ cercando abbiamo risolto un altro enigma ,un enigma racchiuso tra le mura di Castel del monte.

Infatti ricordiamo il bassorilievo fortemente voluto da Federico II a che rappresenta una scena di caccia il cui protagonista è proprio Alessandro Magno, bene esso rappresenta proprio la "cerca di Avalon" mitico luogo da ove proviene il graal e la religione primordiale!


venerdì 27 marzo 2020

Sulle tracce del Sacro Graal

UNA DELLE LEGGENDE PIU' AFFASCINANTI LEGATE AL FOLKLORE MEDIEVALE EUROPEO

La mitica coppa che raccolse il sangue del Cristo morente sarebbe stata ritrovata un paio di anni fa da uno studioso inglese nel suo Paese, dove sarebbe giunta per metterla in salvo all'epoca in cui i Visigoti assediavano Roma. Ma che cos 'è realmente il Graal e che cosa si sa sul suo conto? Vediamo quali sono le ipotesi sulla sua vera natura e sui nascondigli che lo avrebbero celato per secoli.

di Marco Fornari

    Nel mese di agosto del 1995 si e ufficialmente conclusa la millenaria ricerca del Santo Graal. Questo, in breve, e il sunto dei vari comunicati stampa che hanno fatto il giro del mondo dopo le dichiarazioni dello studioso inglese Graham Phillips, secondo il quale la mitica coppa sarebbe di proprietà di una sua connazionale, la disegnatrice pubblicitaria Victoria Palmer, residente a Rugby poco distante da Coventry. Phillips, sulle tracce del Graal da parecchio tempo, sostiene di aver condotto i suoi studi senza mai uscire dal paese in cui vive e basandosi sulle numerose tradizioni che vorrebbero il sacro calice nascosto in qualche parte della Gran Bretagna. Ma procediamo con ordine. Che cos'è, innanzi tutto, il Sacro Graal e come è nata la sua leggenda?

IL CALICE DELL'ULTIMA CENA

    Il Sacro Graal è, secondo la tradizione, il calice in cui Gesù bevve durante l'Ultima Cena. Ed è anche lo stesso calice Arimatea (forse uno zio di Gesù), recuperò l'oggetto e io conservò come un prezioso e potente talismano portandolo con sé in viaggio fin nella lontana Britannia. Altre fonti narrano invece che il calice, recuperato da Maria Maddalena, fu posto nel Santo Sepolcro dove, nel 327 d.C. fu rinvenuto dall'imperatrice Elena, madre di Costantino il Grande. Per impedire che cadesse in mano ai Visigoti che assediavano Roma, la sacra reliquia venne in seguito portata in Britannia e lì nascosta. Indagando su alcune leggende inglesi riguardanti Maria Maddalena, Graham Phillips ha ristretto l'area delle sue ricerche alla contea dello Shropshire nel cuore dell'Inghilterra.
Seguendo questa traccia, Phillips scoprì che a metà dell'Ottocento lo storico Thomas Wright recuperò la coppa e la nascose a sua volta nel parco di Hawkstone, vicino a Coventrv, disseminando in un poema di sua creazione gli indizi per poter giungere al nascondiglio. Questi indizi sono stati decifrati da Phillips che, giunto in una grotta di Hawkstone Park, ha trovato ai piedi di una statua la teca che avrebbe dovuto contenere il Graal. Della sacra coppa però nessuna traccia. Cos'era accaduto? Phillips era stato semplicemente "preceduto" da un discendente di Wright che, giunto alle sue stesse conclusioni nel 1920, si era impadronito della coppa lasciandola poi in custodia alla sua famiglia. La nipote, Victoria Palmer, disegnatrice di professione, aveva ricevuto l'oggetto in eredità senza sapere di cosa si trattava e la mitica coppa era andata quindi a finire in soffitta tra i cimeli di famiglia.
A guardarlo, il presunto Graal lascia un po' delusi. L'oggetto scoperto da Graham Phillips non è altro che un vasetto d'onice talmente piccolo da stare nel palmo di una mano. Tuttavia, secondo gli esperti del British Museum, si tratta effettivamente di una coppa del I secolo d. C. proveniente dalla Palestina allora occupata dai Romani.
Inoltre Phillips afferma che il suo Graal corrisponde alle prime descrizioni fatte della reliquia recuperata nel 327 all'interno del Santo Sepolcro. E' quindi possibile che il calice ritrovato dallo studioso inglese sia lo stesso che l'imperatrice Elena portò a Roma convinta che fosse il Graal. Ma lo era realmente?

    A contestare decisamente le affermazioni di Graham Phillips è Rocco Zingaro, conte di San Ferdinando e Gran Precettore dell'Ordine dei Cavalieri Templari. L'Ordine, infatt,i sarebbe in possesso della sacra reliquia fin dal 1972, da quando cioè il professor Antonio Ambrosini, archeologo e professore emerito all'Università di Roma, ne fece dono a Zingaro in persona in occasione delle sue nozze, affermando di aver trovato la reliquia in un monastero copto egiziano. L'oggetto, non molto dissimile da quello rinvenuto da Phillips, è un piccolo vaso di opalina azzurra alto nove centimetri e largo alla base sette. Purtroppo non c'è nessuna prova che si tratti effettivamente del Graal, anche se legami tra la mitica reliquia e i cavalieri Templari sono sempre stati molto stretti.

MOLTE VERSIONI DI UN MITO

    Fin qui siamo partiti dal presupposto che il Graal sia in effetti la coppa in cui venne raccolto il sangue di Cristo (il termine Graal deriva dal latino "gradalis", parola che indica un vaso, un calice o una tazza). E difatti questa è la versione tradizionale della storia, quella più conosciuta e anche quella che ha acceso la fantasia di poeti, ricercatori, storici. Si tratta di una versione che affonda le sue radici nel folklore medievale e che trova riscontro in numerosi poemi cavallereschi, in particolare quelli appartenenti al ciclo arturiano (costituito dai romanzi della Tavola Rotonda e da altri scritti incentrati sulla figura dei cavalieri di Re Artù). In particolare l'idea che oggi noi abbiamo del Graal e delle vicende ad esso legate è quella che uno scrittore del XV secolo, Sir Thomas Mallory, ci ha tramandato nella sua versione delle leggende arturiane. Mallory però aveva lavorato su fonti antiche di origine francese. Prima fra tutte l'opera "Perceval, ou le comte du Graal", scritta dal francese Chretiene de Troyes, risalente al XII secolo, in cui viene citato per la prima volta l'oggetto sacro. In realtà Chretiene non specifica il fatto che si tratti di una coppa ma precisa solo che il Graal è d'oro e incastonato di pietre preziose. Un'altra fonte di Mallory fu lo scrittore Robert de Boron, che menziona la reliquia nel suo Joseph d'Arimathiae, Le Roman de l'Istoire du Graal, definendola "il calice dell'Ultima Cena" recuperato da Giuseppe di Arimatea dopo la crocifissione di Gesù e successivamente trasportato in Britannia.

    Ma vi è un'altra versione della storia del Graal, totalmente diversa, narrata questa volta da uno scrittore bavarese, Wolfram con Eschenbach, agli inizi del XIII secolo. L'opera si intitola Parzifal e in essa il Graal è descritto come una pietra  "di un genere più puro", uno smeraldo caduto dalla testa di Lucifero durante la discesa agli inferi degli angeli ribelli. Inoltre la pietra-Graal di Von Eschenbach è ammantata di una spiritualità profonda e la sua ricerca equivale al conseguimento della rivelazione divina. Un oggetto, dunque, sia materiale che spirituale. La stessa ambivalenza la possiamo riscontrare in altre versioni e addirittura in un'opera anonima del XIII secolo, Le Grand Graal, secondo la quale la reliquia è in realtà un libro scritto da Gesù stesso che contiene segreti e conoscenze inimmaginabili. A questo punto è chiaro che districarsi nella Materia di Bretagna (con questo nome si è soliti designare il complesso di tradizioni e leggende del ciclo arturiano), è alquanto complicato e definire la reale natura del Graal diventa una vera impresa, un rompicapo per pochi eletti.

    Se consideriamo poi che il Graal potrebbe non essere affatto "qualcosa" ma piuttosto un simbolo, un archetipo spirituale o peggio un'invenzione letteraria frutto dell'elaborazione in chiave cristiana di temi squisitamente pagani, verrebbe quasi da pensare che la sua realtà oggettiva non potrà mai essere dimostrata. Del resto la simbologia legata al Graal è quasi sicuramente di derivazione pagana e risale con ogni probabilità al culto della Grande Madre Terra, il ventre fecondo da cui ha origine la vita. Nella mitologia troviamo infatti numerosi riferimenti agli straordinari poteri di vasi e contenitori magici. Pensiamo alla "coppa della vita" dei Celti o alla cornucopia dei Greci, oggetti dispensatori di ricchezza e conoscenza.

L'ARCA DELL'ALLEANZA

    Tuttavia Graham Hancock, giornalista e scrittore inglese, autore di libri quali "Impronte degli Dei" e "Custode della Genesi", ha provato a partire da presupposti diversi ed è giunto a una interessante conclusione. Nel suo libro The Sign and the Seal, il Segno e il Sigillo (Il Mistero del Graal, Piemme 1995), Hancock accomuna la leggenda del Graal a quella di un altro famoso contenitore perduto, ovvero la biblica Arca dell'Alleanza. Ad accomunare i due oggetti sarebbe nientemeno che la Vergine Maria. In effetti nella Litania di Loreto, antica preghiera dedicata a Maria, quest'ultima viene definita Archa Foederis (in latino Arca dell'Alleanza). La stessa cosa accade in alcuni scritti di San Bernardo da Chiaravalle e in altre fonti della tradizione cristiana. Ma la Madonna può anche essere associata al Graal. Infatti, sempre nella Litania di Loreto, la Vergine è definita Vas Spirituale, Vas Honorabile, Vas insigne devotionis, cioè Vaso spirituale, Vaso onorabile, Vaso unico di devozione. li grembo di Maria sarebbe in definitiva il contenitore-Graal da cui e scaturita la divinità sotto forma del Cristo.
Dunque se la figura della Vergine racchiude in se, sia pure allegoricamente, i due oggetti sacri, secondo Hancock è lecito pensare che essi siano la stessa cosa. E lo scrittore inglese avrebbe anche individuato l'ubicazione dell'Arca-Graal. L'oggetto si troverebbe in Etiopia, nella città di Axum. All'interno del Sancra Santorum della chiesa di Santa Maria di Sion, ben protetto canonici locali che non permettono a nessuno l'ingresso nella parte del tempio in cui è custodita la reliquia.

IL GRAAL E IL SANGUE REALE

    Ancora più curiosa l'interpretazione della vera natura del Graal fatta da Michael Baigent, Richard Leigh e Heny Lincoln, tre scrittori autori del libro "Il Santo Graal" (Mondadori 1987). Secondo i tre il mistero del Graal e in realtà un clamoroso equivoco linguistico. L'etimologia del termine Graal sarebbe infatti incompleta senza l'attributo ricorrente "San". San Graal dunque, e non semplicemente Graal. E San Graal sarebbe a sua volta una trascrizione errata, dovendosi leggere in effetti Sang Real ovvero "sangue reale". Ma il sangue reaie di chi? Secondo li trio Baigent-Leigh-Lincoln "sangue" sta per "dinastia" o "stirpe". Dopo anni di ricerche i tre scrittori hanno ricostruito la loro versione giungendo alla seguente conclusione: Gesù scampò al supplizio della croce e si rifugiò in Francia presso una comunità ebraica. In seguito sposò Maria Maddalena dalla quale ebbe dei figli. I suoi discendenti regnarono con il nome di Merovingi creando in seguito il Sacro Romano Impero.

    Qual è la verità? E quasi impossibile districarsi tra i pezzi sparsi di questo gigantesco puzzle. Se anche ci fosse stata una realtà oggettiva nella leggenda del Graal, il suo significato ormai trascende l'aspetto materiale della questione. Graal è ormai sinonimo di iniziazione, di esoterismo, di storia dell'occulto, di simbolismo e di quant'altro possa essere associato al mistero. Quel che è certo è che questo nome, qualunque cosa rappresenti, ha il potere di stimolare l'intelletto umano oltre ogni misura e in questo senso riveste un'importanza fondamentale. Ma ancora più importante del Graal è la Ricerca del Graal, non dell'oggetto in sé ma di quello che rappresenta: la Conoscenza, forse la perfezione.

    In questo senso si può affermare che l'eterna ricerca è tutt'altro che conclusa.

domenica 22 marzo 2020

Acqua Tofana: mille storie per un veleno

in collaborazione con l'autore Michele Leone: https://micheleleone.it/acqua-tofana-mille-storie-per-un-veleno/

L’acqua Tofana dalla storia alla letteratura senza scordare le teorie del Complotto

L’acqua Tofana non è un semplice veleno, è stata protagonista della storia e dell’immaginario per oltre due secoli. Conosciuta con diversi nomi, l’acqua tofana, si è mossa con discrezione tra le pagine di cronaca giudiziaria, quelle di grandi romanzieri e di amanti delle teorie del complotto.

Ouverture

“Nella prima metà del Seicento si scopre a Palermo una rete di streghe, fattucchiere e avvelenatrici, guidata da Teofania di Adamo, l’avvelenatrice più famosa della Sicilia secentesca”. (Maria Sofia Messana Virga, Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia moderna: 1500-1782, Sellerio, Palermo 2007, p. 534)

Il veneficio ha sempre fatto paura ed è rientrato per molto tempo nella categoria del crimen occultum. Questa vicinanza con il mondo dell’occulto ha fatto sì che spesso si associassero preparatori di veleni, con ciarlatani, streghe, megere ed altri personaggi di una categoria che non è e non può essere solo dell’immaginario.

Tra veneficium e maleficium vi è una forte parentela. Nelle Leggi delle XII Tavole (V secolo avanti l’era volgare) dell’antica Roma questi crimini sono assimilati a quello che è considerato uno tra gli omicidi più odiosi: il parricidio. Se alcuno con infidia macchinata ucciderà un uomo libero, sia reo di delitto capitale: sia parimente soggetto della stessa pena chi userà contro di qualcuno magiche canzoni, o incantesimi, e chi comporrà a danno altrui veleni mortiferi. Così Giovanni Silvestri in Breve interpretazione delle Leggi delle dodici Tavole de’ Romani, Padova 1769.

Non stupisce che quella scoperta a Palermo al principiare del secolo XVII sia una consorteria di: streghe, fattucchiere e avvelenatrici.

Non solo di Madre in Figlia (tra storia e leggenda)

Il 1633 può essere considerato l’anno zero di questa storia. Abbiamo tre esecuzioni:

17 febbraio 1633 Francesca la Sarda viene decapitata. Probabilmente è la prima persona a fare commercio e produzione del veleno che verrà chiamato Acqua Tofana. Per alcuni è solo una “commerciante” del prodotto della d’Adamo;
Curiosità: Si dice che la sarda prima di morire abbia lanciato una maledizione sugli spettatori del supplizio affermando che di lì a poco l’avrebbero seguita. Per l’occasione le autorità avevano allestito dei palchi per permettere alle persone di assistere all’esecuzione della sentenza, i palchi erano gremiti. La tradizione popolare vuole che, non appena la Sarda abbia esalato l’ultimo respiro, i palchi abbiano ceduto sotto il peso della folla con la conseguenza di morti e feriti.

21 giugno 1633 Placido di Marco viene strozzato ad un palo posto su di una barca e poi squartato;
12 luglio 1633 Thofania d’Adamo viene giustiziata dopo esser stata accusata di aver avvelenato il marito ed altre persone con acqua velenosa;
Se non ci fossero stati eredi probabilmente la storia dell’acqua tofana o toffana si fermerebbe qui, ma, c’è sempre un ma, e a questo punto che entra in scena Giulia Tofana.

Giulia a seconda delle testimonianze è figlia o nipote di Thofania d’Adamo, da questa avrebbe appreso i primi rudimenti dell’arte dei veleni o la prima ricetta della dell’Acqua Tofana. La natura aveva regalato a Giulia una viva intelligenza, la spregiudicatezza e una bellezza fuori dal comune. Queste tre qualità erano la sua dote; ragazza povera, in un quartiere popolare e malfamato della Palermo spagnola imparò presto ad usarle a suo vantaggio.

Non si sa se sia stata Giulia ad inventare l’Acqua Tofana o semplicemente si limitò perfezionare la ricetta della mamma/zia. In breve tempo creò una vera e propria rete commerciale per aiutare le mogli che volevan cambiare marito ed altre persone che avevano bisogno del suo preparato. Però fu costretta a lasciare Palermo e arrivò a Roma passando per Napoli. In questo viaggio non era sola, portava con sé la figlia Girolama. Furono costrette a lasciare Palermo per colpa di una cliente che non aveva ben usato il prodotto, gli occhi della santa inquisizione e della giustizia ordinaria erano su di lei. Lo stesso accadde a Roma, questa volta però non riuscì a scappare. Durante l’interrogatorio emerse che aveva venduto Acqua Tofana sufficiente per uccidere circa seicento uomini. Questo ha fatto di lei una paladina per molte donne vessate dell’epoca (non esisteva il divorzio). La sentenza non tardò ad arrivare. Nel pomeriggio del 5 luglio 1659 penzolavano dalle forche erette in Campo de’ Fiori a Roma cinque donne, per alcuni erano megere che intrattenevano commerci con il Diavolo in persona.

Della sua preparazione e composizione dell’Acqua Tofana

Salvatore Salomone Marino, nel 1882 pubblica alcune notizie su l’Acqua Tofana:

Ma che veleno era quest’ Acqua tofana? Storie, enciclopedie, trattati di chimica, poesie popolari, romanzi, si sono occupati di essa; ma fino a qui ogni indagine è tornata vana, non ha prodotto che supposizioni più o meno probabili, più o meno strane. Si ritenne fatta con “toschi maligni e succhi d’erbe”; si parlò di veleni minerali in genere, poi dell’arsenico mescolato a bava di porco; poi del risultato più complesso della miscela di vari ingredienti vegetali e animali; ma la verità restò ignota,
essendoché il Tribunale che processò le avvelenatrici conobbe “il cattivo veleno bestiale”, ma serbò fedele un assoluto silenzio. Questo ci dice il poemetto popolare più su ricordato, che degli avvelenamenti e del supplizio delle cinque donne ci dà preziosi ragguagli con verità storica; e però era da ricorrere al processo criminale per avere completa la luce. E questa difatti ci viene adesso, e completissima, grazie al bravo Alessandro Ademollo che ha messo fuori un importante volumetto sui misteri dell’ Acqua Tofana (Roma, fipogr. dell’Opinione, 1881), con la scorta appunto del famoso processo romano del 1659, che rinvenuto recentemente nell’Archivio di Stato in Roma, egli ha per primo ed egregiamente illustrato. E che ci dice il processo? Eccolo qui con le deposizioni genuine di due donne, di una, cioè, delle principali accusate e della sua serva: “Si fa l’acqua con arsenico e piombo, che si mettono a bollire in una pignatta nuova, otturata bene, che non rifiati, fino a che cali un dito; l’acqua che ne resta è chiara e pulita; presa in vino o in minestra provoca il vomito; poi viene la febbre, ed in quindici o venti giorni si muore: bastano cinque o sei gocce per volta in ogni giorno per far l’effetto, e non altera il sapore della minestra né del vino”. “Io dirò quello (dice a sua volta la serva) che mi ricordo che ho veduto che faceva la mia padrona quando voleva comporre la detta acqua, et era che pigliava un grosso di piombo limato, et un altro grosso di antimonio ed un pezzetto di arsenico cristallino; acciaccava l’antimonio e lo metteva dentro una pignatta piccola e ci metteva tant’acqua comune che arrivava sotto al collo della medesima pignatta, et poi la copriva col coperchio di ferro et acciaio che non sfiatasse; pigliava una pagnotta di pasta e stesa la metteva attorno alla bocca della pignatta, acciò chiudesse bene il coperchio et la bocca di essa che non sfiatasse; et poi la metteva a bollire per un’hora, pare a me, poi la levava dal fuoco, la lasciava raffreddare e raffreddata bene la cavava fuora e la metteva in un fiaschetto o boccia quadra; per ordinario era solita di pigliare un giulio d’antimonio e un giulio di piombo per volta; ma quando la faceva ce ne metteva la metà solamente che viene a essere un grosso per volta, et questo se lo comprava lei e tanto diceva averne comprato che io lo vedeva; ma l’arsenico poi come lei se l’aveva io non lo so; vedeva bene che lei l’aveva, et se ne serviva come ho detto”.

Ora non è dunque più dubbio: l’Acqua tofana risultava dalla miscela dell’arsenico, dell’’antimonio e del piombo. Che poi le processate rivelassero pienamente la verità intorno al segreto dell’Acqua ci è attestato dal processo stesso, nel quale è notato da una parte l’esperimento sopra un grosso cane con il veleno sequestrato nella casa delle ree, e d’altra parte l’esperimento sopra altro cane con il veleno ricomposto dai periti giudiziari sopra le indicazioni qui su riferite. Non occorre dire che gli effetti sulle due povere bestie furono sicuri ed identici, e non dissimili a quelli che dettero ai mariti il passaporto per l’altra vita.

Altri nomi dell’Acqua Tofana

L’Acqua Tofana era venduta perlopiù come prodotto cosmetico. Era anche venduto in ampolle o boccette da un quarto di litro con la raffigurazione di San Nicola di Bari ed era detta manna di San Nicola. Essendo questo veleno inodore, insapore e trasparente ben si prestava ad essere scambiato con la manna raccolta a Bari dove ci sono le reliquie del santo di Mira. Se avete in casa una di queste antiche boccette tenetele lontano dalla portata dei bambini ;).

Curiosità: Tutti, o quasi, immaginano Babbo Natale con un abito rosso, la barba bianca ed il pancione mentre dal profondo nord parte per distribuire i regali la notte di Natale. In realtà Babbo Natale altri non è che San Nicola di Bari. Nei secoli e per vari motivi la sua leggenda si è trasformata sino alla versione commerciale di una nota barca di bibite d’oltre oceano.

Tra i vari e più famosi nomi di questa acqua mortifera troviamo:

Acquetta di Perugia;
Acqua Manna;
Acqua di Palermo;
Acqua di Napoli;
Acqua del Petesino Mantovano.
Al momento mi è impossibile dire se sia lo stesso veleno o fossero veleni simili. Sull’Acquetta di Perugia probabilmente farò un post ad hoc, per ora non aggiungo altro.

Un mondo occulto fatto di magie e veleni

Oggi come ieri non è improbabile entrare in “mondi paralleli” deviando da una strada principale di una grande città o accedendo tramite TOR al deep web con un paio di colpi di mouse. Senza spingerti così lontano basta guardare programmi televisivi di fattucchiere, indovini ecc. o andare su Facebook per trovare la sagra della ciarlataneria. Spesso la criminalità, e gli operatori di servizi particolari hanno condiviso la stessa ombra nelle periferie delle grandi città, di tutte le grandi città. Oggi come ieri, per chi si sa ben muove non è difficile trovare i più svariati servizi.

Qualche secolo fa la commissione di un omicidio per mezzo di un sicario, di un veleno o di un maleficio sovente la si poteva fare nello stesso luogo.

A Roma nel Seicento vi era una vera e propria comunità composta da prostitute, alchimisti, preti spretati, streghe, farmacisti oscuri, erboriste pronte ad aiutare per aborti, astrologi e venditori di pozioni per guarire dal mal di denti o dai mali d’amore.

Parigi nello stesso periodo a detta di Lynn Wood Mollenaeur ha un vero e proprio Criminal magical underworld. Di Parigi e di alcuni protagonisti del mondo magico e criminale del Seicento ti parlerò in un prossimo post.

L’Acqua Tofana tra letteratura e teoria del complotto

All’inizio di questo articolo di ho detto che l’Acqua Tofana ha acceso la fantasia di importanti autori, ora ne vedremo un paio di esempi, ma non poteva mancare tra gli scribacchini del secolo XIX desiderosi di notorietà o degli antiliberali che combattevano una battaglia accesa contro i liberali ed i Repubblicani o Democratici.

Sir Arthur Conan Doyle nel 4 capitolo del suo romanzo a Study in Scarlet ci parla di Acqua Tofana, Socialisti e Carbonari:

“The Daily Telegraph remarked that in the history of crime there had seldom been a tragedy which presented stranger features. The German name of the victim, the absence of all other motive, and the sinister inscription on the wall, all pointed to its perpetration by political refugees and revolutionists. The Socialists had many branches in America, and the deceased had, no doubt, infringed their unwritten laws, and been tracked down by them. After alluding airily to the Vehmgericht, aqua tofana, Carbonari, the Marchioness de Brinvilliers, the Darwinian theory, the principles of Malthus, and the Ratcliff Highway murders, the article concluded by admonishing the Government and advocating a closer watch over foreigners in England.

Sui segreti e sui nomi dei veleni possono essere illuminanti le parole del Conte di Montecristo:

“Ma allora” disse la signora Villefort, “hanno dunque trovato finalmente il segreto di quella famosa acqua tofàna, che in Perugia si diceva perduto.”

“Eh, signora, forse fra gli uomini si perde qualche cosa? Le arti si spostano e fanno il giro del mondo, le cose cambiano di nome, ecco tutto: l’uomo volgare s’inganna, ma è sempre lo stesso risultato, il veleno. Ciascun veleno opera particolarmente su un tale o tal altro organo, l’uno sullo stomaco, l’altro sul cervello, l’altro infine sugli intestini. Ebbene, il veleno determina una tosse, questa un’infiammazione di petto o qualunque altra malattia scritta nel libro della scienza, cosa che non le impedisce di essere del tutto mortale, e che quand’anche non lo fosse, lo diverrebbe grazie ai rimedi somministrati da ingenui medici, che in generale sono cattivi chimici.

Ecco un uomo ucciso con arte, e con tutte le regole, sul quale la giustizia non ha da ridire, come diceva un terribile chimico mio amico, l’eccellente Adelmonte di Taormina in Sicilia che aveva molto studiato i fenomeni nazionali.

Per chiudere questa mini carrellata di citazioni prese dalla letteratura è impossibile non citare le Passeggiate Romane di Stendhal:

Agostino Manni pensa che l’acqua tofana esistesse ancora quarant’anni fa, ai tempi della celebre principessa Giustiniani che rischiò di restarne vittima. L’acqua tofana era inodore e incolore; una goccia somministrata una volta alla settimana faceva morire nel giro di due anni. Se, nel frattempo, sopravveniva la benché minima malattia, risultava letale ed era ciò su cui contavano gli avvelenatori. L’acqua tofana poteva essere mescolata al caffè e alla cioccolata senza perdere vigore. Il vino in parte la neutralizzava.

Manni ha conosciuto un indovino il cui padre viveva negli agi pur senza alcuna attività apparente: suppone vendesse veleni. Quest’arte per fortuna è perduta.

Purtroppo l’arte di avvelenare non era perduta. Se, forse, nella realtà è quasi estinta, nella fervida immaginazione di alcuni è stata viva a lungo.

Massoneria e Società segrete il prezzemolo d’ogni minestra

I massoni ed i “settari” in generale nella mente di qualcuno sono il male da sconfiggere ad ogni costo o gli araldi di ogni male nella società umana.

Nel 1872 Valentino Guazzo pubblica le seguenti parole:

La Massoneria ha origine orientale, e lo attesta l’uso del Presidente delle riunioni di porsi sempre in Oriente, il nome di grande Oriente dato alla loggia principale, le molte parole ebraiche, e le cerimonie asiatiche.

Il giuramento dei Framassoni vuolsi sia stato il seguente: – « In nome del figliuolo crocifisso, giurate di spezzare i vincoli carnali che vi legano ancora a padre, madre, fratello, sorella, parenti, sposa, amici amanti, re, capi, benefattori, ed a qualunque essere abbiate promesso fede, obbedienza, gratitudine, e servigio. – Nominate il luogo che vi vide nascere per esistere in un altro ordine di cose dove non perverete se non dopo di aver abiurato questo globo pestifero, vile rifiuto dei cieli. – Da questo momento siete sciolto dal preteso giuramento fatto alla patria e alle leggi. Giurate di rivelare al nuovo capo che riconoscete quello che avete veduto o fatto, preso, letto, od udito, appreso o indovinato, ed anche d’investigare e di spiare quello che non si presentasse ai vostri occhi – Onorate e rispettate l’acqua tofana come un mezzo sicuro, pronto e necessario per purgare il globo mediante la morte o lo stato d’imbecillità di coloro che cercano di avvilire la verità e di strapparla dalle nostre mani. – Fuggite la Spagna, fuggite Napoli, fuggite ogni terra maledetta, fuggite finalmente la tentazione di rivelare quello che udirete, perché non è il fulmine più pronto del coltello che vi coglierà in qualunque luogo siate. –

Vivete in nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito santo.

Sarebbe stato difficile commettere più errori in così poche righe, presto commenterò questo pseudo giuramento, quello che è interessante per questo post è la presenza dell’Acqua Tofana: un mezzo sicuro, pronto e necessario per purgare il globo mediante la morte o lo stato d’imbecillità di coloro che cercano di avvilire la verità e di strapparla dalle nostre mani. Si vuole che Barruel nelle sue Memorie per servire alla storia del Giacobinismo, abbia parlato dell’Acqua Tofana come strumento di Massoni e illuminati.

La Civiltà Cattolica del 1876, nella sezione Contemporanea, riporta un articolo il cui titolo così finisce: Nuove prove dell’uso dei veleni e dei pugnali nelle sette massoniche. Non riporto l’articolo perché mi porterebbe più fuori tema di quanto non stia già andando e allungherebbe a dismisura questo post. Sarà mia cura pubblicarlo in un post ad hoc.

Conclusione

Spero che questo breve viaggio che ha avuto come protagonista l’Acqua Tofana sia stato di tuo gradimento. A me è piaciuto scoprire personaggi e luoghi insoliti, trovare connessioni, spesso appena accennate, tra storia e storie, tra realtà e fantasia.

Oggi probabilmente l’uso dell’Acqua Tofana e dei veleni è quasi scomparso nella pratica, ma altri veleni antichi come l’uomo sono ancora lontani dallo scomparire. I veleni della cattiveria, della maldicenza, del turpe pettegolezzo, del mettere alla berlina nella quotidianità o sui media, della malignità sono presenti e se li usiamo anche in “buona fede” fanno di noi i personaggi di quel circo che è hai margini della società. Diventiamo degli storpi avvelenatori senza possibilità di scampo.

      Gioia – Salute – Prosperità

domenica 15 marzo 2020

Brevi note sul simbolismo del polpo

Di Vito Foschi

Il polpo come simbolo non è molto diffuso. Di primo acchito non può che rimandare al mare e quindi all'abisso e al simbolismo connesso. Interessante è esaminare la sua presenza nella Grecia antica. Il suo utilizzo come elemento decorativo risale alla civiltà greca più antica e compariva anche sulle monete, spesso associato a divinità quale Poseidone e in alcune anche ad Afrodite. Su quest’ultimo punto è interessante notare che per gli antichi greci il polpo era considerato un cibo afrodisiaco.
Dato il suo utilizzo decorativo aveva sicuramente una valenza positiva. Caratteristiche peculiare del polpo è la sua capacità di mimetizzarsi, di spruzzare inchiostro confondendo il nemico potendo fuggire e di aver un corpo elastico capace di adattarsi. Queste peculiarità, nell'antica Grecia, lo hanno fatto diventare sinonimo di astuzia e pertanto veniva associato alla figura di Ulisse, l'eroe greco saggio e astuto per eccellenza. In sintesi il polpo può rappresentare l'astuzia, la capacità di adattarsi alle circostanze, le trasformazioni della vita e come aspetto negativo l'inganno. Altro elemento che possiamo ricavare dall’archeologia è la sua presenza in alcune tombe di Micene che potrebbero far pensare ad un suo simbolismo legato a riti funerari forse associato all’idea di rinascita perché erano ben note le capacità di rigenerazione dei tentacoli dell’animale.
In un vecchio testo di araldica del 1680, “L’araldo Veneto”, opera di Giulio Cesare de Beatiano, il polpo è simbolo di protezione e la caratteristica che viene evidenziata è la sua capacità di attaccarsi agli scogli quando il mare è in tempesta venendo a rappresentare la tenacia e l’amante costante che non vacilla di fronte alle tempeste della vita.

Immagine da Wikipedia - Anfora Museo Archeologico di Atene 

sabato 7 marzo 2020

“Dischi volanti automotori” di Elia Nitti

in collaborazione con Simone Berni:

http://www.cacciatoredilibri.com/su-ebay-ce-dischi-volanti-automotori-di-elia-nitti/

del 16/12/2019

Uno dei titoli cult dell’ufologia italiana
Una copia di Dischi volanti automotori di Elia Nitti (Roma, Casa Editrice “Mondo Nuovo”, 1963) appare in vendita su eBay, al costo di 150 €. Sottotitolo esplicativo: un documento sconcertante e meraviglioso che può gettare luce sul mistero della energia che fa muovere i dischi volanti.

Si tratta di un titolo posseduto solamente dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. È un opuscolo di appena 64 pagine, molto importante per i collezionisti del settore e ricercato in quanto cade in un’epoca (prima anni ’60) dove la problematica ufologica era ancora una disciplina di forte richiamo.




Eventi annullati

Ciao a tutti. In seguito del Coranavirus molti eventi sono stati annullati, pertanto le nostre segnalazioni non risultano più attendibili. Attendendo tempi migliori vi auguriamo di superare questo periodo nel miglior modo possibile.

La redazione

mercoledì 4 marzo 2020

Il bisogno del divino

in collaborazione con il blog Fanta-Teorie:

https://fanta-teorie.blogspot.com/2020/02/da-quando-luomo-ha-memoria-possiamo.html

Da quando l'uomo ha memoria possiamo dire che la sua aspirazione più grande sia l'incontro con il divino. Che sia fisica o spirituale fa poca differenza perché l'importante è vivere questa esperienza. La bramiamo, in certi casi, come se fosse l'unico vero scopo della nostra vita. In tutte le epoche e in tutte le religioni esistono storie di incontri tra l'uomo ed il divino. Cambiano i personaggi ma il contesto rimane pressoché invariato.
Perché questa necessità di incontrare il divino?
Possiamo semplicemente dire che siccome siamo avidi di risposte a molte domande cerchiamo il contatto divino convinti che sia la chiave per risolvere ogni enigma.
In altri casi cerchiamo l'incontro con il divino perché desideriamo sentirci speciali. Chi non desidera sentirsi speciale? Sperando di non essere un semplice granello di sabbia nella spiaggia dell'umanità.
Il contatto tra uomo e divino è sempre stato lo stesso?
Se andiamo a ritroso e osserviamo i testi sacri notiamo come in ogni Genesi il rapporto tra uomo e divino sia del tutto normale. Poi quasi sempre avviene una rottura e questo rapporto diventa astratto, conflittuale e sempre più remoto.
Per esempio quando gli Anunnaki creano l'Adapa egli non è per nulla turbato nel vederli e parlargli (fonte: I Sumeri alle radici della storia di Kramer).

Discorso analogo per la Genesi biblica. Quando Adamo ed Eva vivono nel giardino non hanno sgomento nel vedere e sentire Dio/Yahweh. Le cose cambiano dopo che mangiano dall'albero della Conoscenza. Da allora in poi avranno sempre timore e reverenza nei confronti del Creatore.
Perché? Forse una volta che acquistano conoscenza capiscono il divario che c'è tra l'uomo e Dio?

Ma come si comunica con il divino? Oppure come hanno comunicato in passato?
Sono interrogativi interessanti che si pone Zecharia Sitchin nel suo libro La Bibbia degli Dei.
Telepaticamente, con ologrammi, segni, tramite visioni, durante i sogni, oppure parlando?
Se parlavano che lingua era?
Purtroppo non lo sappiamo. Inutile dire che siamo nel campo delle astrazioni.

Nella religione dell'antica Grecia il rapporto tra uomini e dei era spesso tragico ma nonostante tutto c'era sempre il desiderio della rivelazione. Era un rapporto spesso fisico e parlato che la maggior parte delle volte portava l'essere umano alla disfatta.
Con l'avvento del Cristianesimo tale rapporto è diventato sempre più onirico e meno fisico fino a perdersi in segni, sogni e rivelazioni.
Per assurdo un evento naturale e del tutto casuale poteva essere interpretato come volere divino o risposta ad una preghiera.

Non siamo qui a parlare di verità di fatto oppure di eventi storicamente provati. Ma rimane il fatto che tutti gli esseri umani aspirano ad avere questo incontro così unico nella vita.