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sabato 24 marzo 2018

Il Kybalion

Il Kybalion – uscito anonimo negli Stati Uniti nel 1908 – è il testo d’occultismo più letto del XX secolo.


Definito come un completamento della Tavola Smeraldina, la più importante opera ermetica mai scritta,  Le sue pagine aprono un’affascinante prospettiva sui meccanismi della realtà oggettiva e generano in chi le medita con mente aperta nuovi livelli di consapevolezza e comprensione.

Per permettere al lettore di inoltrarsi con profitto nello studio, ognuno dei sette grandi principi ermetici – Mentalismo, Corrispondenza, Vibrazione, Polarità, Ritmo, Causalità, Genere – è analizzato e messo in relazione con le verità incarnate dagli altri. Sarà così possibile comprendere quali significati avessero per gli Antichi l’astrologia, l’alchimia e la psicologia mistica e in cosa consistesse la trasmutazione mentale, orientarsi nei testi occulti e, infine, riconciliare le diverse teorie e dottrine che hanno attraversato la storia dell’umanità.

Magia, saperi oscuri e scienza naturale si mescolano in questo libro dagli infiniti livelli di lettura, un compagno indispensabile nella ricerca della verità nascosta.


Tre Iniziati è lo pseudonimo sotto il quale si cela, presumibilmente, William Walker Atkinson (1862-1932), studioso di occultismo e proprietario della Yogi Publication Society di Chicago. Avvocato, scrittore ed editore, Atkinson fu vicino al New Thought, un eterogeneo movimento spirituale nato negli Stati Uniti nella seconda metà del XIX secolo.

venerdì 10 novembre 2017

L'iniziato. Un viaggio alla ricerca della verità nascosta negli antichi misteri

Un libro magico, insieme profondamente personale e universale: la sua lettura vi guiderà verso la Via della vostra realizzazione spirituale.

Nello spirito ermetico, l’iniziato è colui che «brucia» alla ricerca delle conoscenze e intuizioni più elevate, è un viaggiatore che cammina verso quella visione del mondo spirituale celata dietro il velo del mondo materiale.

L’autobiografia di Mark Hedsel, raccolta e annotata dall’amico David Ovason, vi immergerà non solo nella storia particolare di colui che è divenuto un grande Maestro, custode degli Antichi Misteri, ma anche nella storia dell’evoluzione interiore dell’uomo stesso.

Il cammino che seguì Marx Hedsel è tradizionalmente conosciuto come la «Via del Matto», la via del viaggiatore solitario, di colui che conserva sempre la propria identità e raramente si impegna nel giuramento di mantenere il silenzio, se questo lo vincola a una scuola specifica. La Via del Matto è una via difficile, perché è come camminare in equilibrio su una corda tesa: facilmente si può inciampare e cadere nella comune follia. È una via fatta di scienza sottile, di strano sapere. È «la via che non è via», «la via che non può essere nominata». Dire che il Matto errante è sulla Via equivale a dire che percorre la strada dell’esperienza.

Con il dono di una scrittura penetrante − che «risveglia» e insieme istruisce «chi ha occhi per vedere» − e attraverso il disvelamento di simboli e misteri, Marx Hedsel vi condurrà in un viaggio dall’Europa agli Stati Uniti, dall’Egitto alla Grecia, e attraverso il Medio Oriente verso l’India e il Nepal, rispondendo alle domande più profonde che sgorgano dal cuore, soltanto dal cuore, di chi si mette in cammino.


sabato 23 gennaio 2016

Guénon, un classico per tradizione

tratto da Il Giornale del 5/10/2008

di Tommy Cappellini

«Perché l’acqua degli oceani non vola via quando la Terra gira?». Risposta dello scienziato: «Ah, la forza di gravità». Risposta del poeta: «Perché la Terra è una Palla Magica». Sono due modi di vivere, due opposte morali, due lontane felicità. Tra i pensatori da leggere per fare un po’ di chiarezza interiore a proposito, c’'è René Guénon, sul quale Jean-Pierre Laurant ha scritto il saggio René Guénon. Esoterismo e Tradizione (Edizioni Mediterranee, pagg. 232, euro 23,50, trad. Dorella Giardini). Guénon stava dalla parte della quarta dimensione di ogni nostra esperienza, quella runica, indoeuropea, antipsicologica e incantatoria, sensuale e indicibile. Fu un matematico che rifondò la metafisica. Un cattolico che morì - al Cairo, nel 1951 - da musulmano. Insomma, un mistico.

giovedì 30 luglio 2015

Del Pellicano

tratto dal sito http://www.centrostudilaruna.it

".. il nostro pellicano" (Dante, Paradiso, XXV, 113)

"Pie Pelicane, Jesu Domine" (Antico canto sacro citato da H. Biedermann)


La Simbologia.
Sembra che l'uccello bianco d'Egitto con questo nome, dal caratteristico lungo becco, nutrendo attraverso un'apertura del collo i suoi piccoli, abbia dato luogo alla leggenda del sacrificio delle proprie carni per la vita dei figli fino a divenire "emblema di carità" (O. Wirth) ovvero di devozione parentale fino al sacrificio. Più realisticamente, l'incurvare del becco verso il petto per cibare i piccoli con pesci trasportati nella sacca indusse a credere che addirittura l'animale si squarciasse il petto per dare loro nutrimento col proprio sangue. L'analogia di forme e affilatura del becco e scure, l'assonanza con le parole greche e sanscrite con il significato di ascia (pelekus e paraçu rispettivamente), segno simbolico del sacrificio di sangue, potrebbe far risalire l'origine della leggenda a tempi antichissimi. Il reperimento di sue rappresentazioni in epoche assai diverse, dalla scultura messicana in pietra vulcanica del 600-1000 d.C. ai numerosi riscontri europei non solo medievali, dimostra la sua rilevanza simbolica.

Dal Bestiarum Christianum.
Il pellicano compare solo una volta nell'Antico Testamento (Salmi, 102.7) e non viene mai nominato nei Vangeli. Troppo poco forse per meritare la citazione nel Dizionario delle immagini e dei simboli biblici delle Edizioni Paoline, che non ne riporta alcun cenno. Si deve soprattutto al Physiologus (II-IV secolo?) - il pellicano è al n°4 del suo inventario - la diffusione della leggenda, in termini alquanto più complessi; narrando della resurrezione dei piccoli (dopo tre giorni) ad opera della madre, che li ha uccisi, vi è l'adattamento diretto alla simbologia di Cristo "che è salito alle altezze della Croce e dal suo fianco aperto sono sgorgati il sangue e l'acqua per la salvezza e la vita eterna". Oltre a Dante, anche S.Tommaso d'Aquino ("il pio pellicano") usa l'allegoria. Ulteriori riscontri si reperiscono in Michael Glychas e in vari "bestiari" medievali, fino alle ultime rivisitazioni del XVIII secolo (cfr stampa a colori dell'epoca pag, 155, L'Arte dorata, A. de Pascalis). Echi dell'antica credenza si possono ancora trovare in alcuni adornamenti dell'arte religiosa cristiana nei luoghi più vari, come, ad esempio, in un rilievo del Duomo di Münster (1235) e, più vicino a noi, in una statua sul frontone della Chiesa della Maddalena in Castelnuovo Magra. Un'incisione - suggestiva nella sua essenzialità - su un elemento lapideo del cornicione dell'abside della Chiesa di S. Felicita, in località Prelerna nel Comune di Solignano (PR) riproduce con chiarezza il pellicano nell'atteggiamento più classico del becco contro il petto. Probabilmente la pietra è stata riutilizzata dai resti di un antico convento di Gesuati e, quindi, può farsi risalire circa al 1400. Anche opere di arredo sacro contemporanee a carattere artigianale rappresentano il pellicano (Chiesa di Valletti nel Comune di Varese Ligure). Un'estensione ermetica della leggenda, attraverso la simbologia della materia humida, che scompare con il calore solare per rinascere d'inverno, ricollega il pellicano al sacrificio di Cristo ed alla sua resurrezione, ma anche a quella di Lazzaro, tanto da accoppiare talora l'immagine del pellicano con quella della fenice. Ciò avviene anche per i Moderni. E. Minguzzi (Alchimia, il cammino della potenza) illustra il mito della Fenice con con la stessa immagine rosicruciana del pellicano impiegata per ben due volte nello stesso testo da O. Wirth (Il simbolismo ermetico) per commentare il significato del pellicano. Ma i molti figli possono essere scambiati per fiamme... Peraltro nella Sapientia veterum philosophorum sive doctrina eorundem de summa et universali medicina del XVIII secolo pellicano e fenice compaiono rispettivamente nella figura XXVII e XXVIII per rappresentare exaltatio essentiae e essentia exaltata. Analoga contiguità e consequenzialità si notano fra il pellicano e la fenice, rispettivamente immagini n° 46 e 47 nella decima delle diciassette figure attribuite a J. C. Barchusen (databili tra il 1615 e il 1635) e nella tavola "Basilicae Philosophicae" della "Cosmologia alchemico-rosacruciana sulla visione dell'unità", Museum Hermeticum, Frankfurt a.M., 1677. Come dice il Fisiologo, dal fianco aperto del Cristo sono sgorgati il sangue e l'acqua per la salvezza eterna. Tale analogia tra piaga del Crocefisso e petto squarciato del pellicano sono stati ripresi anche da Silesius. Si riscontrano echi anche al di fuori della simbologia religiosa. In letteratura, il mito viene ripreso dal Pulci mentre a Palazzo Ducale di Venezia gli intarsi del capitello della penultima colonna verso il ponte della Paglia rappresentano pellicani. Di tutto ciò ben poco permano in quella che oggi chiamano coscienza collettiva.

Dal Bestiarium Alchemicum
Il Bestiario Alchemico offre numerosi riferimenti al pellicano, alcuni dianzi citati, sia per indicare gli strumenti dell'Arte sia per la simbologia delle fasi dell'Opera, sia, ancora, per quella elementale. Nei simboli alchimici (P. Bornia, La Porta magica di Roma), il Pellicano indica il matraccio, con il caratteristico piede di collegamento alla testa della cucurbita e con il capitello che rientrava con un tubo a becco nella parte inferiore dell'apparecchio (pallone). Il tubo poteva essere raddoppiato, modificando lo strumento in due palloni comunicanti per ottenere la "circolatio" doppia. Il Pellicano, o Pelicano, serviva dunque nella coobazione di un liquido. Una precisa definizione si trova anche in Alchimia Spirituale di R. Ambelain, ove, per la sua funzione, viene anche chiamato "circolatorio". Trattasi tuttavia di strumento non comune, certo non impiegato dai soffiatori. Infatti non è rintracciabile nelle immagini pervenuteci dei laboratori alchimisici, quali il disegno di Bruegel il vecchio (1558) e di H. Weiditz (1520), la tela di H. Heerschop (1687), il dipinto di J. Van Der Straet detto Stradanio (1570) nè nelle tavole illustranti la strumentazione chimica antiquaria, nè nella farmacia spagiria (Castel S. Angelo, 1600). Il Wirth spiega il simbolo del pellicano come emblema di generosità assoluta "in mancanza della quale, nell'iniziazione, tutto resterebbe irrimediabilmente vano". Per altri sarebbe un'immagine delle pietra filosofale che si dissolve per far nascere l'oro dal piombo allo stato fluido, cui corrisponde l'aspirazione non egoistica (il pellicano divora il pesce strettamente necessario alla vita). Con ciò sono da riconnettere, forse, antichi gradi di società iniziatiche come il cavaliere di pellicano (cfr. H. Biedermann, Enciclopedia dei Simboli), e la sua effige nel Capitolo dei Rosacroce (L. Troisi, Dizionario dell'esoterismo e delle religioni). Il pellicano compare tra altri simboli nella sintesi dell'Opera illustrata dalla f.92 del Rosarium philosophorum di Arnaldo da Villanova. I Saggi preferiranno meditare sulla figura 6 di J. D. Mylius (Philosophia reformata, Francoforte, 1622), ove un pellicano con i figli è prossimo a un pozzo in cui stanno immergendosi (o da cui stanno fuoriuscendo?) bizzarre figure solari; nello sfondo centri edificati. Esse richiamano al Filosofo il terzo sonetto di Frate Elia (Biblioteca nazionale, manoscritto Magliabechiano, II-III-308 a carte 39) "...in humidum ponite ut unidetur optime". In effetti il pellicano simboleggia anche il Mercurio dei Filosofi, "il solfo precipitato, ovvero il principio dello stato liquido della materia" (G. Testi), ovvero "l'acqua segreta". Osservazioni conclusive Un panorama vasto di iconografia e di arte, cronologicamente estesa su vari secoli, si richiama all'immagine del pellicano, con simbologie dai molteplici significati. Uno sguardo più attento sulle vestigia d'arte, non solo sacra, potrebbe far riscoprire al Saggio qualche altro pellicano, rimasto inosservato, strumento di Tradizione.

A.B.
Da Algiza 6

mercoledì 22 luglio 2015

LA MELENCOLIA 1 DI DURER

(ossia lo specchio delle disillusioni dell’uomo)

di Marcello Vicchio



Albrecht Dürer - Melencolia I - Google Art Project ( AGDdr3EHmNGyA).jpg
immagine presa da Wikipedia (http://en.wikipedia.org/wiki/Melencolia_I#/media/File:Albrecht_D%C3%BCrer_-_Melencolia_I_-_Google_Art_Project_%28_AGDdr3EHmNGyA%29.jpg)

Albrecht Durer è senza dubbio il più grande pittore tedesco e uno dei principali protagonisti del Rinascimento, sia dal punto di vista artistico che culturale. La sua figura si staglia gigantesca nel panorama dei movimenti intellettuali dei primi decenni del Cinquecento, epoca foriera di profondi rinnovamenti sociali e inquietudini morali e religiose.

Durer è stato il primo a rivoluzionare il ruolo dell’artista: non più un artigiano dotato di particolare abilità ma privo di identità e peso sociale, ma un uomo immerso nei problemi del suo tempo, intellettualmente all’avanguardia, punto di riferimento culturale e morale per i suoi concittadini.

Le monografie dicono che della sua vita si conosce quasi tutto per via della fitta corrispondenza da lui tenuta, dei suoi diari e dei suoi appunti, tuttavia è proprio quel "quasi" a stimolare la nostra curiosità ed è una delle sue incisioni più celebri ad alimentarla ulteriormente : la Melencolia 1. Comprendere bene l’ambito storico nel quale è nata l’enigmatica incisione di Durer contribuisce, probabilmente, a renderla un po’ meno misteriosa e avvicinarla ancor di più alla nostra sensibilità, sottolineando da un lato come alcune opere siano davvero universali e sempre attuali, perché universali e sempre uguali a se stesse sono le azioni dell’uomo, e dall’altro suscitandoci a volte il dubbio che il lavoro di perfezionamento esoterico ( e dunque massonico) sia una specie di chimera sfuggente o un supplizio di Tantalo, perseguito tutta la vita ma che tramonta inevitabilmente quando questa tramonta, lasciando agli altri il carico di un nuovo, forse inutile ciclo.

Il capolavoro è stato realizzato nel 1514, in un momento storico e personale particolarissimo. La madre di Durer era appena morta, gettando il pittore nello sconforto, mentre già numerose nubi si profilavano all’orizzonte. La peste mieteva vittime in tutta Europa, tanto che l’artista era stato costretto a lasciare Norimberga qualche tempo prima. Mancavano meno di tre anni all’inizio della rivoluzione protestante e ovunque serpeggiavano i malumori e le tensioni che avrebbero precipitato gli stati in lotte sanguinosissime. Solo poco tempo prima, nel 1499, Stoeffler e Pfaum avevano pubblicato un Almanacco nel quale i due matematici e astrologi facevano una previsione terrificante: la straordinaria congiunzione di Saturno, Giove e Marte nel segno dei Pesci, avrebbe provocato un raffreddamento generale dell’atmosfera, piogge eccezionali e un nuovo diluvio a flagello del mondo. Il mondo conosciuto, d’altra parte, era improvvisamente diventato molto più vasto a causa dei navigatori che avevano aperto rotte verso paesi fino allora sconosciuti, aprendo orizzonti prima inimmaginabili. Il vecchio mondo cambiava e uno nuovo stava per subentrare e sostituirsi ad esso, anche se pochi se ne rendevano ancora conto. Tra questi pochi vi era Albrecht Durer, spirito acuto e sensibilissimo.

Probabilmente in questo momento a qualcuno saranno venuti in mente paralleli tra la nostra epoca e l’alba di quel 1500: la vecchia Terra non basta più, i nuovi confini sono quelli dello spazio, la minaccia atomica e le guerre batteriologiche, odierni diluvi universali, sono eventi più che mai possibili e i fondamentalismi religiosi si radicano sempre più profondamente nell’animo degli uomini. La religione della ragione non soddisfa più e, d’altra parte, l’irrazionalità porta come dote lo scatenamento delle passioni e la follia.

L’angelo della Melencolia, lo sguardo perso nel vuoto e gli arnesi di mestiere abbandonati ai suoi piedi, ritrae meglio di mille parole la doppia disillusione dell’umanità che aveva e ha lasciato da parte l’Arte. Nell’incisione i lutti e le tragedie sono simboleggiate dalla cometa che si scorge nello sfondo ed è rivolta verso la città che si specchia nel mare. Saturno, oltre che dal carattere melanconico che dà il nome all’opera e che è assimilato astrologicamente col segno di questo pianeta, è riprodotto dalla clessidra che si vede dietro l’angelo e Giove dal quadrato magico appeso al muro. Il quadrato magico di 4, con i numeri da 1 a 16, è infatti il quadrato che corrisponde a Giove. E’ probabile che Durer abbia scelto questi simboli ispirandosi all’Almanacco. La scala appoggiata all’edificio ricorda la scala di Giacobbe, ma l’asse tra uomo e cielo sembra giacere abbandonato, la bilancia penzola inutilizzata e perfino Cupido è ripiegato, pensoso, su se stesso. La parte sinistra dell’incisione è molto suggestiva per la presenza di alcuni simboli messi fortemente in risalto: la curiosissima pietra lavorata, il fornello che brucia dietro di essa, il cane addormentato e la sfera. Soffermiamoci brevemente su di essi, dando solo qualche piccolo spunto di riflessione e lasciando all’intelligenza di ognuno l’ulteriore indagine simbologica.

La pietra lavorata attira immediatamente la nostra attenzione, sia per le dimensioni veramente imponenti che per la forma particolarissima. Si tratta di un octaedro composto da sei pentagoni irregolari e due triangoli equilateri. I significati del triangolo e del pentagono sono ben conosciuti ( il primo è la figura elementare della geometria, alla quale ogni altra figura può essere ricondotta; il pentagono è in rapporto con Pentalfa), ma qui voglio far notare che i pentagoni hanno ciascuno tre angoli retti e due angoli di 135° e dunque : 3x90 = 270 e 135x2 = 270. La riduzione teosofica dà in ogni caso 9, simbolo di rigenerazione e immortalità. Altri rapporti numerici sono possibili, ma già questo mi sembra sufficiente a dimostrare, assieme agli altri simboli, che Durer non era a digiuno di nozioni esoteriche, ma anzi faceva parte a pieno titolo dell’ inesauribile fiume di pensiero che ha la sua sorgente nella filosofia perenne . E, se è vero com’è vero che il fornello è l’atanor dell’alchimista e che l’umor nero rappresentato nella Melencolia è la prima fase del processo alchemico che conduce alla Pietra Filosofale, è del pari vero che questa Pietra è null’altro che la riscoperta dell’immortalità dell’anima umana e della conoscenza.

Il cane addormentato riporta immediatamente alla nostra memoria un altro famosissimo "cane" riformatore dell’umanità: il Veltro di Dante Alighieri. Di passaggio, e senza addentrarmi in un campo che esula da questo studio, faccio notare un particolare molto curioso: un anagramma di Veltro è… Lutero! Ma come e perché lo stato melanconico dovrebbe elevarci alla contemplazione dell’anima e alla riconquista di quell’Uno messo così bene in evidenza dalla sfera ai piedi dell’octaedro? Durer certamente non si discostava dal concetto,caro agli antichi, della conoscenza come facoltà dell’anima. L’anima, prima di incarnarsi nel corpo, conosceva e ricordava tutte le cose. Con il suo precipitare nel corpo queste facoltà si sono oscurate e il processo della riconquista della conoscenza è legato, dunque, alla memoria più che ad ogni altra cosa. Secondo la teoria degli umori, in auge da Aristotele in poi, dei quattro tipi fondamentali di caratteri quello malinconico secco-caldo (ossia di malinconia intellettuale, ispirata), è il temperamento più adatto alla reminiscenza, cioè alla conoscenza. Sull’arte della memoria esiste un ottimo trattato di F. Yates ( L’arte della memoria, Ed. Einaudi) che illustra dettagliatamente quali fossero le tecniche mnemoniche e i risvolti di tale arte nella filosofia antica, rinascimentale e moderna, ma qui mi preme sottolineare come i rapporti tra ermetismo, arte, filosofia, alchimia e religione siano spesso più stretti di quello che non appare a prima vista e riaffiorino, a volte, là dove meno ci si aspetti di trovarli.

Alberto Magno, maestro di san Tommaso d’Aquino, nel suo trattato De memoria et reminiscentia , pone, come già Aristotele, una differenza tra memoria e reminiscenza. La prima, sebbene più legata alle sensazioni, è sempre connaturata alla parte sensitiva dell’anima, mentre la seconda è nella parte intellettiva di questa, sebbene conservi ancora tracce delle forme corporee. Il processo di conoscenza, allora, esige che si oltrepassino le facoltà sensitive e si arrivi al dominio più puro dell’intelletto. Ma Alberto Magno, ed ecco dove il legame al quale facevamo riferimento si manifesta, scrive anche : "… coloro che desiderano rievocare [ da reminisci, ossia fare qualcosa di più spirituale e intellettuale del semplice ricordare] si ritraggono dalla pubblica luce in un’oscura intimità: poiché nella pubblica luce le immagini delle cose sensibili sono sparpagliate e il loro movimento è confuso. Nell’oscurità, invece, sono compatte e si muovono con ordine ". E’, questa, una descrizione dal sapore pre-romantico che si adatta perfettamente allo spirito e al messaggio della Melencolia I ma anche all’Arte alchemica e a quelle filosofie le quali, sebbene non disprezzino i valori dell’esperienza, delle sensazioni e della scienza, dovrebbero infine trascenderli e trasformarli in vera consapevolezza del sapere, e del potere del sapere, a beneficio dell’umanità. L’inquietudine che mosse Durer all’alba del 1500 è la medesima che affligge l’uomo moderno, ma i risvolti esistenziali, oggi più di allora, sono amplificati, stritolati e consumati dall’indifferenza e dalla fretta di dimenticare per passare ad altro, né si vede all’orizzonte un ritorno di ideologie che pure possano dare sapore alla vita. Si ha la sensazione che non resti altro che ripiegarsi su se stessi e ritornare al passato.

Il problema, per quel che riguarda gli Ordini Iniziatici, è capire ora se questi siano solo un ritorno al passato, un orpello, un retaggio culturale bloccato nell’anodino binomio segreto iniziatico –vita civile ( quella che al tempo di Alberto Magno veniva chiamata vita contemplativa e vita attiva), oppure filosofie in grado di offrire qualcosa di sempre nuovo ed efficace. Per intenderci, all’epoca delle monarchie europee un Ordine come la massoneria predicava libertà, uguaglianza , fratellanza e il suo messaggio era rivoluzionario. Oggi che questi concetti sembrano essere accettati, perlomeno in Occidente, lo stesso Ordine, e anche altri, hanno solo il ruolo di memoria storica e di guardiani dottrinali, abdicando al compito di avanguardia ideologica (come sembra stia accadendo), oppure sono in grado di riproporre nuovi modelli di società?

Dove poserebbe oggi lo sguardo la figura alata di Durer?

mercoledì 15 luglio 2015

I tre filosofi di Giorgione

di Marcello Vecchio

Tre filosofi
Immagine tratta da Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Tre_filosofi#/media/File:Giorgione_029.jpg)

Il quadro " I tre filosofi" venne dipinto da Giorgione intorno al 1505, su commissione di Taddeo Contarini. Taddeo Contarini, Gerolamo Marcello e Gabriele Vendramin erano tre giovani nobili veneziani che commissionarono a Giorgione alcune tele ispirate all’esoterismo e all’alchimia. Di certo erano loro ad esporre i soggetti, mentre toccava poi al pittore metterli su tela. Sappiamo anche che Taddeo Contarini prendeva in prestito libri di astrologia e filosofia dalla biblioteca del cardinale Bessarione e proprio uno dei tre personaggi mostra un foglio coperto di calcoli astronomici.

Sull’interpretazione del quadro molti si sono sbizzarriti. Marcantonio Michiel, nel 1525, li definisce "li tra phylosophi". In un inventario del 1659 viene definito come "I tre matematici". Mechel, in un inventario del 1783 li definì " I tre Magi che aspettano l’apparizione della stella cometa". Nell’Ottocento e nel Novecento vennero definiti, di volta in volta, come Marco Aurelio insieme ad altri due filosofi; figure allegoriche dell’antico aristotelismo, l’aristotelismo averroistico (l’uomo col turbante) e la Scienza Nuova. Qualcuno ha identificato l’uomo più giovane con Copernico e gli altri come astronomi antichi: Tolomeo e Al Battani.

Prima di addentrarci nello studio del quadro, però, facciamo una premessa: sul finire del Quattrocento l’Arte Reale era diffusissima. Molti suoi cultori sono sconosciuti perché a noi mancano moltissimi documenti. Non dimentichiamo che ci furono persecuzioni tremende da parte della Chiesa contro coloro che, con spirito libero, indagavano i misteri della Natura. E non fu solo la Chiesa a farlo, anche loro occasionali lacché seguirono l’esempio. Valga per tutti la proibizione promulgata in Francia da Francesco I , nel 1537, che divorò moltissime opere alchemiche ed ermetiche.

Da qui, come già era avvenuto in passato (vedi ad esempio la poesia dei Fedeli d’Amore), la necessità di simbologie dietro le quali occultarsi, sempre più personalizzate e spesso ormai per noi incomprensibili. Federico Zeri afferma, secondo me a ragione, che ogni momento storico è irripetibile e irrimediabilmente perduto, giacché non sarà mai possibile per chi viene dopo immedesimarsi completamente in quello che c’era prima. Il passato è passato, morto, e con esso gran parte di ciò che allora viveva nella mente e nel cuore delle persone.

Tuttavia è possibile trovare delle tracce... e tutto in questo capolavoro punta verso l’alchimia.

Focalizziamo l’attenzione sul personaggio che Lensi Orlandi identifica con Basilio Valentino. Forse è stato ispirato in questa identificazione da una figura che ha visto in un libro e che egli stesso descrive così:"L’edizione de Le Dodici Chiavi della Filosofia, pubblicata a Parigi dal

Canseliet nel 1956, riproduce sulla copertina un’antica stampa dove Frére Basile Valentin in abito di benedettino col cappuccio in testa, sorregge una bilancia con le coppe in equilibrio, una piena d’Acqua e l’altra piena di Fuoco e sotto il braccio destro stringe un Libro Chiuso a conferma dell’ermetico significato dell’immagine. Quella bilancia allude ai due giudizi ciclici dell’umanità, il primo realizzato con l’Acqua del Diluvio, il secondo col Fuoco preannunziato dal Battista."

Basilio Valentino richiama subito alla mente l’acrostico VITRIOL, sicché se nel quadro di Giorgione è celato un messaggio alchemico (cosa secondo me indubitabile), non è affatto assurdo che l’ipotesi di Lensi Orlandi sia giusta.

Ciascuno di noi nasconde dentro di sé la propria Pietra Occulta e ogni Artista, nel segreto del proprio laboratorio alchemico, lavora, distilla, rettifica, separa il pesante dal sottile per conquistarla. Molti sono gli strumenti che ci aiutano a percorrere la via, ma il vecchio saggio ha nella mano sinistra un compasso, un utensile i cui bracci possono essere divaricati in infiniti angoli, da 0 a 360 , ad abbracciare il punto e il cerchio, simbolo della padronanza assoluta dei propri mezzi, della propria personalità, della propria mente.

L’altra mano è occupata da una pergamena dove sono visibili il Sole e la Luna. Ritorna subito in mente M.Maier quando scrive: "il Sole è suo padre, la Luna sua madre". Non vi poteva essere un richiamo così forte all’alchimia, escludendo naturalmente ciò che si legge nella veste dell’uomo col turbante.

Eravamo rimasti alla figura che, secondo alcuni, potrebbe essere BasilioValentino. Dico potrebbe perché altre ipotesi sono altrettanto verosimili. Il vecchio che tiene in mano la pergamena (dove alcuni hanno visto un’eclissi di sole, simbolo di congiunzione mistica dell’anima (Luna) con Dio (Sole), lasciando nell’oscurità il corpo (Terra)) ha svelato alcune cosa all’esame con i raggi X. In una prima stesura la figura aveva sul capo un diadema a forma di raggi solari e ciò ha fatto asserire che potesse trattarsi di Mosè (Calvesi - Il mito dell’Egitto nel Rinascimento), ma un copricapo del genere a me richiama subito in mente Zeus. Il fatto che poi Giorgione ci abbia ripensato e sia passato a una figura vestita di un saio, farebbe immaginare un intervento del committente, quel Contarini così versato in ermetismo e alchimia.

Già, alchimia.... è innnegabile che il motivo conduttore del quadro sia proprio l’alchimia, non fosse altro per un piccolo, minuscolo ma enorme particolare, che il pittore ha abilmente celato pur mettendolo in primo piano, sotto i nostri occhi, dando corpo ai numerosissimi richiami dei Saggi che più volte hanno affermato che solo chi ha occhi per vedere può davvero vedere.

L’uomo col turbante, al centro, ha un lungo vestito rosso e grigio. Sul bordo di questo, proprio sopra il piede destro, si legge una scritta sul ricamo: ALCH.

Se vi fosse qualche dubbio sulle intenzioni di Giorgione, credo che questo particolare li abbia fugati definitivamente.

Nel Rinascimento era comunemente accettata una tripartizione della vita del Saggio in attiva, contemplativa, voluttuosa. Dante Alighieri ammetteva soltanto una vita attiva e una contemplativa, ma quasi tre secoli erano passati dalla sua morte e la filosofia del Rinascimento era ormai pregna di Platone, Macrobio e Plutarco. Ficino, in una lettera a Lorenzo de’ Medici, poteva scrivere: "...

Non esistono ragionevoli dubbi che vi sono tre tipi di vita: contemplativa, attiva, voluttuosa...".

La vita attiva ha il suo culmine nell’impegno nelle cose del mondo, la vita contemplativa nella teologia, la vita voluttuosa occupa il mezzo e riguarda l’amore.

I tre filosofi possono anche interpretare questi ruoli.

Si hanno altri esempi famosi in opere letterarie e non di questa tripartizione. Nell’enigmatica Hypnerotomachia di Francesco Colonna, pubblicata nel 1499, i tre tipi di attività sono rappresentate come tre porte scavate nella montagna e fra queste il protagonista, Polifilo, è chiamato a scegliere.

Per tornare ai filosofi, posto che l’ipotesi della rappresentazione delle "vite" sia corretta, identificheremmo il vecchio come rappresentazione della teologia ( contemplativa), il più giovane come vita attiva e il filosofo col turbante, in mezzo, l’alchimia, come la vita voluttuosa, cioè Amore.

Dunque l’alchimia è Amore?

Non so se tratta di una coincidenza singolare , quella che un mio amico chiamerebbe sincronicità (ma io propendo per la non casualità), ma giorni fa qualcuno - al momento non ricordo chi, scusate - ha postato nella sezione "file" del gruppo una foto de "I coniugi Arnolfini" , proprio mentre si parlava di Giorgione.

Il dipinto è stato commentato, tra l’altro, da Federico Zeri in "Dietro l’immagine", ma ero certo di aver letto di questo quadro da un’altra parte, anche se non mi tornava in mente dove.

Oggi me ne sono improvvisamente ricordato. Trascrivo. " ... Lo sviluppo dell’ego ha portato a una nuova sensibilità per la libertà individuale, libertà dai lacci sia religiosi sia politici. I primi a intravedere i germi di questa nuova concezione ancora in nuce furono i poeti e gli artisti, i quali hanno avuto antenne particolarmente sensibili a cogliere i mutamenti spirituali... La lunga e famosa firma apposta da Jan Van Eych sul dipinto I coniugi Arnolfini, ora alla national Gallery di Londra, non rappresenta soltanto il nome dell’autore del quadro, ma ne ricorda il ruolo di testimone di nozze: il pittore dice :"Io c’ero". Ma non sempre i segni dell’ego erano così elaborati e non sempre si trattava di una firma..."

Ricordo che il termine di ego in senso esoterico è diverso da quello psicologico.

Il discorso continua in nota : "...la firma completa del pittore "Johannes de Eyck fuit hic,1434" compare su un documento legale , mentre nello specchio si vede la sua immagine...E forse non è un caso, che è il marchio dell’ego, l’artista compaia riflesso in uno specchio che ha la forma dello zero. La firma che l’autore appone alla sua opera è il segno di un cambiamento di visione: ora egli non dedica più il suo lavoro interamente a Dio, ma a se stesso, all’ego". Queste parole sono tratte da "L’iniziato", di Mark Hedsel.

L’ego, esotericamente inteso, è la scintilla della divinità, della Mens divina che si è immersa nella materia. Finché ha a che fare con il mondo materiale, l’ego deve cercare la strada per guadagnare il divino. La materia, l’uomo, è dotato, secondo le dottrine esoteriche, di tre corpi: fisico, attività cellulare; eterico, sede della memoria; astrale, sede delle emozioni, desideri, ecc...

L’ego, non a caso, è raffigurato nella letteratura ermetica come un cigno o un pellicano dotato stranamente di tre ali.

Orbene, trasferiamo questo discorso ai tre filosofi di Giorgione e probabilmente troveremo qualche altro significato nascosto.

Finora ci siamo occupati soprattutto di Basilio Valentino (o del supposto tale), ma ora dedichiamo uno sguardo anche al personaggio col turbante. La scritta ALCH che si scorge sul ricamo del bordo inferiore del vestito lascia ben pochi dubbi sull’allegoria del personaggio. Lensi Orlandi propone che si tratti di Djabir Ibn Hajjan, meglio conosciuto come Geber, nato a Kufa sull’Eufrate, a sud di Babilonia, intorno all’ottavo secolo.

Potremmo definirlo un "alchimista spirituale" , se questo termine significa veramente qualcosa, giacché conosco persone che contestano vivamente questa denominazione dell’alchimia e affermano che l’alchimia deve essere necessariamente pratica. Torno dopo sull’argomento. Su Geber ci sono certamente indagini e scritti più approfonditi di questo mio, molto sommario.

Tuttavia una frase di questo alchimista mi ha colpito profondamente, una frase riportata proprio da Lensi Orlandi.

Trascrivo. "... Per Geber gli alchimisti avevano la certezza di raggiungere l’immortalità contraria alle intenzioni di Dio, per questo scrisse nel Libro della Misericordia:" Se Dio ha messo nell’uomo elementi contrastanti è perché ha voluto assicurare la fine dell’essere creato. Siccome non volle che ogni essere vivesse per sempre fuori di lui, inflisse all’uomo la differenza delle quattro essenze naturali che lo conduce alla morte con la separazione dell’anima dal corpo"."

L’autore prosegue affermando che se si riuscisse a riequilibrare le essenze naturali dopo averle scomposte, l’uomo non potrà morire e potrà raggiungere uno stato inalterabile. A tanto si arriverebbe non con i libri o il ragionamento ma solo con un salto della mente, con un "impeto dello spirito". Il punto che mi ha dato da pensare è quel "contraria alle intenzioni di Dio". A parte il fatto che è piuttosto difficile per un umano capire le intenzioni di Dio :-), l’alchimia si troverebbe ad essere, così intesa, un’operazione contro natura e contro Dio, situazione che mi sembra esattamente all’opposto dell’idea alchemica. Forse questa è solo un’interpretazione di Lensi Orlandi e non il pensiero originale di Geber.

Più sopra ho accennato all’alchimia pratica.

Confesso che fino a qualche tempo fa ero piuttosto in dubbio sulla reale possibilità di un’alchimia pratica, nonostante avessi letto (molti anni or sono) l’affascinante " Il mattino dei maghi" e fosse rimasta dentro di me una specie di sospensione del giudizio. Volente o nolente io sono figlio dell’idea scientifica tramandata dall’illuminismo e, nel caso specifico, dalla chimica classica.

Oggi come oggi invece dubito delle bellissime teorie che tutto comprendono e tutto spiegano, salvo poi accorgersi, da parte degli scienziati, che la teoria non era proprio esatta al 100%. Prima della scoperta della fusione nucleare gli "scienziati" erano convinti che il sole fosse fatto di carbone incandescente e non riuscivano a capire come potesse bruciare per tanto tempo senza consumarsi. Ne "Il mattino dei maghi" è postulata, se non ricordo male, l’intervento di qualche forma di energia saltuaria e incostante che potrebbe dare la spinta finale al processo e permettere la trasmutazione dei metalli. Il lunghissimo tempo necessario alla trasformazione dei metalli con metodo alchemico (a volte una vita intera), potrebbe essere proprio in rapporto a questo fenomeno incostante.

Detta così la cosa appare poco scientifica.

Però... però... non avevo mai sentito parlare prima di Piccardi. Giorgio Piccardi era professore di chimica-fisica all’università di Firenze ed è morto nel 1972. Fu emarginato dagli scienziati perché "eretico". Qual era il suo problema? Lo scaldabagno. Come eliminare le incrostazioni dal boiler? , questa fu la domanda che gli incasinò la vita. La soluzione che trovò era piuttosto ingegnosa. Si trattava di "attivare" l’acqua in una sfera di neon a bassa pressione, aggiungendo una goccia di... mercurio. La tecnica si dimostrò efficiente, però aveva un difetto: era incostante, ossia a volte funzionava benissimo e altre volte non aveva performance da capogiro. Dopo molte riflessioni Piccardi concluse che l’acqua fosse il prototipo dei "fenomeni fluttuanti" perché questo elemento, trovandosi in uno stato di equilibrio delicato, subisce l’influenza di tali e tanti FATTORI ESTERNI che l’esperimento alla fine non é facilmente PREVEDIBILE né RIPRODUCIBILE in modo costante!

Detto in altre parole Piccardi dette bel colpo alla sperimentazione scientifica che, ricordiamolo, si basa proprio sulla prevedibilità e riproducibilità dei fenomeni.

Ho letto di Piccardi su "Il genio incompreso" di Federico Di Trocchio, un bel libro sulle bufale e sul dogmatismo della scienza. Se si ammette con Piccardi la non costante riproducibilità dei fenomeni allora si può pensare che gli autori de "Il mattino dei maghi" non abbiano detto cose false. Perlomeno esiste la POSSIBILITA’ che abbiano ragione. Per non parlare , poi, di altre forme di energia ancora non ben conosciute (vedi fusione fredda), che ci indicano come siamo ben lontani dall’aver capito tutto.

sabato 23 agosto 2014

Alla ricerca di chi avvelenò Rudolf Steiner

tratto da Il Giornale del 18/08/2014

di Luca Negri


Gli anni che precedettero e videro l'esplosione delle due guerre mondiali, paiono avere un retroscena occulto poco indagato dalla storiografia ufficiale


I lavori pionieristici di Giorgio Galli, Nicholas Goodrick-Clarke e René Alleau hanno fatto un po' di luce sulle radici esoteriche, o meglio sataniche, dell'ideologia nazista, ma ancora molto rimane da capire. Da diversi anni anche lo studioso romano Andrea Franco, laureatosi con una tesi sul pensatore tradizionalista René Guénon sotto la supervisione del filosofo cattolico Augusto Del Noce, scrive saggi e tiene incontri pubblici proprio su questi argomenti.
Dunque non potevano mancare nel suo libro Chi ha avvelenato Rudolf Steiner? (pag. 205, euro 13,90) fresco di stampa per Uno editori. Si tratta di una biografia, molto accurata e documentata, del filosofo, occultista e pedagogista austriaco, fondatore dell'Antroposofia, nato nel 1861 e mancato nel 1925. È appunto il mistero dietro la sua morte, probabilmente non naturale, come suggerisce il titolo, ad occupare un buon numero di pagine. Steiner infatti dovette abbandonare prematuramente la terra, e il movimento antroposofico in un momento molto delicato della sua storia, perché fu avvelenato. Almeno così riportano molte testimonianze di suoi collaboratori. L'ipotesi è abbastanza credibile, dato che aveva molti nemici, sia dentro la Chiesa cattolica e sia fra i militanti del movimento nazista ancora ai primordi. Da tempo Steiner affermava che il cristianesimo rosacruciano, di cui si considerava un continuatore, avrebbe sempre trovato un avversario accanito nel gesuitismo.
Infatti alcuni membri della Compagnia di Gesù non si risparmiarono calunnie mezzo stampa ai suoi danni. Inoltre, l'incendio che distrusse il Goetheanum, “tempio” dell'Antroposofia costruito interamente in legno a Dornach in Svizzera, fu opera di un malcapitato (morì fra le fiamme nell'impresa) aizzato da sacerdoti gesuiti. Avversari ancora più agguerriti degli antroposofi erano però i cosiddetti “ariosofi” che fondevano dottrine esoteriche, paganesimo germanico e razzismo. Da quella fucina uscì il Nazismo e non stupisce che Hitler criticò Steiner fin dal 1921, con la poco originale accusa di essere un agente dell'ebraismo. Dal canto suo, Steiner poco prima della dipartita aveva profetizzato che nel 1933 si sarebbe manifestata la Bestia dell'Apocalisse. Sarà una semplice combinazione, penseranno gli storici ufficiali, ma è noto che proprio in quell'anno il Fürer prese il potere.

lunedì 11 novembre 2013

DANTE E LA “DOTTRINA CHE S’ASCONDE / SOTTO ’L VELAME DE LI VERSI STRANI”

tratto da L'Indipendenza del 10 giugno 2012
http://www.lindipendenza.com/dante-galileo-chiesa/

di PAOLO ZANOTTO
 
Per chi, come lo scrivente, respinge i cardini del materialismo storico-dialettico, gli eventi umani non rappresentano unicamente le meccaniche conseguenze di azioni meramente pratiche e contingenti, bensì l’espressione di moti ideali. Sulla base di tale premessa, acquisiscono un’importanza fondamentale le differenti impostazioni culturali; a volte determinate, certamente, da cause immanenti, ma latrici di istanze universali. La formazione culturale di un individuo, come ben sanno coloro che hanno monopolizzato il settore dell’istruzione e dell’informazione, risulta decisiva. A contribuirvi concorrono numerose concause, fra le quali quelle di carattere esplicitamente politico-sociale non rappresentano che una semplice porzione. Al fianco dell’influsso esercitato da filosofi, politologi, politici, giornalisti, c’è quello giocato da poeti, romanzieri, scienziati. 
Per coloro che respingono un indottrinamento da parte delle correnti di pensiero dominanti quest’ultimo si rivela come il più subdolo ed insidioso, giacché alcune teorie scacciate dalla porta potrebbero fare il loro pericoloso ingresso dallo spiraglio di una finestra lasciata socchiusa sul retro.
A tale proposito si è inteso tracciare una sorta di lista dei “buoni” e dei “cattivi” maestri, che possa rivelarsi d’aiuto nell’ardua impresa di ritagliarsi i margini indispensabili per fare delle buone letture nel poco tempo libero a disposizione, se non di rimediare all’opera di “controformazione”. Si tratta di una lista senza pretese, in quanto chi scrive non s’illude certo di possedere gli strumenti adeguati per suggerire alcunché a nessuno, se non a se stesso. Essa si configura, allora, come una riflessione a voce alta; quasi come una sorta di divertissement, al quale ciascuno possa contribuire in un esercizio corale (perché no?) per accrescere questo elenco, del quale il presente articolo costituisce soltanto l’incipit di una serie limitata.
I nomi famosi che hanno contribuito a segnare, nel bene o nel male, pietre miliari della storia umana sono numerosi. Per non attribuire ai ritratti una connotazione eminentemente “negativa”, si è pensato di prendere le mosse da un esempio alto e imprescindibile: Dante Alighieri. Tuttavia, l’insidia procede dalla deviazione. È lì, pertanto, che occorre soffermarsi. Pensando alle teorie da criticare, la mente spazia velocemente (la Verità è unica, l’errore molteplice). Ecco che sopraggiungono, fra i primi, i nomi di Martin Luther (sia il “re” che il monaco agostiniano); Sigmund Freud, il padre della psicanalisi; Arnold Toynbee, il morfologo della Storia, di cui bisognerà senza dubbio occuparsi. Innanzi tutto, però, hanno influito sui recenti avvenimenti politico-sociali alcuni personaggi che vengono solitamente indicati come capisaldi indiscussi del moderno pensiero occidentale: nobili scienziati o filantropi disinteressati e impegnati nel tentativo di emancipare l’Uomo dalle catene che lo imprigionano dall’eternità. E, forse, si riuscirà a far emergere come non tutto ciò che luccica è oro.

La Commedia oltre Benigni
«Io veggio ben che giammai non si sazia / Nostro intelletto, se il Ver non lo illustra, / Di fuor del qual nessun vero si spazia». Dante Alighieri, Paradiso, IV, 124-126. 
Tutti rammentano — anche perché ne è stato fatto un caso nazionale — le performance catodiche di Roberto Benigni in prima serata, nelle quali il comico toscano recitò alcuni versi scritti dal suo celebre compatriota Dante Alighieri. Ma ben prima che Benigni scoprisse che esisteva la Divina Commedia e si piccasse di farne scempio in diretta televisiva (checché ne pensino stimati ingegni, questo rimane un modesto giudizio personale), qualcun altro aveva già pronunciato la propria Lectura Dantis di fronte a ben altro uditorio rispetto a quello che affolla i programmi della TV di Stato. Si trattava di Luigi Valli, docente di filosofia morale presso l’Università di Roma, che il giorno 4 marzo del 1906 illustrò ad un folta platea il canto XIX del Paradiso nella sala del Collegio Nazareno. Negli anni seguenti, il Valli avrebbe scritto numerose opere nelle quali si esponeva “Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore»”, come recitava il suo ultimo e più completo lavoro, pubblicato a Roma nel 1928 dalle edizioni Optima.
Con tali studi, pur non abbandonando il metodo storico d’impronta positivistica, egli si poneva nel solco dell’interpretazione “tradizionale” dell’opera dantesca. In Italia, gli inziatori di questo filone — che privilegiava il messaggio “esoterico”, recuperando lo spirito in voga nel Medioevo — erano stati in modo particolare Michelangelo Caetani e Giovanni Pascoli. Nel 1852, infatti, Michelangelo Caetani, duca di Sermoneta, aveva pubblicato una breve nota, di una ventina di pagine, intitolata “Della dottrina che si asconde nell’ottavo e nono canto dell’Inferno della Commedia di Dante Alighieri”, uscita a Roma presso l’editore Menicanti, cui sarebbero seguite altre ricerche nella medesima direzione. Quarant’anni più tardi, il Pascoli aveva raccolto questa singolare interpretazione del Poema Sacro in opere come Minerva Oscura, Sotto il Velame o La mirabile visione. In esse il poeta romagnolo dava conto degli aspetti esoterici dell’opera scritta dall’Alighieri.
Lo studio del Valli, unico per concezione e per metodologia di costruzione, giungeva a compimento di alcune ricerche che già da lungo tempo il docente romano portava avanti. Il libro, poi, sarebbe stato integrato, due anni più tardi, da un secondo scritto dedicato alle «Discussioni e note aggiunte»; entrambe le opere, pubblicate in un unico volume nel 1994 dalla casa editrice Luni di Milano, sono state ristampate. Il lavoro del Valli s’interrompeva qui, sopraggiungendo la morte improvvisa nel 1931. Il suo grande merito rimane quello di aver fornito una chiave interpretativa «prossima a un metodo matematico», secondo le sue stesse parole, di quei poemi ed oscurissimi scritti composti dai maggiori uomini di lettere d’epoca medioevale: Guinizelli, Cavalcanti, Boccaccio, Petrarca ed altri ancora, oltre allo stesso Dante.
Nel 1925 anche il celebre iniziato René Guénon si era interessato a questi studi dedicati alla Divina Commedia, prendendo le mosse da alcuni scritti che il cattolico francese Eugéne Aroux aveva steso a partire dal 1854, ispirandosi a sua volta alle intuizioni avute da Ugo Foscolo e Gabriele Rossetti. Pur senza alcuna pretesa di sistematicità, dopo aver esaminato le analogie e le corrispondenze con gli ordini cavallereschi, il Rosicrucianesimo, l’ermetismo, l’Islam e fedele al principio secondo il quale le somiglianze, in realtà, dimostrerebbero unicamente «l’unità dottrinale comune a tutte le tradizioni», il Guénon procedeva ad una geometrica esposizione del simbolismo intrinseco ad alcuni temi cruciali dell’opera scritta dal grande poeta fiorentino: i tre mondi, i numeri, il tempo. L’Inferno appariva, così, come ricapitolazione di quegli stati che precedono logicamente la condizione umana, nonché quale manifestazione delle possibilità di ordine inferiore che l’essere reca ancora dentro di sé. Il Purgatorio veniva dipinto, invece, quale prolungamento dello stato umano ed il Paradiso come ascesa agli stati superiori dell’essere. Sulla stessa linea, il celeberrimo «mezzo del cammin di nostra vita» diveniva occasione per una magistrale spiegazione del “centro” secondo un simbolismo che si rifletteva, con perfetta simmetria, nel tempo e nello spazio, nella dottrina dei cicli cosmici basata sulla precessione degli equinozi e nella struttura tripartita dell’universo dantesco.
Sempre nella medesima prospettiva andrebbero inquadrate anche le riflessioni che egli fece in relazione ai famosi versi: «O voi, che avete gl’intelletti sani, / Mirate la dottrina che s’asconde / Sotto il velame degli versi strani» (Inferno, IX, 61-63). Secondo quanto affermato dal noto scrittore Alfredo Cattabiani, recentemente scomparso, anche qui Guénon proiettava le proprie idee ed impressioni riguardo all’opera dantesca, la quale del resto continua tutt’oggi a suscitare svariate considerazioni a causa del proprio legame con l’associazione della «Fede santa» — della quale il poeta fiorentino sembra fosse una delle guide — con l’ermetismo e perfino con la tradizione islamica; gli spunti “arabi” contenuti in quell’opera formidabile di allegoria cristiana, così attentamente rilevati anche dal Padre Asin Palacios fin dai primi del secolo scorso, sono la testimonianza di una profonda e rispettosa relazione fra civiltà cristiana e mondo musulmano, confermata anche dalle analogie fra il “viaggio” dantesco dall’Inferno al Paradiso sia rispetto a quello che è possibile ritrovare nel Kitâb el-isrà (Libro del viaggio notturno che fece Maometto), sia alle Fûtûhât el-Mekkihah (Rivelazioni della Mecca) di Mohyîddîn ibn ’Arabî: opere pubblicate circa ottant’anni prima della Divina Commedia.
Tali considerazioni dischiudevano problematiche di portata talmente ampia e profonda che la loro comprensione potrebbe arrivare a mettere in discussione perfino alcuni dei cardini su cui si fonda la scienza moderna. Dalle criptiche parole di Dante, infatti, è possibile evincere talune informazioni sia di ordine fisico che metafisico, intendendosi con il termine “metafisico” — secondo l’etimo stesso, prezioso in simili congiunture — ciò che va “al di là della natura”, ossia “soprannaturale” nel senso più pregnante del termine. D’altronde, in un “viaggio ultraterreno” le implicazioni di ordine metafisico sono quelle in cui è più logico imbattersi. Tuttavia, la loro complessità è tale che non concede una trattazione sintetica e, tanto meno, divulgativa.
Per quanto, senza dubbio, ciò non abbia minimamente sfiorato la mente del Benigni — troppo intento a dimostrare sofisticamente, a uomini di Chiesa, il valore evocativo dell’imprecazione per quei “maledetti toscani” di cui egli è insigne rappresentante — la dottrina esposta da Dante è ben lungi dall’esaurirsi in una tanto materiale celebrazione della donna e dell’amore passionale. Al contrario, il valore simbolico delle allegorie contenute nella Commedia è talmente portentoso che l’effetto plastico della poesia altro non si rivela se non opportuno filtro artistico il quale, solo, può esprimere in maniera tanto immediata e compiuta una così complessa verità. Chi, infatti, consideri le terzine dantesche come una semplice fantasia non ne coglie affatto il reale significato, osservava giustamente Titus Burckhardt. Allo stesso modo, chi anche ne riconoscesse il contenuto dottrinario riducendola, però, soltanto ad una costruzione concettuale sotto forma di poema non le renderebbe giustizia. La Commedia è ben altro che Sigieri di Brabante messo in rima. Essa è pura arte sacra. Qui l’artista non è “inventore”, ma semplice “tramite” (metaxú avrebbe detto Platone) fra il mondo sensibile e la verità superiore che percepisce. Qui i versi non scaturiscono da una mera ispirazione, bensì da una vera e propria “illuminazione”. Ma questo i Benigni che popolano gli studi televisivi in prima serata, per quanto si sforzino in un esercizio mnemonico sul XXXIII canto del Paradiso, non potranno mai arrivare a comprenderlo se non mutano prospettiva d’osservazione.
Ma, tornando alle implicazioni teoriche di cui si diceva, conviene osservare qualcuna di esse più nel dettaglio. Per quanto il rischio di eccessiva semplificazione riguardi anche le tematiche più prossime alla realtà sensibile, in questo caso si può perlomeno tentare di abbozzare alcune considerazioni in merito ad un unico esempio. Sia concessa, dunque, una breve digressione. È stato osservato come, nonostante l’”ingenuità scientifica” del sistema geocentrico, che viene espresso nella Divina Commedia con l’immagine delle “sfere celesti”, a tale ipotesi cosmologica inerisca pur sempre un profondo realismo metafisico. Il sistema tolemaico, del resto, godeva di una notevole chiarezza spirituale. Per l’epoca in cui esso venne utilizzato, la sua rispondenza scientifica era perfettamente soddisfacente, in quanto forniva una risposta a tutti i quesiti che l’osservazione del mondo naturale suscitava ed è fin troppo evidente che la “scientificità” non può certo avere un grado maggiore. Essa deterrà sempre e comunque, in maniera inevitabile, un carattere unicamente provvisorio. La validità relativa di un sistema del mondo si basa sulla sua unità logica, mentre la sua portata spirituale si fonda sulla sua simbologia. Pertanto, si deve concludere che la Chiesa cattolica, quando pretendeva che Galileo presentasse le proprie teorie relative al moto della terra e del sole come semplici ipotesi, anziché quali verità definitive ed inconfutabili, aveva senza dubbio le sue buone ragioni. Da un punto di vista assoluto, infatti, il sistema elaborato da Copernico non poteva essere nulla di più che una semplice congettura ipotetica, come hanno dimostrato tesi successive (non ultima la ‘relatività’ einsteiniana che, per chi le attribuisca un qualche valore, l’ha confutato). D’altronde, il compito principale della Chiesa consisteva nella salvaguardia di una visione spiritualmente veritiera del mondo. E tale esigenza trovava piena soddisfazione nel sistema omocentrico, che preservava dal pericolo derivante da una concezione puramente matematico-meccanicistica delle cose.
Occorre, a questo punto, cogliere lo spunto per formulare qualche considerazione di tipo storico. Troppo raramente viene rilevato come l’autorità ecclesiastica non abbia ripudiato la teoria eliocentrica al momento della sua formulazione da parte di Copernico, bensì solo ottant’anni più tardi quando se ne appropriò Galilei, peraltro senza aggiungervi alcun particolare significativo ai fini della sua dimostrazione scientifica. Va, anzi, incidentalmente rilevato come, prima ancora che a Copernico, la teoria rimontasse ad Iceta di Siracusa. Inoltre, con l’immagine dei cori angelici roteanti attorno al centro divino, Dante medesimo anticipava il senso del sistema eliocentrico: per dirla con Aristotele, la fonte di ogni luce è, al tempo stesso, il “motore immobile” dell’ordinamento cosmico. A tal proposito, non bisogna mai perdere di vista la quadruplice possibilità interpretativa di un testo: Gerusalemme, che in senso letterale è una città della Palestina; allegoricamente rappresenta l’immagine della Chiesa; moralmente diviene l’anima credente; e anagogicamente costituisce la Gerusalemme celeste, archetipo dell’anima e del mondo, contenuto nello spirito divino, per non limitarsi che ad un esempio classico.
Il conflitto fra Galileo e la Chiesa, assai meno eroico di quanto non abbia tramandato la vulgata agiografica e romanzata, verteva dunque su questioni di ordine teologico, àmbito chiamato in causa dallo stesso pisano. Con i suoi violenti attacchi alla Curia, che stimolava a prendere una posizione in merito, Galileo suscitò le reazioni vaticane; ma alla conciliante proposta del pontefice Urbano VII, che suggeriva di presentare l’eliocentrismo semplicemente come una tesi matematicamente sostenibile anziché come la verità assoluta, lo scienziato replicò in maniera sprezzante nel suo “Dialogo sui massimi sistemi”, raffigurando il papa come un ignorante.
Rammento ancora un’inchiesta apparsa giovedì nel gennaio del 1999 sul «Corriere della Sera». Una pagina intera dell’illustre quotidiano milanese era dedicata ad un sondaggio svolto fra vari esponenti, più o meno noti, della “cultura” italiana, con cui s’intendeva decretare «l’italiano del millennio». Fra gli intervistati v’era anche un architetto che — segno dei tempi — votava per Galileo «perché con lui la scienza abbandona la metafisica». Appunto…

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI:

BURCKHARDT, Titus, Riflessioni sulla «Divina Commedia» di Dante, espressione della saggezza tradizionale, in ID., Scienza moderna e saggezza tradizionale, Borla editore, Torino-Leumann 1968, cap. 5, pp. 127-153.
CONTRO, Primo, Dante templare e alchimista. La Pietra Filosofale nella Divina Commedia. Inferno, Bastogi Editrice Italiana, Foggia 1998.
GUÉNON, René, L’esoterismo di Dante, Adelphi Edizioni, Milano 2002.
LERMIGEAUX, Jacques, Il caso Galileo, Centro Culturale San Giorgio, Ferrara 2002.
MINGUZZI, Edy, L’enigma forte. Il codice occulto della Divina Commedia, ECIG (Edizioni Culturali Internazionali Genova), Genova 1988.
PASCOLI, Giovanni, Conferenze e Studi Danteschi, Zanichelli, Bologna 1914.
RICOLFI, Alfonso, Studi sui Fedeli d’Amore. Dai poeti di corte a Dante. Simboli e linguaggio segreto, Bastogi Editrice Italiana, Foggia 1997.
VALLI, Luigi, Lectura Dantis, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1981.
—, L’allegoria di Dante secondo Giovanni Pascoli, Zanichelli, Bologna 1922.
—, Il segreto della Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia, Luni Editrice, Milano 1996.
—, Lo schema segreto del Poema Sacro, Bastogi Editrice Italiana, Foggia 1998.
—, Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore», Luni Editrice, Milano 1994.

venerdì 1 novembre 2013

Esoterismo e letteratura

Riportiamo il famoso passo di Dante Alighieri:

« O voi ch’avete l’intelletti sani

Mirate la dottrina che s’asconde

 Sotto il velame delli versi strani! »

(Inf. IX, 61-63)


E adesso l'introduzione al Gargantua scritta dallo stesso Rabelais:

"Vedeste mai un cane trovare un osso midollato? Il cane è, come dice Platone (Lib. II De Rep.) la bestia più filosofa del mondo. Se l'avete visto avrete potuto osservare con quale devozione lo guata, con qual cura lo vigila, con qual fervore lo tiene, con quale prudenza lo addenta, con quale voluttà lo stritola e con quale passione lo sugge. Perché? Con quale speranza lo studia? Quale bene ne attende? Un po' di midolla e nulla più. Ma quel poco è più delizioso del molto di ogni altra cosa, perché la midolla è alimento elaborato da natura a perfezione, come dice Galeno (III, Facult. Nat. e XI, De usu partium). All'esempio del cane vi conviene esser saggi nel fiutare assaporare e giudicare questi bei libri d'alto sugo, esser leggeri nell'avvicinarli, ma arditi nell'approfondirli. Poi con attenta lettura e meditazione frequente rompere l'osso e succhiarne la sostanziosa midolla, vale a dire il contenuto di questi simboli pitagorici, con certa speranza d'esservi fatti destri e prodi alla detta lettura."

Ambedue gli autori fanno riferimento a dottrine segrete che si nasconderebbero l'apparenza di un testo letterario. Al lettore il commento.