sabato 25 marzo 2017

Cerchi nel grano. Tesi e confutazione di un fenomeno discutibile


Un libro sobrio, serio, scientifico sull’argomento “cerchi nel grano”. Molto dettagliato e approfondito. Le principale teorie (di cui questo libro offre una vasta e disincantata panoramica) vengono esaminate con la lente d’ingrandimento e confutate ma mostrate al lettore per quel che sono realmente, in profondità, al netto di trucchi e illusioni. Nonostante sia un saggio a tratti quasi tecnico, riesce comunque a scorrere in modo godibile e a farsi comprendere e apprezzare anche dal neofita e dal lettore occasionale. Consigliatissimo.

Copertina flessibile: 232 pagine
Editore: Youcanprint (28 febbraio 2017)
Collana: Youcanprint Self-Publishing
Lingua: Italiano
ISBN-10: 8892651161

ISBN-13: 978-8892651166

mercoledì 22 marzo 2017

Incontro sul Fantasy in provincia di Brescia

Vi segnaliamo l'incontro di giovedì 30 marzo presso la Biblioteca di Roccafranca (BS) con Davide Longoni, il fantasy, Mercuzio... e La Zona Morta


sabato 18 marzo 2017

La Strega di Bergamo Un’inedita testimonianza secentesca

di Andrea Romanazzi


Per questo articolo sulla stregoneria prendiamo spunto da un antico manoscritto secentesco, ad oggi Inedito, che narra le vicende di una strega bergamasca. Prima di addentrarci in questo racconto, però facciamo prima un po’ di chiarezza sul fenomeno della stregoneria.
La figura della “Strega” affonda le sue radici in un lontano passato quando l’uomo e la donna vivevano nell’immanenza della Grande Dea espletando rituali a lei dedicati per propiziare la fertilità e la procreazione. E’ questo il seme da cui si svilupperà, successivamente, la stregoneria.
Andiamo con ordine dunque. Chi erano davvero le streghe?
Il termine “strega” deriva da strix, un mitico uccello notturno, descritto Plinio come una sorta di gufo con la testa grossa, gli occhi fissi, il becco, gli artigli da rapace e le penne chiare. Secondo la tradizione, penetrava nelle case per cibarsi del sangue dei bambini o per allattarli e in tal modo avvelenarli. E’ da questo animale che nasce il successivo termine striges e dunque strega.  Ovviamente esistono poi tutta una sorta di termini locali per indicare queste donne demoniache, troviamo le Gatte Masciare pugliesi, le Masche piemontesi, le Janare campane, per fare alcuni esempi. In ognuna di queste etimologie è racchiuso un indizio sull’origine della “strega”. Ecco così che il termine piemontese ricorda l’uso di mascherarsi durante i rituali di fertilità, la “janara” si ricollega direttamente ai culti di Giano Bifronte,  mentre il termine pugliese nasconde, secondo la tradizione,  la capacità delle streghe, di mutare forma e sembianze.
Con l’avvento della Nuova Religione, il rispetto verso gli antichi dèi divenne adorazione del diavolo, mentre l’espressione ludica e procreativa dei rituali vegetazionali si trasformò in atti sessuali e libidinosi. Ciò che rimaneva dei rituali di fertilità ed accoppiamento espletati ancora nelle campagne, da qui il termine Pagano, ovvero abitante del “Pagus”, diventarono il regno del Maligno.
I rituali di gioia furono  demonizzati e trasformati nel famigerato Sabba, gli incontri demoniaci ove “…si fa coire carnalmente, se l’è maculo con femena, se l’è femena con maculo…con acti lassivi et amatorii tocamenti, et parlamenti cupidinei et venerei…”.
L’atteggiamento iniziale della Chiesa nei confronti della stregoneria fu quello di considerare queste credenze come il frutto di stupide superstizioni pagane, sogni ispirati da Satana che interessavano le donne di basso ceto.
Nel 452  il concilio di Nicea condannò ufficialmente il culto delle pietre, ma questo non bastò per cancellare pratiche religiose ben radicate tra le popolazioni. Nel 789 il Concilio di Tours proibì nuovamente qualunque rituale legato ai culti naturali, ma anche queste norme rimasero disattese.
E’ nel XI secolo che troviamo il primo testo importante che affronta il fenomeno della stregoneria: il Canon Episcopi. In questo scritto si cita per la prima volta della società di Diana, ovvero donne ingannate dal diavolo e dunque accusate esclusivamente per la loro credulità.
“…Chi può essere tanto sciocco o ottuso da credere che tutte queste cose che accadono solo nello spirito avvengano anche nel corpo?…”.
Le punizioni previste erano molto blande, da 40 giorni ad un anno di carcere o solo alcune penitenze come testimonia lo stesso testo
“...I vescovi e i loro ministri facciano in modo di applicarsi con tutte le loro energie per sradicare interamente dalle loro parrocchie la pratica perniciosa inventata dal diavolo;  e se trovassero uomini o donne che si dedicano a tali scelleratezze li caccino dalle parrocchie perché si tratta di gente turpe e disonesta...“.
Almeno fino ai primi del 1300 l’atteggiamento della Chiesa fu dunque molto tollerante anche se nel 1233, con la Bolla Vox in Rama, Papa Gregorio IX incominciò a porre sempre maggiore attenzione al fenomeno, e tra il 1280 e il 1300 diverse donne vennero accusate e processate non però con l’accusa di stregoneria ma di eresia.
Sono però gli eventi ad imprimere una accelerata alla caccia all’untore, da una parte le carestie del 1315-17, le epidemie di Peste nera del 1347-50, nonché le varie ondate di eresie che si diffondevano oltralpe, promossero subito una sorta di “linea dura” contro queste donne.
E’ in questo momento che si affaccia l’immagine, sin ad allora sconosciuta, delle seguaci del demonio, le donne che succhiamo il sangue ai bambini, che si nutrono delle loro carni e li sacrificano a Satana:  un tema che, affondando le sua radici nel paganesimo romano, deriva probabilmente anche dal fatto che queste guaritrici erano spesso  ostetriche e dunque le morti dei neonati a loro imputate erano attribuibili ad aborti avvenuti subito dopo la nascita o dopo il parto.
Inizia ad apparire il nuovo stereotipo della strega e dei suoi  gli incontri segreti con il diavolo poi chiamati sabba, termine, che alcuni farebbero risalire all’ebraico sabbath, sabato, e quindi connesso alle eresie, per altri a Dioniso, al quale era spesso associato l’appellativo sabazius, da sabae, cioè “capra”. Nel ‘400 nasce la vera e propria disquisizione demonologia, la stregoneria non era più solo frutto di illusione ma i terribili rituali erano realmente espletati. Alle “nuove streghe” vengono così associate le trasformazioni in animali e mistiche pozioni ed unguenti capaci di trasportarle rapidamente al luogo del raduno secondo la credenza "lassando a casa il corpo", tanto che anche il sonnambulismo sarà spesso associato al volo stregonesco come poi ritroveremo nello stesso Malleus Maleficarum.
“esempi provino almeno non essere impossibile il trasporto dei Maliardi al congresso notturno, poiché l’impossibilità del loro trasporto è una delle più forti obiezioni che si formino contro l’opinione che li sostiene…sappiamo dal Vangelo che il demonio portò il nostro signore Salvatore su la cima del Tempio di Gerusalemme. Sappiamo altresì che il profeta Abacuc fu trasportato dalla Giudea in Babilonia per portar da mangiare a Daniele…il Diacono San Filippo fu trasportato dalla strada di Gaza a Azot…che il Mago Simone fu dal Diavolo alzato in aria e precipitato dalle orazioni dell’Apostolo San Pietro”.
Nel 1484 sarà papa Innocenzo VIII a dal inizio, con la sua bolla Summis desiderantes affectibus, alla infausta caccia, ratificata poi dal famoso Malleus Maleficarum dei domenicani Jacob Sprenger e Heirich Kramer. E’ nel XIII secolo che nasce quella che sarà una propria caccia a questa “novella strega”.
Uno dei primissimi processi è quello svoltosi a Todi, nel 20 Marzo 1428 nei confronti di Matteuccia di Francesco, processata perché reputata per pubblica fama una maliarda, definita con il termine incantrix e accusata di ben 30 capi d’accusa. A lei si rivolgevano, secondo il dossier, cittadini provenienti da tutto il contado, da Todi, Orvieto, Spoleto, in particolare per ottenere elisir d’amore o per impedire o favorire una gravidanza.
“…una certa donna di nome Catarina del Castello della Pieve per averne un rimedio per non rimanere incinta, non essendo ancora sposata ed avendo coabitato varie volte con un certo presbitero…e temeva che poteva verificarsi il caso di rimanere incinta…la detta Matteuccia disse di prendere un’unghia di mula, di bruciarla e ridurla in polvere e di bere detta polvere mescolata al vino, dicendo queste parole, cioè: io te piglio nel nome del peccato, et del demonio maiure, che non possa mai appicciare più…” Negli incartamenti si narra di come la donna, attraverso l’uso di particolari unguenti, potesse trasformarsi in gatta, la “masipula conversa”, dal termine latino musio poi erroneamente tradotto dal Mammoli, che ne riscopre il documento, con il termine di mosca. La trasformazione in gatto non è casuale, l’animale è infatti il famiglio delle streghe per eccellenza.  Molti sono i racconti popolari che narrano di ferite inferte da contadini ai gatti notturni poi ritrovate, il giorno successivo, sul corpo di alcune donne del paese.
Ma soprattutto appare per la prima volta il tema del volo al noce di Benevento, una storia che tristemente diventerà un punto fisso delle confessioni da tortura, Matteuccia sarà la prima strega ad esser condannata per il volo stregonesco corporalier “unguento unguento, mandame ala noce de Benevento, supra acqua et supra vento, et supra omne maltempo”. Anche in questo caso tra gli scritti del processo traspare la voce della corda, e stranamente, dalle accuse di magie e fatture si passa a quello che diventerà lo stereotipo della strega, ecco che “…molte volte andò a Stregato devastando bambini, il sangue degli stessi lattanti succhiando in molti e diversi luoghi…” come quando si recò al castello di Montefalco ove “…sugò e percosse suo figlio [il bambino della castellana Andreuccia n.d.A.] per il qual fatto il bambino si ammolò e si consunse…” e lo stesso fece ai neonati del castello di Canale e di Andria di Perugina.
Abbiamo narrato il processo di Matteuccia perché è da qui che parte lo stereotipo della strega che ritroveremo anche nel nostro manoscritto.



Processi lombardi

Il documento che a breve mostreremo narra una breve vicenda di una strega bergamasca. La Lombardia fu una regione fortemente colpita dall’Inquisizione. La Valtellina fu centro nevralgico delle manovre contro la stregoneria locale, e Sondrio ne fa da testimone con i registri mortuari della città. Si narra infatti che nel Palazzo Pretorio esistesse una prigione chiamata “delle streghe”, “la quale era una buca del tutto cieca”, dove venivano confinate le maliarde. Streghe condannate con l’accusa di partecipare al Sabba, chiamato localmente barilot, e per aver stregato bambini e uomini le troviamo a Como e Lecco dove furono incarcerate “alcune femine per strie e farsi hora quatro hano confessato d’esser stato a quel ballo o gioco diabolico et confessano d’haver maleficiato et fato morire creature et bestiame et molte altre scelleragini”.
Centro importante dell’attività inquisitoria fu anche Morbegno, dove nel 1432 operava fra Ubertino da Vercelli. Fu lui a condannare al rogo una certa Ganzina di Gerla, detta “Barzia”, “combusta pro crimine heretice pravitatis … in Serta apud locum iustitiae”. In ricordo della sua esecuzione, in contrada Serta vi è oggi una casa antica nota con il nome di Casa di Stria de Serta, sopra la quale è ancora visibile una croce. Insieme a lei, il domenicano fra Cristoforo da Luino fece inquisire altre tredici donne, accusate di “indovinationis et alterius malefitii” e “cuiusdam suspectationis conversationis bone societatis seu diaboli”, tutte successivamente rilasciate, e un ecclesiastico, Gapare di Parazo parroco di S. Pietro a Dubino, che fu invece allontanato dal paese per dieci anni.  Anche Varese non fu indifferente al dilagare della stregoneria: vi si bruciarono nel 1579 Marta d’Albiolo e nel 1588 Lucia di Azzate.
Attorno all’inizio del Cinquecento l’attenzione degli inquisitori si spostò verso la Valcamonica dove le diocesi di Brescia e Bergamo la facevano da padrone. A quel tempo le due città erano sotto il controllo di Venezia che vigilava sui processi. Questo non è un particolare di poco conto per quanto consterà il manoscritto ritrovato. Secondo le tesi inquisitoriali le streghe avevano scelto quella valle come loro dimora perché da li potevano raggiungere uno dei più noti luoghi del sabba in Italia, il Tonale.
 “…Queste bestie eretiche hanno electo uno monte, el qual se chiama monte Tonale, nel qual se reduseno ad foter e balare, qui afirmano che non trovano al mondo nihil delectabilius et che onzendo un bastone, montano a cavalo et efìcitur equus, sopra il quale vanno a ditto monte et ibi inveniunt el diavolo, quale adorano per suo Dio et signore, et lui ge dà una certa polvere, con la quale dicte femene et homeni fanno morir fantolini, tempestar, et secar arbori et biave in campagna, et altri mali…”.
Solo nella Diocesi di Brescia furono arsi vivi “60 femine e forsi 20 homini tutti vivi”.
L’elenco di tutti i processi lombardi potrebbe richiedere un saggio apposito, questo brevissimo e certamente non esaustivo excursus è semplicemente per mostrare i numerosi processi lombardi.
In realtà, focalizzandoci esclusivamente sulla città di Bergamo, non ci sono molte notizie di streghe ivi vissute. La più nota è sicuramente una certa  Benvenuta detta “Pincinella”, una donna di circa sessant’anni nota alla comunità come maliarda accusata di professare le arti magiche e di partecipare al famoso Sabba sul Tonale, dove veniva trasportata grazie all’uso del magico unguento, “col qual subito onzevo il bastone el diventa una capra o un cavallo, o qualche altra sorte di animali, et se leva in aire con tanta prestezza che per el vento che me da in el petto qualche volta non posso piliar fià”. La sua storia è conservata tra le mura della Biblioteca Civica di Bormio, in Palazzo de Simoni, dove troviamo, tra le carte impolverate, gli atti del Quaternum inquistitorum, uno dei processi più tremendi ai danne delle streghe. La storiografia ci narra poi di una certa Caterina de Pilli di Bergamo, soprannominata, anche come Ruggiera da Monza, condannata per stregoneria e condannata al rogo nel gennaio del 1471. Ebbene a queste due streghe bergamasche oggi possiamo aggiungere una terza, il cui nome, purtroppo, è andato perso nell’oblio. La vicenda narrata, sin ora inedita, è descritta in un antico manoscritto secentesco ritrovato all’interno di un saggio di esorcismi del 1600. Il Documento, parecchio lungo e ancora in fase di decifrazione, parla, tra l’altro, del sabba beneventano e del demonio Beliath. In una delle ultime pagine è narrata una curiosa vicenda.
Siamo a Bergamo. Il tema è il “male d’occhi”, ovvero la fattura, il potere di una strega di rendere infetto il sangue affascinandolo dagli occhi. E’ in questo contesto che si narra la confessione di una fanciulla, una incredibile e rara testimonianza finora mai narrata.



Una donna con una figliola di 9 anni dal suo palazzo, in Bergamo, “presi certi unguenti che tenea sotto il letto zozzo e alcuni quadrelli,se ne unse tutto il corpo. Preso un bastone se lo mise sotto come cavalcando…uscì dalla finestra di detta camera che più non la si vide. La figliola ungersi anch’essa e spogliatasi fece lo stesso che avea visto fare alla madre…e in un brevissimo tempo furono in Venetia…in casa di certi parenti, tutta ignuda, e trovò ivi la madre che procedea a stregare un figlio di quelli nel letto…che spaventato gridò l’Ave Maria. Immediata sparve sua madre e  ella si trovò da sola etutta  ignuda…e senza unguanto che l’aveva trasportata. Tutto confessò la povera figlia …e l’ Inquisizione di Bergamo fece subito pigliare quella donna”.

Un interessante, nuovo documento che descrive ancora una volta lo stereotipo della strega italiana.



mercoledì 15 marzo 2017

I MISTERI DEL CODICE VOYNICH

Sabato 25 Marzo 2017 e.v. alle ore 21,15 presso i locali del Centro Studi e Ricerche C.T.A. 102 - Via Don Minzoni 39, Bellinzago Novarese (NO) - nell’ambito delle serate dedicate ai “Misteri Antichi e Moderni”, la nostra Associazione ha il piacere di invitarvi ad un imperdibile appuntamento in compagnia di FABRIZIO SALANI che parlerà sul tema:

“I MISTERI DEL CODICE VOYNICH”

Definito «il libro più misterioso del mondo», il Codice Voynich è l’unico testo che fino ad oggi non è stato ancora tradotto. Storici, scienziati e crittologi dei servizi segreti di tutto il mondo hanno tentato di decifrarlo, ma inutilmente. Oltre ad essere scritto in una lingua ignota, il manoscritto contiene immagini di piante che non sono identificabili con nessun vegetale attualmente noto. L’unica copia esistente è conservata alla Beinecke Rare Book and Manuscript Library dell'Università di Yale, negli Stati Uniti.
La curiosità su questo manoscritto, databile intorno alla seconda metà del 1400 è sempre stata elevata e, negli ultimi 10 anni, è molto cresciuta. L’opera è stata protagonista di documentari dei più noti canali di divulgazione scientifica, nei quali eminenti scienziati hanno avanzato svariate ipotesi sulla sua genesi. Questo straordinario documento è stato attribuito al grande Leonardo Da Vinci, come al celebre mago e veggente inglese John Dee, ma persino c’è chi si è spinto ad attribuirne l’origine agli alieni.
Durante la serata, il relatore mostrerà filmati inediti di cui possiede l'esclusiva mondiale, nonché del materiale originale dell'epoca che è in suo esclusivo possesso.

Data la straordinaria esclusività di questa serata Vi consigliamo di non perdere l’occasione di essere presenti a questa affascinante conferenza! Vi aspettiamo quindi, come sempre, numerosi!

La partecipazione a questa serata è soggetta a Tesseramento A.S.I. ed è obbligatoria la prenotazione da effettuarsi chiamando il numero 3803149775 o scrivendo a: cta102@cta102.it
Si precisa inoltre che la sola adesione all’evento effettuata su Facebook non è considerata una prenotazione valida.

Per i nostri Associati che volessero seguire la conferenza a distanza sarà naturalmente disponibile il collegamento in streaming video.



sabato 11 marzo 2017

Eliade, il sacro ai raggi X

tratto da: http://www.centrostudilaruna.it/eliadesacroaraggix.html

di Alfredo Cattabiani

Se un lettore mi chiedesse di indirizzarlo nel campo della storia delle religioni, gli consiglierei di cominciare con la lettura delle opere di Mircea Eliade perché non soltanto insegnano a comprendere correttamente le tradizioni religiose che hanno preceduto la Rivelazione, ma le intendono come una serie di tentativi di prefigurare il mistero dell’Incarnazione: «Tutta la vita religiosa dell’umanità», scrive nel Trattato di storia delle religioni, «vita religiosa espressa attraverso la dialettica delle ierofanie, sarebbe da questo punto di vista null’altro che l’attesa di Cristo».

Lettore attento di Eliade, l’ho frequentato durante i suoi soggiorni romani o parigini. In quelle lunghe conversazioni mi ribadiva i cardini della sua ricerca. In primo luogo la “simpatia” con cui affrontava ogni tradizione religiosa, cercando di descriverne la struttura senza sovrapporle la sua fede di cristiano ortodosso ma anche senza l’atteggiamento algido dell’entomologo.

Quando cominciò a occuparsi di questi temi capì che era necessaria una rivoluzione: si doveva adottare «la simpatia intelligente dell’ermeneuta. Capivo che dovevo mutare la procedura stessa della ricerca», diceva. «Questa convinzione ha guidato la mia ricerca sul significato e sulla funzione dei miti, sulla struttura dei simboli religiosi e in genere della dialettica fra sacro e profano».

Mircea Eliade, Il mito dell'alchimia seguito da L'alchimia asiatica Alla base dei suoi studi vi era la constatazione che in tutte le civiltà grazie alle ierofanie, alle epifanie del sacro nel visibile, si riscontra l’esperienza primaria di una realtà assoluta, trascendente, mediante la quale il mondo assume un senso organico. «Senza la percezione che c’è qualcosa di assoluto non sarebbero possibili né la coscienza né l’attività mentale. L’uomo diventa un essere umano quando scopre l’esistenza di un ordine fondato da un essere sovrumano». Da questa primaria esperienza è nata la religione cosmica che è il substrato di ogni tradizione e ha ispirato simboli e miti. I quali miti fondano letteralmente una civiltà, sono modelli esemplari per la condotta umana e conferiscono senso e valore all’esistenza.

Si deve riconoscere allo studioso rumeno anche un altro merito, di avere usato nei suoi saggi, anche in quelli dedicati a fenomeni particolari, un linguaggio facilmente comprensibile per chi non sia uno specialista. D’altronde non a caso la monumentale Enciclopedia delle religioni, di cui esce in questi giorni in Italia il sesto volume, dedicato alle Religioni del Mediterraneo e del Vicino Oriente (Città Nuova-Jaca Book), è stato l’ultimo suo progetto, nato dalla preoccupazione di rivolgersi non soltanto agli addetti ai lavori ma anche all’uomo colto per liberarlo da una serie di pregiudizi sul fenomeno religioso che si erano radicati nel corso del secolo XX.

L'uomo e i simboli L’Enciclopedia uscì negli Stati Uniti nel 1986, organizzata in voci stampate in ordine alfabetico. Ma quando si trattò di tradurla in Italia ci si accorse che il nostro sistema bibliotecario, diversamente dal nordamericano, non poteva assorbirne un’edizione sufficiente a coprirne i costi; occorreva venderla anche in libreria e ratealmente. Per renderla più appetibile si decise di riorganizzare le voci non più per ordine alfabetico ma all’interno di volumi tematici. Il progetto fu affidato a Ioan P. Couliano, il discepolo prediletto da Eliade, che nel 1990 fu ucciso misteriosamente all’università di Chicago per motivi che non si sono mai conosciuti.

Gianfranco Bertagni, Lo studio comparato delle religioni. Mircea Eliade e la scuola italiana I curatori dell’edizione europea, Dario M. Cosi, Luigi Saibene, docenti di storia delle religioni rispettivamente a Padova e all’Università Cattolica di Milano, e Roberto Scagno, che insegna lingua e letteratura romena a Roma, hanno portato a compimento questa nuova sistemazione; ma ci vorrà almeno un decennio per pubblicare gli altri 12 volumi previsti. Il pregio di quest’opera non è tanto nelle singole voci, non tutte a dire il vero esaurienti, quanto nell’impostazione generale eliadiana che ha sfatato molti luoghi comuni delle culture riduzioniste del Novecento, come ad esempio il dogma di derivazione gramsciana che considera le tradizioni popolari come culture subalterne a quelle delle classi dominanti mentre esse, più complesse di quel che si crede, sono residui di una sapienza arcaica amalgamata nei secoli, grazie a un lento processo sincretistico, con la religione che era loro succeduta.

Come ha osservato Eliade nella prefazione al primo volume, certi modelli-mitico-rituali ancora presenti tra i contadini dell’Europa centrale e sud-orientale agli inizi del secolo XX conservavano antichissimi frammenti mitologici e rituali, già scomparsi nell’antica Grecia prima di Omero.


Tratto da Avvenire del 12 settembre 2002.

mercoledì 8 marzo 2017

IL MISTERO DEI MISTERI – IL RE DEL MONDO

In collaborazione con la rivista Lettera e Spirito: http://acpardes.com/letteraespirito/16-2/

Capitolo XLVI
Il Regno sotterraneo

«Fermo!» mormorò la mia vecchia guida mongola un giorno che attraversavamo la pianura presso Tzagan Luk. «Fermo!».

Si lasciò scivolare giù dal cammello, che s’inginocchiò spontaneamente. Il Mongolo levò le sue mani innanzi al volto in atto di preghiera e cominciò a ripetere la frase sacra: «Om! Mani padme Hung!» [1]. Gli altri Mongoli fermarono immediatamente i loro cammelli e cominciarono a pregare.

«Cos’è successo?» pensai, mentre guardavo la tenera erba verde attorno a me, il cielo senza nubi e i raggi del sole della sera dolci come in un sogno.

I Mongoli pregarono per un po’ di tempo, si scambiarono qualche parola sottovoce, strinsero le cinghie dei bagagli ai cammelli e si ripartì.

«Hai visto», chiese il Mongolo, «come i nostri cammelli muovevano le orecchie per la paura? Come la mandria di cavalli nella pianura si è fermata improvvisamente attenta e come le greggi di pecore e di armenti si sono acquattate al suolo? Hai notato come gli uccelli non volassero, le marmotte non corressero e i cani non latrassero? L’aria vibrava sommessamente e portava da lontano il suono di un canto che penetrava i cuori degli uomini, come quelli degli animali e degli uccelli. La terra e il cielo avevano cessato di respirare. Il vento non soffiava e il sole si era fermato. In un momento come quello, il lupo che si avvicina furtivo alla pecora si arresta dove si trova; il branco delle antilopi spaventate improvvisamente ferma la sua selvaggia corsa; al pastore che sta sgozzando un montone cade il coltello di mano; il feroce ermellino smette di far la posta all’ignara salga [2]. Tutte le creature viventi in preda alla paura sono spinte involontariamente a pregare e attendono il proprio fato. Ecco cos’è appena accaduto. Così accade ogni qual volta il Re del Mondo nel suo palazzo sotterraneo prega e scruta i destini di tutti i popoli della terra» [3].

Così mi parlò il vecchio Mongolo, un semplice e rozzo pastore e cacciatore.

La Mongolia, con le sue nude e terribili montagne, le sue sconfinate pianure disseminate di ossa disperse degli antenati, ha dato i natali al Mistero. La sua gente, spaventata dalle passioni tempestose della Natura o cullata dalle sue paci che somigliano alla morte, avverte il suo mistero. I suoi Lama “Rossi” e “Gialli” preservano e rendono poetico il suo mistero. I Pontefici di Lhasa e di Urga [4] lo conoscono e lo posseggono.

Conobbi il “Mistero dei Misteri” per la prima volta viaggiando per l’Asia centrale, e non saprei dargli altro nome. In un primo momento non gli concessi molta attenzione e non gli diedi l’importanza che successivamente realizzai meritasse, me ne resi conto soltanto dopo che ebbi analizzati e confrontati fra loro molti indizi sporadici, vaghi e non di rado contradditori.

Gli anziani sulla riva del fiume Amyl mi raccontarono un’antica leggenda secondo la quale una certa tribù mongola nella propria fuga dalle pretese di Gengis Khan si era nascosta in un paese sotterraneo. In seguito un Soyot [5] che veniva dai pressi del lago di Nogan Kul mi mostrò la porta fumante che funge da ingresso al “Regno di Agharti”. Attraverso questa porta un cacciatore in passato era entrato nel Regno e, dopo il suo ritorno, cominciò a raccontare quello che vi aveva visto. I Lama gli tagliarono la lingua per impedirgli di raccontare il Mistero dei Misteri. Raggiunta la vecchiaia, tornò all’ingresso di questa grotta e scomparve nel regno sotterraneo, il cui ricordo aveva ornato e illuminato il suo cuore nomade.

Ricevetti informazioni più realistiche riguardo a ciò dal Hutuktu [6] Jelyb Djamsrap a Narabanchi Kure. Egli mi raccontò la storia dell’arrivo semi-realistico del potente Re del Mondo dal regno sotterraneo, del suo aspetto, dei suoi miracoli e delle sue profezie; e solo allora cominciai a comprendere che in quella leggenda, ipnosi o visione di massa, qualunque cosa essa fosse, si cela non solo del mistero ma una realistica e potente forza capace d’influenzare il corso della vita politica dell’Asia. Da quel momento ho cominciato a svolgere alcune indagini.

Il Gelong Lama [7] favorito del principe Chultun Beyli e il principe stesso mi diedero un resoconto del regno sotterraneo.

«Ogni cosa nel mondo», disse il Gelong, «si trova costantemente in uno stato di cambiamento e di transizione: popoli, scienza, religioni, leggi e costumi. Quanti grandi imperi e splendide culture sono periti! Ciò che rimane invariato è soltanto il Male, lo strumento degli Spiriti Maligni. Più di 60 mila anni fa, un Santo scomparve con tutta una tribù di persone nel sottosuolo e non è mai riapparso nuovamente sulla superficie della terra. Molte persone, tuttavia, da allora hanno visitato questo regno, Sakkia Mouni, Undur Gheghen, Paspa, Khan Baber e altri. Nessuno sa dove si trovi questo luogo. Qualcuno dice in Afghanistan, altri in India. Tutte le persone laggiù sono protette contro il Male e i crimini non allignano entro i suoi confini. La scienza in quel luogo è stata sviluppata con tranquillità e nulla è minacciato dalla distruzione. Il popolo sotterraneo ha raggiunto le vette della conoscenza. Oggi è un grande regno, con milioni di persone con il re del Mondo come loro sovrano. Egli conosce tutte le forze del mondo e legge tutte le anime del genere umano e il grande libro del loro destino. Invisibilmente egli governa ottocento milioni di uomini sulla superficie della terra ed essi compiranno ogni suo ordine».

Il Principe Chultun Beyli aggiunse: «Questo regno è Agharti. Si sviluppa attraverso una rete planetaria di gallerie sotterranee. Ho udito un Lama della Cina istruito in materia riferire a Bogdo Khan che tutte le caverne sotterranee dell’America sono abitate da antiche persone scomparse nel sottosuolo. Tracce di loro si trovano ancora sulla superficie della terra. Queste genti e regioni sotterranee sono governate da sovrani obbedienti al Re del Mondo. In tutto ciò non vi è nulla di stupefacente. Voi sapete che nei due più grandi oceani dell’Est e dell’Ovest vi erano in precedenza due continenti [8]. Scomparvero sotto le acque ma le loro genti si trasferirono nel regno sotterraneo. Nelle grotte del sottosuolo esiste una luce particolare che permette la crescita di cereali e verdure e una lunga vita senza malattia per le persone. Vi sono molti popoli diversi e molte differenti tribù. Un vecchio Brahman buddhista in Nepal stava eseguendo la volontà degli Dei nel far visita all’antico reame di Gengis Khan – il Siam [9]– dove incontrò un pescatore che gli ordinò di prendere posto nella sua barca e di far vela con lui sul mare. Il terzo giorno raggiunsero un’isola dove incontrarono un popolo con due lingue che poteva parlare separatamente in differenti idiomi. Essi gli mostrarono animali sconosciuti e peculiari, tartarughe con sedici zampe e un occhio, enormi serpenti con una carne molto gustosa e uccelli muniti di denti che catturavano pesce per i loro padroni nel mare. Questa gente gli disse che proveniva dal regno sotterraneo e gli descrisse certe parti del mondo nel sottosuolo».

Lama Turgut viaggiando con me da Urga a Pechino mi fornì ulteriori dettagli.

«La capitale di Agharti è circondata da città di sommi sacerdoti e scienziati. Ricorda Lhasa, dove il palazzo del Dalai Lama, il Potala, è la cima di una montagna ricoperta di monasteri e templi. Il trono del Re del Mondo è circondato da milioni di Dei incarnati: sono i sacri Pandita [10]. Il palazzo stesso è attorniato dai palazzi del Goro [11], che possiede tutte le forze visibili e invisibili della terra, dell’inferno e del cielo e che può compiere ogni cosa per la vita e la morte dell’uomo. Se la nostra folle umanità dovesse intraprendere una guerra contro di loro, essi sarebbero in grado di far esplodere tutta la superficie del nostro pianeta e di trasformarla in deserto. Essi possono prosciugare i mari, trasformare le terre in oceani e ridurre le montagne nella sabbia dei deserti. Per ordine loro alberi, erbe e cespugli possono essere fatti crescere; uomini vecchi e deboli possono divenire giovani e coraggiosi; e il morto può essere resuscitato. In strane macchine a noi sconosciute essi corrono attraverso le strette fenditure all’interno del nostro pianeta. Alcuni Brahmani indiani e Dalai Lama tibetani, durante le loro faticose scalate alle cime di montagne che nessun altro piede umano aveva mai calcato, trovarono lì iscrizioni incise sulle rocce, impronte nella neve e tracce di ruote. Il beato Sakkia Mouni rinvenne sulla cima di una montagna delle tavole di pietra con iscritte parole che comprese solo nella propria vecchiaia e in seguito penetrò nel Regno di Agharti, da cui riportò briciole del sacro insegnamento conservato nella sua memoria. Là in palazzi di cristallo meraviglioso vivono gli invisibili governanti di tutte le persone pie, il Re del Mondo o Brahytma, che può parlare con Dio come io parlo con voi, e i suoi due assistenti, Mahytma, che conosce le finalità degli eventi futuri, e Mahynga, che governa le cause di questi eventi».

«I santi Pandita studiano il mondo e tutte le sue forze. A volte i più sapienti fra loro si riuniscono e mandano inviati in quel luogo dove gli occhi umani non sono mai penetrati. Questo è descritto dal Tashi Lama vissuto 850 anni fa. I più elevati Pandita pongono le loro mani sugli occhi e alla base del cervello dei più giovani e li costringono in un sonno profondo, lavano i loro corpi con un infuso di erbe e li rendono immuni al dolore e più duri delle pietre, li avvolgono in panni magici, li legano e poi pregano il Grande Dio. I giovani pietrificati giacciono con gli occhi e le orecchie aperte e vigili, vedono, sentono e ricordano ogni cosa. In seguito un Goro si avvicina e mantiene a lungo lo sguardo fisso su di loro. Molto lentamente i corpi stessi si sollevano da terra e scompaiono. Il Goro si siede e scruta con gli occhi immobili verso il luogo dove li ha inviati. Fili invisibili li uniscono alla sua volontà. Alcuni di essi girano tra le stelle, osservano le loro manifestazioni, i loro popoli sconosciuti, la loro vita e le loro leggi; ascoltano i loro discorsi, leggono i loro libri, capiscono le loro fortune e sventure, la loro santità e i peccati, la loro pietà e il male. Alcuni si mescolano con la fiamma e vedono la creatura di fuoco, rapida e feroce, eternamente in lotta, fondendo e martellando i metalli nelle profondità dei pianeti, bollendo l’acqua per i geyser e le sorgenti, fondendo le rocce ed eruttando lava fusa sulla superficie della terra attraverso le aperture nelle montagne. Altri corrono insieme alle sempre sfuggenti, infinitamente piccole, trasparenti creature dell’aria e penetrano nei misteri della loro esistenza e nelle finalità della loro vita. Altri scivolano nelle profondità dei mari e osservano il regno delle sagge creature dell’acqua, che trasportano e diffondono il giusto calore su tutta la terra, governando i venti, le onde e le tempeste … In Erdeni Dzu viveva un tempo un Pandita Hutuktu, che era venuto da Agharti. In punto di morte, raccontò del momento in cui viveva secondo la volontà del Goro su una stella rossa a Oriente, fluttuava nell’oceano ricoperto di ghiaccio e volava tra i fuochi tempestosi nelle profondità della terra».

Questi sono i racconti che udii nelle yurte [12] dei principi mongoli e nei monasteri lamaiti. Queste storie erano tutte raccontate in un tono solenne che vietava ogni discussione e dubbio.

Mistero …

Capitolo XLVII
Il Re del Mondo al cospetto di Dio

Durante il mio soggiorno a Urga cercai di trovare una spiegazione a questa leggenda sul Re del Mondo. Naturalmente, il Buddha Vivente avrebbe potuto dirmi più di chiunque altro e così mi sforzai di conoscere la storia da lui. In una conversazione con lui menzionai il nome del Re del Mondo. Il vecchio Pontefice bruscamente voltò la testa verso di me fissandomi con i suoi immobili occhi ciechi. A malincuore dovetti tacermi. Il nostro silenzio fu lungo e dopo il Pontefice continuò la conversazione facendomi capire che non gradiva accogliere il suggerimento del mio riferimento. Sui volti dei presenti notai espressioni di stupore e paura provocate dalle mie parole, e questo valeva specialmente per il custode della biblioteca del Bogdo Khan. Si può facilmente capire come tutto questo mi avesse solo reso più ansioso di approfondire la ricerca.

Mentre stavo lasciando lo studio del Bogdo Hutuktu, incontrai il bibliotecario che si era avviato avanti a me e gli chiesi se mi poteva mostrare la biblioteca del Buddha Vivente, utilizzando con lui un semplicissimo ma scaltro stratagemma.

«Sapete, mio caro Lama», dissi «una volta ho cavalcato nella pianura nell’ora in cui il Re del Mondo parlava con Dio ed ho avvertito la solenne maestosità di quel momento».

Con mio grande stupore, il vecchio Lama mi rispose senza turbarsi: «Non è giusto che i Buddhisti e la nostra Fede Gialla lo tengano nascosto. Il riconoscimento dell’esistenza dell’uomo più santo e più potente, del regno benedetto, del grande tempio della scienza sacra è una tale consolazione per i nostri cuori peccaminosi e le nostre esistenze corrotte che nasconderlo al genere umano è un vero peccato … Beh, ascoltate», proseguì, «per l’intero corso dell’anno il Re del Mondo guida il lavoro dei Pandita e dei Goro di Agharti. Solo a volte egli si reca alla cripta del tempio dove il corpo del suo predecessore giace imbalsamato in un sarcofago di pietra nera. Questa grotta è sempre buia, ma quando il Re del Mondo vi entra le pareti si rigano col fuoco e dal coperchio della bara appaiono lingue di fiamma. Il Goro più anziano gli sta di fronte col capo e il viso coperti e con le mani incrociate sul petto. Questo Goro non si leva mai il cappuccio, ché la sua testa è un cranio nudo con gli occhi vividi e una lingua che parla. Egli è in comunione con le anime di tutti coloro che ci hanno preceduto».

«Il Re del Mondo prega per un lungo periodo di tempo e successivamente si avvicina al sarcofago e stende la mano. Le fiamme guizzano più ardenti; le strisce di fuoco sulle pareti svaniscono e riappaiono, e intrecciandosi formano misteriosi segni dell’alfabeto vatannan [13]. Dalla bara fasci diafani di luce appena percettibile cominciano a emanare: sono i pensieri del suo predecessore. Repentinamente il Re del Mondo si ritrova avvolto in un’aura di questa luce e lettere di fuoco scrivono e scrivono sui muri i desideri e gli ordini di Dio. In questo momento il Re del Mondo è in comunione con i pensieri di tutti gli uomini che influenzano la sorte e la vita di tutta l’umanità: con Re, Zar, Khan, capi guerrieri, Sommi Sacerdoti, scienziati e altri uomini forti. Si rende conto di tutti i loro pensieri e progetti. Se questi sono graditi a Dio, il Re del Mondo li asseconderà in modo invisibile, se sono sgraditi al cospetto di Dio, il Re li porterà verso il fallimento. Questo potere è conferito ad Agharti dalla misteriosa scienza dell’“Om”, con cui iniziamo tutte le nostre preghiere. “Om” è il nome di un antico Sant’uomo, il primo Goro, che visse 330 mila anni fa. Egli fu il primo uomo a conoscere Dio e che insegnò agli uomini a credere, sperare e lottare contro il Male. Allora Dio gli diede potere su tutte le forze che governano il mondo visibile».

«Dopo la sua conversazione con il proprio predecessore, il Re del Mondo riunisce il “Gran Consiglio di Dio”, giudica le azioni e i pensieri dei grandi uomini, li asseconda o li distrugge. Mahytma e Mahynga trovano il posto per queste azioni e pensieri nella catena causale che governa il mondo. Successivamente il Re del Mondo accede al grande tempio e prega in solitudine. Il fuoco appare sull’altare, e gradualmente si diffonde a tutti gli altari vicini, e attraverso la fiamma che brucia appare gradualmente il volto di Dio. Il Re del Mondo con reverenza annuncia a Dio le decisioni e le determinazioni del “Consiglio di Dio” e riceve a sua volta agli ordini Divini dell’Onnipotente. Quando esce dal tempio, il Re del Mondo irradia la Luce Divina».

Capitolo XLVIII
Realtà o fantasia religiosa?

«Ma qualcuno ha visto il Re del Mondo?» chiesi.

«Oh, sì!» rispose il Lama. «Durante le feste solenni dell’antico Buddhismo in Siam e in India il Re del Mondo apparve cinque volte. Montava uno splendido carro trainato da elefanti bianchi e ornati di’oro, pietre preziose e tessuti pregiati; era vestito di un manto bianco e una tiara rossa con pendagli di diamanti che gli celavano il volto. Egli benedisse il popolo con una mela d’oro sormontata dalla figura di un Agnello. Il cieco riacquistava la vista, il muto parlava, il sordo udiva, lo storpio si muoveva liberamente e il morto risorgeva, laddove gli occhi del Re del Mondo si posavano. È apparso anche 540 anni fa, nel Erdeni Dzu, è stato in un antico monastero di Sakkai e a Narabanchi Kure.

Uno dei nostri Buddha Viventi e uno dei Tashi Lama ricevette un suo messaggio, scritto con segni sconosciuti su tavolette d’oro. Nessuno poteva leggere questi caratteri. Il Tashi Lama entrò nel tempio, pose la tavoletta d’oro sulla sua testa e cominciò a pregare. Grazie a ciò i pensieri del Re del Mondo penetrarono la sua mente e, senza aver letto gli enigmatici segni, egli comprese e realizzò il messaggio del Re».

«Quante persone sono state ad Agharti?» lo interrogai.

«Moltissime», rispose il Lama, «ma tutte queste persone hanno mantenuto segreto ciò che videro laggiù. Quando gli Oleti [14] distrussero Lhasa, uno dei loro distaccamenti nelle montagne del Sud-Ovest penetrò fino alle propaggini di Agharti. Qui appresero alcune fra le scienze misteriose minori e le portarono sulla superficie della nostra terra. Ecco perché gli Oleti e i Calmucchi sono stregoni abili e profeti. Anche dai paesi orientali alcune tribù di gente nera penetrarono ad Agharti e lì vissero molti secoli. Successivamente essi furono scacciati dal regno e restituiti alla terra, portando con sé il mistero delle predizioni attraverso le carte, le erbe e le linee del palmo della mano. Sono i Gitani [15] … Da qualche parte nel Nord dell’Asia esiste una tribù che ora si sta estinguendo e che è venuta dalle grotte di Agharti, abile nel richiamare gli spiriti dei morti che fluttuano nell’aria».

Il Lama rimase in silenzio e poi, come se stesse rispondendo ai miei pensieri, continuò:

«Ad Agharti i dotti Pandita scrivono su tavole di pietra tutta la scienza del nostro pianeta e degli altri mondi. I sapienti Buddhisti cinesi lo sanno bene. La loro scienza è la più alta e pura. Ogni secolo un centinaio di saggi della Cina si riuniscono in un luogo segreto sulle rive del mare, dalle cui profondità emergono un centinaio di tartarughe immortali. Sui loro gusci i cinesi scrivono tutti gli sviluppi della scienza divina prodottisi durante il secolo».

Mentre scrivo sto involontariamente rimembrando il racconto di un vecchio bonzo cinese nel Tempio del Cielo a Pechino. Mi disse che le tartarughe vivono più di 3000 anni senza cibo né aria e che questo è il motivo per cui tutte le colonne del Tempio del Cielo azzurro furono poste su tartarughe vive per preservare il legno dal degrado.

«Più volte i Pontefici di Lhasa e Urga hanno inviato emissari al Re del Mondo», disse il Lama bibliotecario, «ma non lo trovarono. Solo un certo leader tibetano dopo una battaglia con gli Oleti trovò la grotta con l’iscrizione: “Questo è l’ingresso per Agharti”. Dalla grotta uscì un uomo di bell’aspetto, gli donò una tavoletta d’oro con i segni misteriosi e disse:

“Il Re del Mondo apparirà di fronte a tutti i popoli quando il tempo sarà giunto per lui di condurre tutte le buone persone del mondo contro tutte le malvagie; ma non è ancora venuto questo tempo. Il più malvagio tra gli uomini non è ancora nato”.

Il Chiang Chün barone Ungern inviò il giovane principe Pounzig in cerca del Re del Mondo, ma questi tornò con una lettera del Dalai Lama da Lhasa. Quando il barone lo mandò una seconda volta, egli non ritornò più indietro».

Capitolo XLIX
La profezia del Re del Mondo nel 1890

L’Hutuktu di Narabanchi mi riferì quanto segue, quando lo visitai nel suo monastero agli inizi del 1921:

«Quando il Re del Mondo apparve davanti ai Lama, favoriti di Dio, in questo monastero trent’anni fa fece una profezia per il seguente mezzo secolo. Essa era la seguente:

“Sempre più la gente si dimenticherà la propria anima e si curerà del proprio corpo. Il più grande peccato e la corruzione regneranno sulla terra. Gli uomini diventeranno come belve feroci, assetati del sangue e della morte dei loro fratelli. La ‘Mezzaluna’ si offuscherà e i suoi seguaci sprofonderanno nella miseria e nella guerra incessante. I suoi conquistatori saranno colpiti dal Sole, ma non si eleveranno e due volte saranno visitati dalla sventura più grave, che culminerà nell’insulto dinnanzi agli occhi degli altri popoli. Le corone dei re, grandi e piccoli, cadranno … uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto … Ci sarà una battaglia terribile fra tutti i popoli. I mari diverranno rossi … la terra e il fondo dei mari saranno disseminati di ossa … regni saranno dispersi … interi popoli moriranno … fame, malattie, crimini sconosciuti alla stessa legge, mai visti prima nel mondo. I nemici di Dio e dello Spirito Divino nell’uomo verranno. Anche coloro i quali tenderanno la mano al prossimo periranno. I dimenticati e i perseguitati insorgeranno e cattureranno l’attenzione del mondo intero. Ci saranno nebbie e tempeste. Montagne spoglie saranno improvvisamente ricoperte da foreste. Si scateneranno terremoti … Milioni di uomini cambieranno le catene della schiavitù e dell’umiliazione con la fame, la malattia e la morte. Le antiche strade saranno coperte con folle erranti da un luogo all’altro. Le città più grandi e più belle periranno nel fuoco … una, due, tre … Il padre insorgerà contro il figlio, il fratello contro il fratello e la madre contro la figlia … Il vizio, il crimine e la distruzione del corpo e dell’anima seguiranno … Le famiglie saranno disperse … Scompariranno la verità e l’amore … Di diecimila uomini uno solo sopravvivrà; egli sarà nudo e folle, senza la forza e la conoscenza per costruirsi una casa e trovare il proprio cibo … Egli ululerà come il lupo rabbioso, divorerà i cadaveri, morderà la sua propria carne e sfiderà Dio a combattere … Tutta la terra sarà svuotata. Dio stesso le volterà le spalle e su di essa non vi sarà che la notte e la morte. Allora io manderò un popolo, ancora sconosciuto, che estirperà la gramigna della pazzia e del vizio con mano forte e condurrà coloro che ancora rimangono fedeli allo spirito dell’uomo nella lotta contro il Male. Essi ritroveranno una nuova vita sulla terra purificata dalla morte delle nazioni. Nel cinquantesimo anno appariranno solo tre grandi regni, che esisteranno felicemente per 71 anni. In seguito ci saranno diciotto anni di guerra e distruzione. Allora i popoli di Agharti saliranno dalle loro caverne sotterranee alla superficie della terra”».

In seguito, mentre viaggiavo oltre attraverso la Mongolia orientale e verso Pechino, ho pensato spesso:

«E se … ? Che cosa succederebbe se interi popoli di diversi colori, fedi e tribù dovessero iniziare la loro migrazione verso l’Occidente?».

E adesso, mentre vergo queste ultime righe, i miei occhi involontariamente si rivolgono a questo sconfinato Cuore dell’Asia su cui i sentieri del mio peregrinare s’intrecciano. Fra tormente di neve e vortici di sabbia del Gobi la memoria mi riporta al cospetto del Hutuktu di Narabanchi che, con voce pacata mentre indicava l’orizzonte con la sua esile mano, mi dischiuse le porte dei suoi più intimi pensieri:

«Presso Karakorum e sulle rive del Ubsa Nor vedo gli immensi accampamenti multicolori, le mandrie di cavalli e bovini e le yurte azzurre dei capi. Sopra di loro vedo le antiche bandiere di Gengis Khan, dei re del Tibet, del Siam, dell’Afghanistan e dei Principi indiani; i sacri emblemi di tutti i Pontefici lamaiti; gli stemmi dei Khan degli Oleti e i semplici stendardi delle tribù mongole del Nord. Non odo il rumore della folla animata. I cantori non intonano le lamentevoli canzoni della montagna, della pianura e del deserto. I giovani cavalieri non si dilettano con le corse sui loro rapidi destrieri … Vi sono innumerevoli schiere di vecchi, donne e bambini e più oltre, a Nord e a Ovest, fin dove l’occhio si può spingere, il cielo è rosso come una fiamma, c’è il rombo e il crepitio del fuoco e il suono feroce della battaglia. Chi sta conducendo questi guerrieri che là sotto il cielo arrossato spargono il loro proprio sangue e quello degli altri? Chi sta guidando queste turbe di vecchi inermi e di donne? Vedo ordine severo, comprensione religiosa profonda di scopi, pazienza e tenacia … una nuova grande migrazione di popoli, l’ultima marcia dei Mongoli …».

Il Karma [16] potrebbe aver aperto una nuova pagina di Storia!

E se il Re del Mondo fosse con loro?

Ma questo grande Mistero dei Misteri serba il suo profondo silenzio.

* Estratto della Parte V del libro di Ferdinand Ossendowski, Beasts, Men and Gods, E.P. Dutton & Company, New York, 1922

1. «Salve! Grande Lama nel Fiore di Loto!». René Guénon ricordava che a Ossendowski era stato rimproverato dai suoi critici di scrivere Om invece di Aum, «ma, se Aum è la rappresentazione del monosillabo sacro scomposto nei suoi elementi costitutivi, è pur sempre Om la trascrizione corretta che corrisponde alla pronuncia reale in uso sia in India sia in Tibet e in Mongolia» (R. Guénon, Le Roi du Monde, Paris, Librairie Charles Bosse, 1927; trad. it. Il Re del Mondo, Milano, Adelphi Edizioni, 1977, p. 14, nota 5) [N.d.T.].

2. Pernice grigia della prateria [N.d.T.].

3. René Guénon faceva notare in proposito come l’accostamento di un simile evento con il timor panicus degli antichi, suggeritogli da Arturo Reghini, fosse da considerarsi un’ipotesi “estremamente verosimile” (R. Guénon, Il Re del Mondo, cit., p. 13, nota 4) [N.d.T.].

4. Capitale della Mongolia [N.d.T.].

5. Gruppo etnico originario della Siberia occidentale [N.d.T.].

6. Il grado più elevato nella gerarchia monastica lamaista [N.d.T.].

7. Sacerdote autorizzato a compiere i sacrifici [N.d.T.].

8. Atlantide e Mu [N.d.T.].

9. Nome che aveva, fino al 24 Giugno 1939, l’attuale Thailandia [N.d.T.].

10. Monaci buddhisti di alto rango. Titolo conferito a coloro i quali sono stati istruiti nelle cinque scienze tradizionali: la scienza del linguaggio (śabdavidyā), la scienza della logica (hetuvidyā), la scienza della medicina (cikitsāvidyā), la scienza delle belle arti e mestieri (śilakarmasthānavidyā) e la scienza della spiritualità (adhyātmavidyā) [N.d.T.].

11. Sommo sacerdote del Re del Mondo [N.d.T.].

12. Tende mongole fatte di feltro [N.d.T.].

13. La lingua sacra parlata nel Regno sotterraneo, da cui deriverebbe la primitiva lingua indo-europea [N.d.T.].

14. Oleti o Oirati era il nome con cui era conosciuta originariamente la tribù mongola dei Calmucchi, prima che migrasse all’epoca di Gengis Khan per stabilirsi sui monti Urali e sulle rive del Volga in Russia. Il loro etnonimo, ojrad, sarebbe derivato dal mongolo Dôrvôn Ojrd, “I quattro alleati”, in quanto storicamente gli Oirati erano composti da quattro tribù maggiori. I Calmucchi sono gli unici abitanti dell’Europa la cui religione nazionale è il Buddhismo. Essi abbracciarono il Buddhismo Vajrayana nella prima parte del XVII secolo, e seguono tuttora gli insegnamenti del lignaggio Gelugpa (Via Virtuosa). Il Buddhismo Vajrayana divenne noto in ambienti anglosassoni nel XIX secolo con il termine dispregiativo di Lamaismo, dal termine tibetano lama, traduzione del sanscrito guru [N.d.T.].

15. Zingari, Zingani, Zigani o Gitani sono termini generici per indicare un insieme di diverse etnie, originariamente ritenute nomadi, provenienti dalle regioni situate nel Nord-Ovest dell’India. René Guénon precisava che «quando si parla di Zingari, è indispensabile fare una distinzione, che troppo spesso si dimentica: in realtà, vi sono due tipi di Zingari, i quali sembrano del tutto estranei fra di loro e che si trattano perfino da nemici; essi non hanno gli stessi caratteri etnici, né parlano la stessa lingua, né esercitano gli stessi mestieri. Vi sono gli Zingari orientali, o Zingari, che sono soprattutto domatori di orsi e calderai; e vi sono gli Zingari meridionali, o Gitani, chiamati anche, in Linguadoca e in Provenza, “Carachi”, che sono quasi esclusivamente mercanti di cavalli» (R. Guénon, Le Compagnonnage et les Bohémiens, in Le Voile d’Isis, Ottobre 1928, in Études sur la Franc-Maçonnerie et le Compagnonnage, Paris, Éditions Traditionelles, 1964, 2 voll.. Guénon continuava ponendo in evidenza i numerosi tratti di comunanza fra i Gitani e i Pellerossa d’America e considerava come degna di nota l’ipotesi di una comune origine atlantidea [N.d.T.].

16. Secondo l’accezione comunemente diffusa in Occidente, che qui sembra essere accolta dall’Autore, con tale termine si suole intendere una sorta di personificazione dell’idea di destino, assimilabile alla nozione greco-romana di Nemesi (Giustizia). È bene rammentare, d’altra parte, come in realtà «la parola karma ha un duplice significato: in generale è l’azione in tutte le sue forme, spesso opposta a jnâna, o la conoscenza, ciò che corrisponde nuovamente alla distinzione dei due ultimi darshana; in senso specifico e tecnico è l’azione rituale quale è prescritta nel Vêda» (R. Guénon, Introduction générale à l’étude des Doctrines Hindoues, Paris, Marcel Rivière, 1921, chap. XIII “Le Mîmânsâ”, trad. it. Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Milano, Adelphi Edizioni, 1989, cap. 13 “La Mîmânsâ”, p. 192) [N.d.T.].


Ferdinand Ossendowski

sabato 4 marzo 2017

Teseo, Arianna e il labirinto

pubblicato su Lex Aurea 41

di Vito Foschi

Il mito di Teseo si presta ad interessanti considerazioni, e già in un nostro lavoro (“E conficcò la spada nella roccia…”, Graal n. 19 gennaio/febbraio 2006) avevamo mostrato la possibilità che fosse stato fonte di ispirazione per i racconti cavallereschi di re Artù, mentre in questo lavoro esamineremo l’episodio dell’uccisione del Minotauro.
Nel mito si racconta che la città di Atene fosse tributaria di Creta e costretta a consegnare ogni nove anni sette fanciulli e sette fanciulle che servivano come pasto per il Minotauro, mostro metà toro e metà uomo racchiuso al centro di un labirinto e di come Teseo interrompa la macabra usanza uccidendo il mostro.
Il Minotauro è frutto dell’amplesso di Pasifae, moglie di Minosse, re di Creta, con il toro sacro a Poseidone; il dio, per punire Minosse per non aver sacrificato l’animale, fece invaghire la donna dell’animale. La forma metà umana e metà animale del Minotauro e il suo concepimento bestiale, in cui la cecità la fa da padrone e in cui il soddisfacimento dei più bassi istinti prevale denuncia il suo rappresentare il dominio degli istinti. Pasifae rappresenta il completo essere fuori di sé, è in qualche modo posseduta da un demone, non viva ma vissuta, con l’io altrove, completamente soffocato. Il Minotauro dominato dagli istinti incapace di vedere in sé il proprio lato umano è il mostro che deve essere sconfitto da Teseo.

Il Minotauro è racchiuso in un labirinto e non ne viene fuori. Cosa impedisce al mostro di trovare l’uscita? La semplice difficoltà? No, il Minotauro è dominato dagli istinti, dalla sua natura animale e il labirinto rappresenta il suo stato spirituale: perso nelle tenebre e nell’ignoranza. Nella mente del mostro regna la confusione, la diritta via è smarrita. Il labirinto rappresenta anche le viscere e quindi le zone infere, i piani inferiori dell’essere da conquistare e superare. Teseo affronta il Minotauro nel labirinto per dominare gli istinti e superare la sua condizione animale. Il filo di Arianna è la diritta via. Il filo è di colore rosso a simboleggiare la regalità di Teseo.
La donna, guida di Teseo, a prima vista sembra un volto della Sapienza, che guida il Sé nel labirinto affinché non smarrisca la strada. È una prova iniziatica e il cavaliere rettamente guidato controlla gli stati inferiori dell’essere e li supera.
Dopo l’uccisione del mostro Teseo prende Arianna con sé per poi abbandonarla su un’isola. Ne esistono varie versioni, in una è Dioniso ad ordinare l’azione, mentre in altre l’iniziativa è di Teseo: un comportamento apparentemente inspiegabile. Arianna gli ha salvato la vita e non ci sono giustificazioni di sorta, però dal punto di vista iniziatico ogni cosa deve essere ricondotta all’unità, gli istinti devono essere domati, ma non si può essere dominati dalla pura razionalità.
Il Minotauro è fratellastro di Arianna a testimonianza della doppia natura dell’uomo che deve essere superata. Come il Beauceant, il vessillo dei templari a scacchi bianchi e neri a testimoniare il bene e il male che convivono in ogni uomo. Questa divisione deve essere superata e deve essere ricondotta ad unità superiore e questo spiega quella parte di mito incomprensibile. I due opposti ad un livello superiore sono complementari e sono ricondotti ad unità. Arianna non a caso è sorellastra del Minotauro, Razionalità e Istinto, termini che devono ambedue essere soppressi per giungere ad uno stato superiore dell’essere dove gli opposti sono ricondotti a unità. Se Teseo non avesse abbandonato Arianna dopo la sconfitta del Minotauro non avrebbe superata la prova perché non avrebbe ricondotto ad unità gli opposti. Solo lasciandosi alle spalle gli istinti e la razionalità può giungere ad un grado spirituale superiore in cui sarà l’intelligenza metafisica a guidarlo, né l’istinto, né la razionalità. Una bella immagine che rende conto dell’unione degli opposti è quella dei racconti arturiani in cui i due draghi bianco e rosso si fronteggiano e si ammazzano a vicenda.
Arianna è aiutata da Dedalo, lo scienziato di corte, uomo razionale, rafforzando l’idea della figlia di Minosse come simbolo di raziocinio. Dedalo è anche colui che costruisce la vacca di legno dove la moglie di Minosse si nasconde per essere posseduta dal bianco toro dono di Poseidone, così generando il Minotauro. In questo episodio raziocinio e istinto sono uniti, ma senza superare la dualità. La razionalità coadiuva la soddisfazione dei bassi istinti: i due aspetti rimangono separati senza completarsi e superarsi. Dedalo è anche l’uomo che costruisce le ali di cera e che precipita. Qui è la pretesa titanica di arrivare a Dio con la razionalità senza usare lo spirito. È l’intelligenza metafisica che guida l’uomo e permette di superare i limiti umani, senza questa è un impresa faustiana, è un discendere agli inferi e sfida a Dio. Pensare che la sola ragione possa permettere di comprendere gli aspetti metafisici è orgoglio e l’anima si perde precipitando negli abissi.

Il termine del racconto è piuttosto tragico quasi a vanificare l’eroismo iniziale di Teseo e anche nel finale, come per Arianna, l’eroe non sembra più tale. Teseo e il padre Egeo avevano concordato un segnale, le vela bianca per la vittoria quella nera per la morte, tema poi ripreso nei racconti di Tristano e Isotta.

Nel viaggio di ritorno la nave dell’eroe affronta una tempesta e un fulmine straccia la vela bianca, e per continuare la navigazione fa issare quella nera. Teseo, dimentico dell’accordo con il padre, in prossimità di Atene non fa cambiare la vela nera e il padre che scrutava l’orizzonte da una rupe vedendo la nave con la vela nera, non resistendo al dolore, si butta giù dalla rupe nel mare che da quel momento si chiamerà Egeo. In alcuni racconti la vela è volutamente lasciata nera per adempiere la profezia della morte del padre. Teseo non fa una bella figura come eroe, prima abbandona Arianna che lo ha salvato poi procura la morte del padre a causa, nella migliore dell’ipotesi, di una distrazione; però se analizziamo il racconto in maniera simbolica i conti tornano. Dopo aver superato la prova ed abbandonato Arianna, quindi superando la dualità istinto/ragione, Teseo è un uomo nuovo e deve rinascere. La morte del padre simboleggia la morte del vecchio individuo e non bisogna scomodare la psicologia con tesi quali il parricidio o il complesso di Edipo. Più semplicemente è l’individuo nuovo che nasce e quello vecchio deve morire. Teseo prende il posto del padre e diventa re di Atene, l’iniziazione è conclusa.