domenica 23 marzo 2025

Comunicazioni con l'aldilà, un'altra testimonianza

di Cavaliere Vermiglio


Vi porto una testimonianza di quella che comunemente viene accreditata come comunicazioni con i trapassati. Una signora molto anziana, oltre i novant'anni e rimasta vedova da anni, a un certo incomincia a dire ai familiari che deve preparare la cena al marito e di doverlo aspettare per cena. I familiari non hanno dato peso a quelle parole, pensando che fossero dettate dalla demenza. Dopo qualche giorno, meno di una settimana, la signora è morta e tutti hanno pensato che quelle allucinazioni non fossero altro che il marito che era venuto incontro alla moglie dall'aldilà. Semplice coincidenza? 

sabato 8 marzo 2025

La "Resurrezione" dell'altro Cristo spunta come un fiore

tratto da "Il Giornale" del 31 Ottobre 2024

Tre occidentali visitano la presunta tomba di Gesù. E trovano il cristianesimo delle origini

di Davide Brullo

Il momento più affascinante del romanzo accade quando il mite professor Quareshi spiega a Freddy, citazioni evangeliche alla mano, che «Gesù si è salvato dal supplizio della croce». Nello specifico, sarebbero stati Giuseppe d'Arimatea, Nicodemo «e il centurione Longino», a disarcionare Gesù dalla croce, a curarlo, insinuandone la morte, a sua difesa. Dopodiché, il Messia avrebbe continuato l'opera di predicazione in India, insieme a Tommaso, l'apostolo inviato a profetizzare in Mesopotamia e in Oriente (come racconta Eusebio di Cesarea). In Oriente, il nome di Gesù muta in Yuz Asaf, «guida dei guariti, perché a lui si riconosceva il dono miracoloso di sanare gli infermi». Seguono le prove del passaggio di Gesù in Afghanistan, Pakistan, Kashmir.

Pare di essere al cospetto di una leggenda ordita da Borges. In Atlas, il suo ultimo libro, il veggente sudamericano suppone che Alessandro Magno «non muore in Babilonia all'età di trentadue anni», ma si arruola come mercenario semplice tra i battaglioni dell'esercito mongolo. Qui, però, vista l'entità del soggetto e le sue conseguenze - il cristianesimo come lo conosciamo, amministrato in una liturgia della colpa e del giogo, sarebbe un'immane montatura - i fatti assumono altro rilievo: ci pare di sfigurare un segreto.


La mole di dati squadernati dal professor Quareshi a supporto della sua tesi impressiona. Gesù sarebbe affiliato ai Nazareni, «un gruppo monastico che aveva un credo e dei comportamenti rituali simili a quelli degli Esseni», affini ai Terapeuti, di cui scrive Filone di Alessandria nel De vita contemplativa. Questi asceti praticavano il digiuno, vestivano di bianco, si radunavano «il settimo giorno» per onorare Dio con canti e danze. Fuggiti dalle spire della vita cittadina, i Terapeuti, edotti nella guarigione dello spirito, si prefiggono di giungere a una «vita immortale e beata... tendono con tutte le forze alla visione dell'Essere e oltrepassano il sole sensibile pur non abbandonando mai questo loro posto» (così Filone). Abitano le sponde del lago Mareotide - o Maryut - presso Alessandria d'Egitto, spazio impossibile a chi non è addestrato alla contemplazione. In loro credeva perfino William Butler Yeats, il sommo poeta d'Irlanda, che cercò di fondere, attraverso il genio lirico, la sapienza orientale in quella ebraico cristiana: «Credo come credevano i vecchi saggi che sedevano sotto le palme, i banani o fra le rocce rese irraggiungibili dalla neve, mille anni prima della nascita di Cristo; credo come credevano i monaci del mare della Mareotide...».


Resurrezione di Zecchi

Ma qui rischio di andare per le mie vie. Resta da dire che il cuore del romanzo di Stefano Zecchi, Resurrezione (Mondadori, pagg. 244, euro 19), è il santuario di Roza Bal, la tomba in cui sarebbe sepolto Gesù. Presso Srinagar, è un luogo piuttosto squallido; o meglio, come scrive l'autore, «un posto così povero, umile, per custodire la storia grandiosa di chi non ha mai cercato gloria, onori, predicando amore». Lascio il lettore a smanettare su Wikipedia: scoprirà la setta degli Ahmadiyya e altri dati in quantità. A Zecchi - se non ho capito male - interessa tutt'altro, cioè sondare la genuinità del cristianesimo delle origini, che precede la costituzione di una chiesa, di un potere ecclesiastico, di una qualche coercizione.

Resurrezione, in sostanza, è un romanzo sapienziale, di quelli che in pochi, ormai, osano scrivere. Il libro è ambientato a Srinagar, appunto, e ruota attorno a tre personaggi, occidentali, diversamente infelici. A dispetto del titolo, tolstojano, il romanzo non ha a cuore la morale ma lo spirito; si sviluppa secondo una poetica affine a Goethe. Ciascun personaggio, cioè, raffigura un tipo: Delia, fotografa di guerra, è l'anima attiva; Freddy, il marito - a servizio di un matrimonio privo di ardore -, è l'anima contemplativa; Clara, la sorella di Delia, bellissima, ha un carattere anodino, sconfitto dalla noia, in disastro, «era la tipica persona che lo scrittore Milan Kundera avrebbe definito vandalo. Molto semplice, senza profondità da interpretare, trasparente nel modo di pensare e comportarsi, al punto da far credere a chi la conosceva per la prima volta che recitasse la parte dell'ingenua stupidina». Il viaggio in India - un'India che non ha i contorni della cartolina oleografica, ma i tratti della bella inquietudine - porterà i tre protagonisti a risorgere a se stessi. Tale percorso iniziatico non è esente da tragedie.

Zecchi non cede alle moine della narrativa d'intrattenimento: i dialoghi sono significativi, la finzione narrativa è via d'accesso al processo conoscitivo. Al lettore è chiesto di avventurarsi, di fiorire. In un libro che rimanda a tanti altri libri - quelli di Bruce Chatwin, quelli di Papa Ratzinger, ad esempio - l'immagine che si staglia su tutte è proprio quella dei fiori, «le vere aristocrazie della terra». I fiori, dice Freddy, durante un incontro all'apparenza mondano, «sono imprevedibili nel trovare i loro spazi per crescere oltre all'ordine che viene loro imposto. Hanno una propria vitale anarchia». Eludere l'ordine imposto, distinguere evanescenza da vanità, conferire maestà a ciò che è fragile: il fiore - come il tuono, come il fuoco - illumina, fugace.

Questo è un romanzo che impone il tema della bellezza - quella umilissima, invisibile, invisa -, che dà preminenza all'ascesi spirituale rispetto alle morgane della materia, della scienza - ed è, dunque, felicemente classico, fieramente reazionario.


Resurrezione Copertina rigida – 1 ottobre 2024
di Stefano Zecchi
Editore ‏ : ‎ Mondadori (1 ottobre 2024)
Lingua ‏ : ‎ Italiano
Copertina rigida ‏ : ‎ 240 pagine
ISBN-10 ‏ : ‎ 8804781092
ISBN-13 ‏ : ‎ 978-8804781097
Peso articolo ‏ : ‎ 630 g
Dimensioni ‏ : ‎ 15 x 2.5 x 22.7 cm

giovedì 27 febbraio 2025

"I velivoli del mistero" di Renato Vesco, un libro vintage sugli UFO

Rintracciato in una bancarella questo "I velivoli del mistero" di Renato Vesco, ufologo convinto della natura terrestre degli UFO. Renato Vesco era perito aereonautico ed è stato pilota nella seconda guerra mondiale. Era convinto che gli UFO fossero velivoli inglesi costruiti con i progetti trafugati al III Reich. Questa posizione lo aveva isolato dal resto della comunità ufologica italiana. Oltre a questo, Vesco ne aveva scritto altri due sullo stesso tema, tra cui "Intercettateli Senza Sparare. La Vera Storia Dei Dischi Volanti" che fu tradotto e pubblicato all'estero. Vi regaliamo alcune immagini del libro














sabato 8 febbraio 2025

SULLE ALCHIMIE PITTORICHE DI JULIUS EVOLA

tratto da L'Opinione del 21 maggio 2024


di Dalmazioe Frau(*)


In nessun altro campo dei suoi molteplici e profondi interessi, Julius Evola si è rivelato essere contraddittorio come in quello artistico. Contraddittorio verso sé stesso o verso i tanti, forse troppi, critici ed esegeti sorti soprattutto negli ultimi anni che invece non hanno sempre saputo cogliere alcuni passaggi significativi della produzione pittorica del più odiato “filosofo” italiano del Novecento? Se ancora molto ci sarebbe da dire e da scoprire sulle poche, relativamente poche dacché molte sono andate disperse, opere dipinte del Barone nero, ancora di più ci sarebbero da ripristinare alcuni dati inoppugnabili che collocano Evola non soltanto come il più importante – nonché unico – esponente del dadaismo italiano (seppur in ritardo sui tempi) ma come un “unicum”, un caso irripetibile che supera e trascende qualunque tentativo di categorizzazione e dunque di riduzione che miri a volerlo contenere in una determinata categoria artistica soprattutto se legata alle avanguardie novecentesche.

Partiamo da uno dei tanti opinabili punti: il tentativo di voler ricondurre e relegare la pittura evoliana allo schema obsolescente del già trascorso Movimento futurista. Tentare quest’operazione, ovvero sostenere che Evola fu “futurista” in quanto allievo di Giacomo Balla nel suo studio romano, sarebbe come affermare che Giotto di Bondone sia stato un pittore bizantineggiante e legato all’iconografia altomedievale in quanto allievo di Cimabue, oppure sostenere che Leonardo da Vinci sia stato non altro che il seguace pedissequo di Andrea del Verrocchio. I paragoni non sono impropri dacché Evola va pensato come un uomo della Rinascenza pagana e non soltanto come un nostro contemporaneo che avverte la “crisi del mondo moderno”. Crisi che egli ravvisa anche e soprattutto, forse, nell’arte, dopo il breve periodo nel quale di questa si occupa, sempre mantenendo una sorniona e distaccata ironia e il suo tipico, sarcastico senso dell’umorismo, che si traduce proprio in certe sue composizioni pittoriche.

Insomma, Evola si è preso gioco dei critici del suo tempo? Sarei propenso a ritenere di sì e anche che abbia continuato a farlo a lungo, persino durante la breve stagione del secondo dopoguerra nella quale riprese a dipingere, ripetendo opere già espresse. Evola fu un grande pittore? Tecnicamente no, l’uso delle velature appreso da Balla è spesso soltanto accennato a favore di un’irruenza di forme geometriche e di colori che rimandano alle dottrine filosofali d’oriente sino al pitagorismo, in una miscela decisamente “moderna” che consente all’artista di “cavalcare la tigre” e trasmettere di sé ciò che neppure lui conosce a colui che guarda in un oscuro messaggio iniziatico. Se Julius avesse realmente padroneggiato una tecnica pittorica tradizionale, il suo spirito sarebbe stato certamente più incline a manifestarla nell’ordine iconografico del “Realismo magico” del Gruppo Novecento.

Più intriganti sono decisamente i suoi “nudi”, legati a quella “metafisica del sesso” che tanti sopraccigli fece alzare per la sua peculiarità e profondità di analisi a quel tempo ben lontano dall’abbrutimento erotico attuale. Evola dunque non fu mai “futurista” anzi ne avversò il manifesto in maniera esplicita affermandone la sua natura “grezza” e se ne distaccò come non sarebbe potuto essere altrimenti e come egli stesso dichiarò nella sua autobiografia spirituale Il cammino del Cinabro. Le parole con le quali Julius pinctor definisce il fenomeno futurista non lasciano pertanto adito a dubbi, così come discutibile potrebbe essere l’accostamento della ricerca spirituale e mistica del Nostro, quando gli viene confrontato come quasi un suo parallelo, Vasilij Vasil’evič Kandinskij.

La spiritualità artistica dei dipinti di Kandisnkij è infatti totalmente diversa da quella eroica, alchemica, buddica e pagana rappresentata e al tempo stesso occulta, nelle opere di Evola. Insomma Evola non è un Kandinskij dimenticato nella Roma tra le due guerre, ma un caso talmente anomalo nel campo della storia dell’arte contemporanea da renderlo nel campo maestro, allievo e scuola a sé stante. La pittura evoliana, addirittura applicata alla decorazione e all’illustrazione, è pertanto anticipatrice in maniera preveggente di tutta una serie di rivoluzioni artistiche che vedranno la luce negli anni Sessanta del Novecento, con la Pop art e con la psichedelia, eppur nel contempo rimanendo fedele ai canoni della tradizione universale e perenne, immutabili come stella polare e altrettanto luminosi. Allora si renda omaggio a questo che fu un grande uomo che applicò il proprio ingegno con successo a molti differenti campi, pure restando fedele al grande silenzio che vuole l’artista scomparire, innominato e segreto, davanti alla propria opera, lasciando che i critici versino fiumi d’inchiostro mentre lui di certo ne ride, sogghignando e guardando la propria carovana passare verso il deserto più profondo.


(Da Fermenti n. 257, 2024)


(*) Tratto da Pagine Filosofali

martedì 21 gennaio 2025

"Sedute spiritiche" per comunicare con Alberto: l’ultimo segreto della regina Vittoria

tratto da "Il Giornale" del 3 Dicembre 2024 

Il dolore per la morte dell’amato marito avrebbe portato l’integerrima regina Vittoria a tradire il proprio ruolo istituzionale

di Francesca Rossi


La regina Vittoria (1819-1901), celebre per la sua dedizione al dovere e il rigore morale che caratterizzò non solo la sua personalità e la sua politica, ma l’intero periodo che da lei prese il nome, età vittoriana, avrebbe anteposto i propri sentimenti al ruolo ufficiale solo una volta nella vita. Sopraffatta dal dolore per la morte del principe consorte Alberto e contravvenendo alle regole e ai principi della Corona, la sovrana avrebbe cercato conforto in una pratica molto in voga all’epoca, sebbene totalmente priva di basi scientifiche e fin da subito dimostratasi pura illusione: lo spiritismo.


Un matrimonio riuscito

Per la regina Vittoria la scomparsa del marito, il principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha (1819-1861), rappresentò una sorta di spartiacque esistenziale. Da quel 14 dicembre 1861, quando Alberto morì di febbre tifoidea e congestione polmonare al Castello di Windsor (benché recenti studi abbiano avanzato l’ipotesi di un cancro ai polmoni), nulla fu più come prima.

La sovrana cedette alla sofferenza: decise di far chiudere per sempre gli appartamenti del consorte, ordinando che rimanessero inalterati, quasi cristallizzati al suo ultimo giorno di vita, come se si aspettasse davvero il ritorno di Alberto da uno dei suoi viaggi. Portò il lutto per il resto della sua vita (Vittoria sopravvisse quarant’anni ad Alberto) e scelse di ritirarsi quasi completamente dalla vita pubblica, pur continuando a svolgere i suoi doveri ufficiali.

La Regina aveva incontrato per la prima volta il principe, suo cugino di primo grado (la madre di Vittoria, Maria Luisa Vittoria di Sassonia-Coburgo-Saalfeld era la sorella del padre di Alberto, cioè Ernesto I di Sassonia-Coburgo-Gotha) nel 1836. Nonostante la diffidenza del governo e del popolo, date le origini tedesche di Alberto, i due si sposarono il 10 febbraio 1840.

Ebbero nove figli e Alberto si dimostrò un consigliere leale e intelligente, oltre che un marito premuroso e apparentemente non in competizione con la potente moglie (anche se su quest’ultimo punto il dibattito è ancora aperto). La loro fu un’unione riuscita, d’amore. Non vi fu il classico colpo di fulmine, bensì un sentimento che crebbe col tempo, dimostrandosi più solido di un diamante, inattaccabile.

Quando Alberto morì Vittoria si sentì improvvisamente sola, privata dell’unica persona che la conoscesse davvero. Con ogni probabilità ebbe davvero la sensazione che il mondo le cadesse addosso. Può sembrare esagerato, poiché le biografie ci restituiscono una Regina inflessibile e forte, eppure anche lei attraversò un momento di profonda fragilità emotiva, che non superò mai del tutto.

Proprio in questo frangente di sofferenza acuta, secondo il libro “Whisperers. The Secret History of the Spirit World” di James Herbert Brennan (2013), la regina Vittoria avrebbe compiuto un gesto inaspettato, chiedendo a un medium di mettersi in “contatto” con il mondo dei morti per tentare di “comunicare” con il principe Alberto.


Sedute spiritiche

Stando a Brennan Vittoria avrebbe organizzato delle sedute spiritiche credendo davvero di poter vedere e sentire ancora l’amato marito. All’epoca lo spiritismo, nato in Francia a metà Ottocento, era una pratica molto conosciuta e seguita. La presunzione di poter parlare con gli spiriti attraverso un “medium” affascinava le persone (accade ancora oggi), convincendole (ma sarebbe più giusto dire illudendole) che fosse possibile conoscere i segreti della vita dopo la morte e ritrovare, seppur per un breve momento, chi aveva ormai lasciato questo mondo. Sembra paradossale, ma allo spiritismo si dedicò persino Arthur Conan Doyle, il famoso creatore di Sherlock Holmes.

Naturalmente nessuno dei presunti “medium” e degli studiosi di questo particolare ambito dell’occultismo è mai riuscito a dimostrare l’esistenza di spiriti e, più in generale, di entità paranormali. Nessuno ha mai portato prove che fossero analizzabili dal punto di vista scientifico (il famoso divulgatore scientifico e illusionista James Randi mise in palio un milione di dollari nel suo “One Million Dollar Paranormal Challenge” per chi fosse riuscito a riprodurre un cosiddetto fenomeno paranormale in un contesto controllato: la ricompensa “attende” ancora un vincitore).

Al contrario, purtroppo, molti usarono (e continuano a usare) lo spiritismo e, in generale, le pratiche legate all’occultismo, per imbrogliare gli altri, facendo leva sulle loro debolezze. Il “medium” consultato dalla regina Vittoria avrebbe detto che sarebbe stato possibile mettersi in “contatto” con il defunto Alberto solo attraverso “il ragazzo che, di solito, portava la pistola [del principe] a Balmoral”, ovvero il valletto scozzese John Brown (1826-1883) al servizio della sovrana dal 1848.


Confidente o amante?

Brennan sostiene che la regina Vittoria avrebbe “parlato” con il defunto marito proprio attraverso John Brown il quale, dunque, sarebbe stato una sorta di tramite, di medium, durante le presunte sedute spiritiche. Brown, però, fu anche al centro di un altro mistero. Sulla stampa dell’epoca e nei salotti più frequentati si diffusero dei pettegolezzi secondo i quali dopo la morte del principe Alberto Vittoria e John sarebbero diventati amanti e si sarebbero perfino sposati in segreto, mettendo al mondo un figlio.

Storie mai suffragate da fatti che oggi gli storici considerano niente più di frottole. In quel momento, però, ebbero una grande eco, indebolendo ulteriormente l’istituzione monarchica già provata dal rigido lutto della regina Vittoria. In realtà sembra che John Brown fosse solo un confidente di Sua Maestà, invidiato per il favore regale ottenuto e, per questo, vittima di calunnie inventate allo scopo farlo cadere in disgrazia. Senza contare che l’amicizia tra un regnante e un servitore era, a priori, malvista, data la differenza di ceto sociale.

Le chiacchiere, però, non ebbero alcun effetto su Vittoria. Dopo la morte di Brown, nel marzo 1883, la sovrana lo definì “il più devoto dei servitori e il più sincero e caro degli amici…Forse mai nella Storia c’è stato un legame così forte e vero, un’amicizia così cordiale e affettuosa tra un sovrano e un servitore…”.


Vittoria e lo spiritismo

Impossibile dire se la Regina abbia davvero partecipato a delle sedute spiritiche. Allo stesso modo non tutti gli studiosi concordano sul suo presunto interesse verso l’occulto. Secondo Brennan Vittoria avrebbe lasciato delle pagine manoscritte sulla sua amicizia con Brown, ma sarebbero state nascoste o distrutte dalla royal family. Anche il carteggio tra il valletto e la Regina sarebbe stato definitivamente eliminato. Così, purtroppo, non sapremo mai se tra quelle righe Sua Maestà parlò anche delle sedute spiritiche per “contattare” il defunto Alberto, o se si tratti di semplici pettegolezzi.

Elizabeth Longford, studiosa e biografa della regina Vittoria, sosteneva che non esistesse alcun prova dell’interesse della sovrana nei confronti dello spiritismo, ma la storica Helen Rappaport ricorda che alla morte della monarca, nel 1901, sua figlia, la principessa Beatrice, avrebbe applicato una rigida censura sulle lettere e sui diari della madre. I motivi di questa revisione invasiva e davvero molto discutibile sono intuibili e, almeno per certi versi, comprensibili: i discendenti di Vittoria volevano lasciare ai posteri e alla Storia l’immagine di una sovrana impeccabile, conservatrice, tradizionalista, ligia al dovere. Dunque inattaccabile sotto ogni punto di vista.

Per quanto riguarda le sedute spiritiche, di cui comunque non abbiamo prove, c’è anche un ulteriore problema di non poco conto: la regina Vittoria, in quanto monarca britannica, era anche il Capo Supremo della Chiesa anglicana. Non poteva permettersi di scendere a compromessi con la superstizione e con pratiche che, in un altro momento storico, le sarebbero addirittura costate una condanna per stregoneria. Il compito di Sua Maestà era quello di tenere alti i principi del Cristianesimo e della Chiesa d'Inghilterra.

Cosa sarebbe accaduto se il popolo avesse saputo delle sedute spiritiche? Quanto sarebbe stato danneggiato l’Anglicanesimo? Nel libro “Queen Victoria. A Biographical Companion”, citato da Vanity Fair UK, la Rappaport ha scritto che la royal family voleva “assicurarsi che la reputazione di Vittoria sia come persona, sia come Capo della Chiesa d’Inghilterra, non venisse infangata dalla sopravvivenza, nei suoi scritti, di qualunque riferimento a pratiche religiose poco ortodosse”.

La Rappaport ha riportato anche un aneddoto molto interessante in proposito: sembra che in punto di morte il primo ministro Benjamin Disraeli (1804-1881) si sia rifiutato di ricevere Vittoria perché, disse, “vuole solo chiedermi di portare un messaggio ad Alberto”.


Il ruolo di John Brown

Dal punto di vista umano la fragilità di Vittoria a seguito della scomparsa del marito è un fatto del tutto normale, ma in quanto Regina, guida per il popolo, era necessario che mostrasse una parvenza di contegno, la regale impassibilità che contribuisce a rafforzare l’immagine della Corona.

In ogni caso rimane un dubbio: se davvero Sua Maestà ha organizzato delle sedute spiritiche, quale sarebbe stato davvero il ruolo di John Brown? Per quale ragione il medium consultato avrebbe individuato proprio nel valletto il “tramite” per arrivare al principe Alberto? Può darsi che sia trattato di un caso, ma data l’incertezza sull’intera vicenda non è possibile escludere un accordo tra Brown e il medium.

Siamo nel campo delle congetture, ma le opzioni non sono poi molte: forse il servitore credeva davvero nello spiritismo. O magari si sarebbe prestato al rito solo per compiacere la Regina. Ma potrebbe anche aver agito per prendersi gioco di lei, oppure per guadagnare un più ampio favore, diventando indispensabile a corte. Per quel poco che ne sappiamo del rapporto tra John e Vittoria, queste ultime due ipotesi sembrerebbero le meno probabili, ma non impossibili.


L’esorcismo della regina Elisabetta

Il caso della regina Vittoria e delle presunte sedute spiritiche parrebbe avere qualche punto in comune con una sorta di esorcismo che Elisabetta II avrebbe fatto praticare nel 2001, a Sandringham. La monarca, convinta che il Palazzo fosse infestato dal fantasma di Lady Diana, avrebbe chiesto l’esecuzione di un “rito” per “riportare la tranquillità”, come ha raccontato il giornalista Kenneth Rose nei suoi diari: “La dama di compagnia della sovrana mi disse che era stata invitata dalla Regina a Sandringham per assistere a una funzione condotta dal parroco locale in una delle stanze della residenza reale, quella in cui morì Re Giorgio VI nel 1952”, perché “infestata da uno spirito che rendeva impossibile il lavoro”.

Il parroco avrebbe spiegato lo strano fenomeno, sostenendo che “l’atmosfera potesse essere dovuta alla principessa Diana: cose simili potevano accadere quando qualcuno moriva di morte violenta”. Anche questo rituale, sebbene non confermato, si troverebbe in bilico tra ciò che è giusto e appropriato per un sovrano e ciò che non lo è.

La regina Elisabetta si è rivolta a un uomo di Chiesa, rimanendo nell’ambito della religione anglicana da un punto di vista formale, ma una monarca che sembrerebbe ammettere l’esistenza dei fantasmi e che cerca

di scacciarli (o di evocarli, come nel caso della regina Vittoria) rimane comunque una situazione controversa, un’ombra che deve rimanere confinata tra le mura del Palazzo, affinché non offuschi lo splendore della Corona.