in collaborazione con l'autore Michele Leone
tratto da: http://micheleleoneblog.blogspot.it/2013/05/meraviglioso-o-fantastico-limmaginario.html
La prima parte di un lavoro sull'estetica medievale ed i bestiari
MERAVIGLIOSO O FANTASTICO?
L'immaginario nella letteratura Medievale
In questa prima parte, si ritiene necessario definire la differenza tra meraviglioso e fantastico all'interno della letteratura medievale.
Questa distinzione è utile sia per il lavoro ermeneutico che verrà fatto sui bestiari, sia per definire con la maggior chiarezza possibile il concetto di meraviglioso.
"Il <<meraviglioso>>: si tratta in primo luogo di sapere che cosa noi intendiamo per meraviglioso e di capire in secondo luogo come gli uomini del Medioevo intendevano ed esprimevano quello che noi oggi chiamiamo meraviglioso. Nell'Occidente medievale esisteva un termine corrispondente. In ambiente colto era d'uso corrente nel Medioevo il termine mirabilis, che aveva più o meno lo stesso significato del nostro aggettivo. Dobbiamo tuttavia rilevare che i clerici del Medioevo a voler essere precisi non possedevano una categoria mentale, letteraria, intellettuale, che ricalchi esattamente quello che noi chiamiamo il meraviglioso. Al nostro <<meraviglioso>> corrisponde piuttosto il plurale, mirabilia. Se si può dunque riconoscere una continuità di interesse fra il Medioevo e noi per un medesimo fenomeno che chiamiamo <<il meraviglioso>>, dobbiamo osservare che là dove noi vediamo una categoria - una categoria dello spirito o della letteratura -, gli uomini colti del Medioevo e quelli che da loro ricevevano la propria informazione e formazione vi vedevano, certo, un universo - e questo è molto importante -, ma un universo di oggetti, una collezione più che una categoria"[1].
"Per la letteratura esemplare sembra più conveniente impiegare il termine meraviglioso, intendendo con esso la dimensione del sovrannaturale, sia esso folclorico o cristiano. Nella mentalità medievale il meraviglioso fa parte integrante dell'universo, si incontra e si confronta con la sfera dell'esperienza quotidiana, suscitando spesso effetti di un sublime grottesco. Il patto sotteso tra narratore e destinatario dei racconti esemplari, fondato sulla comune credenza nel sovrannaturale, elimina alla radice la possibilità di quella vertigine epistemologica, di quella <<crispation du rationalisme>>, in cui risiede il fascino peculiare della letteratura fantastica moderna. Posto di fronte ad un evento meraviglioso il lettore medievale deve decidere non già se esso sia verisimile, ma se esso ricada nella categoria dei mirabilia naturali, o non sia piuttosto un miracolo, o una diablerie, cioè un finto miracolo, costruito dalla scienza diabolica mediante la manipolazione dei processi naturali. Angeli, santi e demoni per dirla con Le Goff, sono le <<milizie cristiane del meraviglioso>>, alle quali spetta il compito di orientare e di rendere significativo l'ordine banale della vita quotidiana".[2]
Da questa pagina di Delcorno emerge un dato per noi fondamentale, quello della quotidianità del meraviglioso per l'uomo medievale. Quotidianità che dimostra l'esistenza di una mentalità del fantastico in generale e del meraviglioso in particolare. E se per Le Goff più che di categoria è opportuno parlare di universo, di collezione di oggetti, noi tenteremo di verificare, allora, se questo universo può essere una categoria. Lo scopo di questo capitolo è quello di far emergere l'"abitudine" mentale al meraviglioso, al fantastico negli uomini del Medioevo Occidentale.
" Il Medioevo non rinuncerà mai al fantastico. Vi ritorna senza posa nel corso della sua evoluzione, ora facendo rivivere le sue forme primitive, ora arricchendole con sistemi nuovi".[3]
Il fantastico può cambiare modo espressivo, si evolve, si trasforma e rimodella, ma è sempre presente nella cultura medievale". La rinascita dei cicli dell'Inferno, delle creature deformi, degli esseri favolosi che si moltiplicano nei Bestiari, nei margini dei manoscritti o nella decorazione scultorea, e il reintegrarsi di tutto un mondo fittizio all'interno del mondo vivente, alterano l'unità dei temi e dei princìpi della prima fase di questa genesi. Essi fanno rivivere allo stesso tempo le fonti che hanno sempre alimentato le fantasie e le leggende: l'Antichità classica e l'Oriente".[4] Dieci secoli nei quali possiamo individuare una sicura costante, questo universo che ha come prerogativa l'insolito e forse per questo motivo entra sì prepotentemente nel quotidiano.
Sul rapporto e sulle differenze tra il fantastico ed il meraviglioso nella letteratura del Medioevo Occidentale può essere interessante il discorso fatto da Poirion nell'introduzione al suo Il meraviglioso nella letteratura francese del Medioevo[5]: " Tuttavia i teorici del fantastico, nella loro <<poetica>>, hanno dato scarsa rilevanza alla féerie medievale. Northrop Frye, Roger Caillos, Tzvetan Todorov considerano lo strano e il meraviglioso come qualità marginali rispetto al fantastico, valorizzato dal mistero che introduce nella realtà.
Queste distinzioni risultano assai meno pertinenti se si cerca di utilizzarle per spiegare Chrétien de Troyes, Maria di Francia o il Lancelot en prose. In tal caso le opere qualificate come <<meravigliose>> (la parola meraviglia esprime spesso il giudizio dell'autore) corrispondono esattamente alle forme che, quando ricorrono nell'iconografia gotica, lo storico dell'arte Jurgis Baltrusaitis designa col termine di fantastiche. In effetti lo strano, il meraviglioso, il fantastico indicano lo stesso fenomeno, ma visto secondo le diverse prospettive della psicologia, della letteratura e dell'arte. Se poi consideriamo il fenomeno in se stesso, possiamo definirlo come la manifestazione di uno scarto culturale fra i valori di referenza, che servono a stabilire la comunicazione fra l'autore e il suo pubblico, e le qualità di un mondo altro. Dato che il nostro oggetto è la letteratura, ci serviremo del termine meraviglioso per designare la presenza di tale alterità nelle opere medievali, senza rinunciare, in parallelo, a cercare la percezione di una stranezza su cui si fonda o l'apertura verso un immaginario fantastico che le dà forma."[6].
Michele Leone
[1] J. Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell'Occidente medievale, Editori Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 5-6.
[2] C. Delcorno, Illusione diabolica e meraviglioso quotidiano nell'<<exemplum>> medievale, in Gli universi del fantastico, a c. di V. Branca e C. Ossola, Vallecchi Editore, Firenze 1988, pp. 238-239.
[3] J. Baltrusaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell'arte gotica, Adelphi, Milano 1994, p. 39.
[4] Idem.
[5] D. Poirion, Il meraviglioso nella letteratura francese del Medioevo, trad. it. di G. Zattoni Nesi, Giulio Einaudi editore, Torino 1988.
[6] Idem p. 3.
Blog dedicato ai misteri, esoterismo, antiche civiltà, leggende, Graal, Atlantide, ufo, magia
sabato 24 ottobre 2015
giovedì 22 ottobre 2015
Rieti e la sua ricchezza sotterranea
tratto da L'Opinione del 7 ottobre 2015 (http://www.opinione.it/cultura/2015/10/07/perricone_cultura-07-10.aspx)
di Gianluca Perricone
L’Italia è il Paese più bello del mondo perché ricco di testimonianze della propria storia, del proprio passato, delle proprie origini. E, a questo proposito, diverse città italiane “nascondono”, nel loro sottosuolo, le testimonianze di quelle che furono le loro origini. Ci è capitato di recente di esplorare i sotterranei di Rieti, nel Lazio, alle pendici del monte Terminillo: sotto alle vie dell’attuale centro cittadino si apre un mondo straordinario ed affascinante (www.rietidascoprire.it), fatto di volte, architravi, antichi vicoli, che conduce al viadotto romano e che aspetta di essere scoperto dai visitatori.
Anticamente occupata da un grande bacino, Rieti fu conquistata insieme al resto della regione sabina, nel 290 a.C. da Manio Curio Dentato. Le acque del fiume Velino, ricche di sostanze minerali, avevano nel corso dei secoli incrostato le rocce, creando una barriera travertinosa che impediva il deflusso delle stesse a valle. Il console romano fece eseguire il taglio delle Marmore, consentendo così al fiume di precipitare nel Nera e liberare la pianura di Rieti dalle acque del “lacus Velinus”. Questa importante opera idraulica, citata spesso nelle fonti antiche, è considerata uno degli interventi paesaggistici più interessanti e spettacolari della storia, che da una parte mise Reate in urto con Terni per i contrastanti interessi connessi alla regolamentazione delle acque del fiume Velino; dall’altra trasformò la città in un importante centro agricolo, naturale fornitore di Roma, “vocazione” che il capoluogo sabino non ha mai abbandonato nel corso dei secoli.
Dopo la conquista Rieti fu sempre molto legata a Roma e collegata ad essa dalla Salaria, la via più antica che usciva da Roma. La denominazione dell’importante arteria si deve alla sua funzione originaria che consentiva alla popolazioni dell’entroterra sabino e dell’agro reatino di raggiungere Roma per rifornirsi di sale nel Foro Boario, trasportato qui dalle saline della foce del Tevere ed alle popolazioni del Piceno di trasportare numerosi prodotti verso la capitale. Inizialmente la strada doveva giungere a Rieti, e solo successivamente venne prolungata fino all’Adriatico, in seguito all’assoggettamento del Piceno avvenuto nel 268 a.C.
L’ampliamento del percorso richiese un notevole dispendio di energie e di risorse economiche, se si pensa che per aprirsi un varco in direzione del mare, i romani furono costretti a realizzare subito dopo l’abitato di Interocrium (l’odierna Antrodoco) dei tagli verticali nelle rocce che ancora oggi caratterizzano le “gole del Velino”. In loco il fiume ha scavato una forra profondissima , forse la più selvaggia e suggestiva di tutto l’Appennino, dove è possibile ammirare il “Masso dell’Orso”, rupe tagliata dai romani per un’altezza di circa 30 metri e una lunghezza di 20 a perpendicolo sul fiume. Queste ed altre modifiche, furono necessarie per rendere la consolare Salaria, la principale via di comunicazione per l’intero territorio sabino, utilizzabile in qualsiasi periodo.
Insomma, proprio all’acqua sono state, nella storia, collegate le vicende del capoluogo sabino. L’abbondanza delle acque della città di Rieti infatti, e le ricorrenti piene del Fiume Velino, resero altresì necessaria la costruzione di un viadotto formato da fornici rampanti per elevare la Salaria. Questo manufatto, superando il fiume con un solido ponte in pietra dove sono ancora visibili i profondi solchi lasciati dalla ruote dei carri utilizzati per il trasporto del sale, permetteva alla strada di raggiungere la città sviluppatasi su una rupe, evitando allagamenti ed impaludamenti. La struttura inglobata nei sotterranei di alcune dimore patrizie reatine è formata da grandiosi fornici romani costruiti con enormi blocchi squadrati di travertino cavernoso, a sostegno del piano stradale.
Il rapporto tra Rieti e l’acqua è testimoniato anche dall’esistenza di quello che fu un porto fluviale posizionato sulla riva destra del fiume Velino e che veniva utilizzato per l’attracco delle barche che trasportavano granaglie dalla valle reatina ai sotterranei degli edifici citati. In loco, la presenza di archi ribassati testimonia i continui aumenti di livello delle rive del fiume, tesi ad evitare l’annoso problema delle inondazioni delle case. Nel passato infatti, le acque si addentravano per diversi metri lungo l’odierna via del Porto trasformandola in un canale navigabile. Così Rieti, con stretti canali formati da case torre appoggiate al viadotto romano, si trasformava in un piccola “Venezia di acqua dolce” per poi tornare, per brevi periodi, alla percorribilità delle sue strade. Una interazione in continua evoluzione del rapporto città-acqua-fiume-viadotto romano e le cui testimonianze sono ancora evidenti nel meraviglioso mondo sotterraneo della città.
di Gianluca Perricone
Anticamente occupata da un grande bacino, Rieti fu conquistata insieme al resto della regione sabina, nel 290 a.C. da Manio Curio Dentato. Le acque del fiume Velino, ricche di sostanze minerali, avevano nel corso dei secoli incrostato le rocce, creando una barriera travertinosa che impediva il deflusso delle stesse a valle. Il console romano fece eseguire il taglio delle Marmore, consentendo così al fiume di precipitare nel Nera e liberare la pianura di Rieti dalle acque del “lacus Velinus”. Questa importante opera idraulica, citata spesso nelle fonti antiche, è considerata uno degli interventi paesaggistici più interessanti e spettacolari della storia, che da una parte mise Reate in urto con Terni per i contrastanti interessi connessi alla regolamentazione delle acque del fiume Velino; dall’altra trasformò la città in un importante centro agricolo, naturale fornitore di Roma, “vocazione” che il capoluogo sabino non ha mai abbandonato nel corso dei secoli.
Dopo la conquista Rieti fu sempre molto legata a Roma e collegata ad essa dalla Salaria, la via più antica che usciva da Roma. La denominazione dell’importante arteria si deve alla sua funzione originaria che consentiva alla popolazioni dell’entroterra sabino e dell’agro reatino di raggiungere Roma per rifornirsi di sale nel Foro Boario, trasportato qui dalle saline della foce del Tevere ed alle popolazioni del Piceno di trasportare numerosi prodotti verso la capitale. Inizialmente la strada doveva giungere a Rieti, e solo successivamente venne prolungata fino all’Adriatico, in seguito all’assoggettamento del Piceno avvenuto nel 268 a.C.
L’ampliamento del percorso richiese un notevole dispendio di energie e di risorse economiche, se si pensa che per aprirsi un varco in direzione del mare, i romani furono costretti a realizzare subito dopo l’abitato di Interocrium (l’odierna Antrodoco) dei tagli verticali nelle rocce che ancora oggi caratterizzano le “gole del Velino”. In loco il fiume ha scavato una forra profondissima , forse la più selvaggia e suggestiva di tutto l’Appennino, dove è possibile ammirare il “Masso dell’Orso”, rupe tagliata dai romani per un’altezza di circa 30 metri e una lunghezza di 20 a perpendicolo sul fiume. Queste ed altre modifiche, furono necessarie per rendere la consolare Salaria, la principale via di comunicazione per l’intero territorio sabino, utilizzabile in qualsiasi periodo.
Insomma, proprio all’acqua sono state, nella storia, collegate le vicende del capoluogo sabino. L’abbondanza delle acque della città di Rieti infatti, e le ricorrenti piene del Fiume Velino, resero altresì necessaria la costruzione di un viadotto formato da fornici rampanti per elevare la Salaria. Questo manufatto, superando il fiume con un solido ponte in pietra dove sono ancora visibili i profondi solchi lasciati dalla ruote dei carri utilizzati per il trasporto del sale, permetteva alla strada di raggiungere la città sviluppatasi su una rupe, evitando allagamenti ed impaludamenti. La struttura inglobata nei sotterranei di alcune dimore patrizie reatine è formata da grandiosi fornici romani costruiti con enormi blocchi squadrati di travertino cavernoso, a sostegno del piano stradale.
Il rapporto tra Rieti e l’acqua è testimoniato anche dall’esistenza di quello che fu un porto fluviale posizionato sulla riva destra del fiume Velino e che veniva utilizzato per l’attracco delle barche che trasportavano granaglie dalla valle reatina ai sotterranei degli edifici citati. In loco, la presenza di archi ribassati testimonia i continui aumenti di livello delle rive del fiume, tesi ad evitare l’annoso problema delle inondazioni delle case. Nel passato infatti, le acque si addentravano per diversi metri lungo l’odierna via del Porto trasformandola in un canale navigabile. Così Rieti, con stretti canali formati da case torre appoggiate al viadotto romano, si trasformava in un piccola “Venezia di acqua dolce” per poi tornare, per brevi periodi, alla percorribilità delle sue strade. Una interazione in continua evoluzione del rapporto città-acqua-fiume-viadotto romano e le cui testimonianze sono ancora evidenti nel meraviglioso mondo sotterraneo della città.
giovedì 15 ottobre 2015
I SENTIERI DI SAN MICHELE
Culti micaelici e antica viabilità sui monti del Chianti
di R. Centri e L. Pecchioni
Sui monti del Chianti il nome di San Michele Arcangelo ritorna costantemente, caratterizzando chiese, eremi, torrenti e la vetta stessa della catena: Monte San Michele, che fino all’inizio del novecento era meta di processioni devozionali. Il contesto geografico è reso coerente dall’esistenza di una strada antichissima, che rappresentava nel medioevo un importante itinerario per i pellegrini e un punto di riferimento per le transumanze. Di essa rimane un avvincente intreccio di sentieri, ricchi di curiosità e scorci suggestivi: un patrimonio culturale che aspetta da molto tempo di essere riscoperto, sia in senso archeologico, sia semplicemente turistico.
Proprio in Chianti, in un eremo dedicato a San Michele, esattamente settecento anni fa nasceva una confraternita le cui costituzioni si sarebbero diffuse in buona parte dell’occidente europeo. I monaci, solo in seguito definiti girolamini, scelsero questi luoghi per rifugiarsi sotto la protezione dell’Arcangelo, come fecero già molti eremiti in precedenza. Per gli autori del presente volume l’anniversario è stato uno stimolo a procedere in una ricerca specificamente dedicata ai culti e alle titolazioni micaeliche del Chianti, argomento raramente affrontato in modo esteso.
tra gli argomenti trattati:
VIABILITÀ E PROPOSTE SENTIERISTICHE
SAN MICHELE NELLE DONAZIONI PRO-ANIMA
I LONGOBARDI E LE TITOLAZIONI A SAN MICHELE
L'ABBAZIA DI SAN PIETRO E SAN MICHELE DE' MONTI
MONTEDOMINI E ORSANMICHELE
LE TRADIZIONI MICAELICHE TRA IL XVII E IL XIX SECOLO
(...)
di R. Centri e L. Pecchioni
Sui monti del Chianti il nome di San Michele Arcangelo ritorna costantemente, caratterizzando chiese, eremi, torrenti e la vetta stessa della catena: Monte San Michele, che fino all’inizio del novecento era meta di processioni devozionali. Il contesto geografico è reso coerente dall’esistenza di una strada antichissima, che rappresentava nel medioevo un importante itinerario per i pellegrini e un punto di riferimento per le transumanze. Di essa rimane un avvincente intreccio di sentieri, ricchi di curiosità e scorci suggestivi: un patrimonio culturale che aspetta da molto tempo di essere riscoperto, sia in senso archeologico, sia semplicemente turistico.
Proprio in Chianti, in un eremo dedicato a San Michele, esattamente settecento anni fa nasceva una confraternita le cui costituzioni si sarebbero diffuse in buona parte dell’occidente europeo. I monaci, solo in seguito definiti girolamini, scelsero questi luoghi per rifugiarsi sotto la protezione dell’Arcangelo, come fecero già molti eremiti in precedenza. Per gli autori del presente volume l’anniversario è stato uno stimolo a procedere in una ricerca specificamente dedicata ai culti e alle titolazioni micaeliche del Chianti, argomento raramente affrontato in modo esteso.
tra gli argomenti trattati:
VIABILITÀ E PROPOSTE SENTIERISTICHE
SAN MICHELE NELLE DONAZIONI PRO-ANIMA
I LONGOBARDI E LE TITOLAZIONI A SAN MICHELE
L'ABBAZIA DI SAN PIETRO E SAN MICHELE DE' MONTI
MONTEDOMINI E ORSANMICHELE
LE TRADIZIONI MICAELICHE TRA IL XVII E IL XIX SECOLO
(...)
giovedì 8 ottobre 2015
Il mistero Gesù
Dove visse Gesù durante l’adolescenza e la maturità, prima di ricomparire, a trent’anni, sulla scena pubblica?
Quelle arcane vicende sono andate veramente così come le hanno narrate i quattro Evangelisti Luca, Marco, Matteo e Giovanni?
Il Cristo sopravvisse alla crocifissione?
Si recò sul serio nel lontanissimo Ladakh ove ancor oggi è visitabile la Tomba di Issa, un predicatore che proveniva dalla Terra Santa?
Che cosa è realmente la Sindone e come si è formata quell’immagine che ricorda il corpo inanime di un uomo?
Chi era quello sventurato “imitatore” di Gesù che rispondeva al nome di Simon Mago?
Chi erano, da dove provenivano – e soprattutto! – quanti erano i Magi che avrebbero portato i doni al Divin fanciullo?
Questo libro è una buona occasione per conoscere qualcosa in più sul personaggio che ha segnato la storia.
Il Golgota racconta. Nascita, «anni perduti», presunti miracoli e morte sulla croce di Gesù
di Roberto Volterri
Scipioni Editore - Valentano (VT)
Quelle arcane vicende sono andate veramente così come le hanno narrate i quattro Evangelisti Luca, Marco, Matteo e Giovanni?
Il Cristo sopravvisse alla crocifissione?
Si recò sul serio nel lontanissimo Ladakh ove ancor oggi è visitabile la Tomba di Issa, un predicatore che proveniva dalla Terra Santa?
Che cosa è realmente la Sindone e come si è formata quell’immagine che ricorda il corpo inanime di un uomo?
Chi era quello sventurato “imitatore” di Gesù che rispondeva al nome di Simon Mago?
Chi erano, da dove provenivano – e soprattutto! – quanti erano i Magi che avrebbero portato i doni al Divin fanciullo?
Questo libro è una buona occasione per conoscere qualcosa in più sul personaggio che ha segnato la storia.
Il Golgota racconta. Nascita, «anni perduti», presunti miracoli e morte sulla croce di Gesù
di Roberto Volterri
Scipioni Editore - Valentano (VT)
128 pagine
sabato 3 ottobre 2015
“Massoneria e Mediterraneo”
trattoa da "L'Opinione" del 29 settembre 2015 (http://www.opinione.it/cultura/2015/09/29/fossati_cultura-29-09.aspx)
di Gianni Fossati
Vi sono libri che valgono per un titolo che definisce il loro contenuto con una chiarezza implacabile, “Massoneria e Mediterraneo” di Francesca Parisi a cura di Luigi Danesin è molto di più: un testo che approfondisce con rigore i rapporti dell’area del mediterraneo e dei Paesi che vi si affacciano. Un approccio particolare nel quale circola aria nuova e prospettive coraggiose ma reali, nonostante la complessità della materia, in un contesto spesso caratterizzato da un linguaggio che si attarda su considerazioni non sempre supportate da rigore scientifico.
Il libro, uscito in questi giorni per i tipi di Editoriale Programma, prende le mosse dalla felice intuizione del Prof. Franco Franchi già Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia convinto che al tramonto del secondo millennio fosse giunto il momento di rivolgere l’attenzione al Mare Nostrum per risalire alla nostra matrice comune. Questo anche il senso della prefazione di Luigi Danesin che non a casa annette particolare importanza all’Università intesa anche come luogo di formazione dei giovani e della classe dirigente.
D’altra parte ciò che contorna questo grande bacino chiuso in un “habitat” che ha dato origine a civiltà che costituiscono la base stessa della nostra cultura occidentale. L’autrice ha avuto la capacità di offrire al lettore un quadro sufficientemente ampio e diversificato del ruolo che la voce popolare e certa storiografia ha ignorato sul ruolo che la Massoneria ha svolto dal punto di vista geopolitico.
L’affacciarsi di espressioni puntuali riconducibili all’Unione Massonica del Mediterraneo come concreta azione delle Obbedienze Liberali che si affacciano su quelle sponde sembrano condividere la volontà di ricercare la dimensione utile per valorizzare il processo di globalizzazione e ricomporre un tessuto di civile convivenza tra nazioni che si riconoscono in una particolare identità.
Naturalmente non vi è che non veda come la situazione attuale renda utopiche alcune visioni dopo le speranze della Primavera araba che si è trasformata in una stagione di conflitti e di profonde inquietanti incertezze sul corso di una storia che troppo facilmente avevamo creduto avviata verso un progresso in termini di democrazia e diritti. Tuttavia, obiettivo dell’istituzione massonica è proprio quello di superare barriere altrimenti insormontabili.
In questo senso, il richiamo ad Alain de Keghel, già Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Grande Oriente di Francia, appare illuminante rispetto alle sfide del terzo millennio che sembrano quasi impossibili ma sorrette da Franz Kafka, uno dei tragici protagonisti del Novecento europeo: “La vita non cessa d’insegnare, suo malgrado, che non si può mai salvare qualcuno se non con una presenza, e con nient’atro”.
Il bacino del Mediterraneo è tutt’ora distante dall’essere una zona omogenea, esistono infinite disparità che marcano i due mondi e il lavoro da compiere è assai rilevante tuttavia,ancora una volta, come nella esperienza del XVIII secolo l’istituzione di squadra e compasso potrebbe rappresentare un punto di incontro privilegiato dove in nome della tolleranza potrebbero prendere corpo condizioni che consentono di elaborare progetti a misura d’uomo utili alla pacificazione dei popoli.
di Gianni Fossati
Il libro, uscito in questi giorni per i tipi di Editoriale Programma, prende le mosse dalla felice intuizione del Prof. Franco Franchi già Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia convinto che al tramonto del secondo millennio fosse giunto il momento di rivolgere l’attenzione al Mare Nostrum per risalire alla nostra matrice comune. Questo anche il senso della prefazione di Luigi Danesin che non a casa annette particolare importanza all’Università intesa anche come luogo di formazione dei giovani e della classe dirigente.
D’altra parte ciò che contorna questo grande bacino chiuso in un “habitat” che ha dato origine a civiltà che costituiscono la base stessa della nostra cultura occidentale. L’autrice ha avuto la capacità di offrire al lettore un quadro sufficientemente ampio e diversificato del ruolo che la voce popolare e certa storiografia ha ignorato sul ruolo che la Massoneria ha svolto dal punto di vista geopolitico.
L’affacciarsi di espressioni puntuali riconducibili all’Unione Massonica del Mediterraneo come concreta azione delle Obbedienze Liberali che si affacciano su quelle sponde sembrano condividere la volontà di ricercare la dimensione utile per valorizzare il processo di globalizzazione e ricomporre un tessuto di civile convivenza tra nazioni che si riconoscono in una particolare identità.
Naturalmente non vi è che non veda come la situazione attuale renda utopiche alcune visioni dopo le speranze della Primavera araba che si è trasformata in una stagione di conflitti e di profonde inquietanti incertezze sul corso di una storia che troppo facilmente avevamo creduto avviata verso un progresso in termini di democrazia e diritti. Tuttavia, obiettivo dell’istituzione massonica è proprio quello di superare barriere altrimenti insormontabili.
In questo senso, il richiamo ad Alain de Keghel, già Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Grande Oriente di Francia, appare illuminante rispetto alle sfide del terzo millennio che sembrano quasi impossibili ma sorrette da Franz Kafka, uno dei tragici protagonisti del Novecento europeo: “La vita non cessa d’insegnare, suo malgrado, che non si può mai salvare qualcuno se non con una presenza, e con nient’atro”.
Il bacino del Mediterraneo è tutt’ora distante dall’essere una zona omogenea, esistono infinite disparità che marcano i due mondi e il lavoro da compiere è assai rilevante tuttavia,ancora una volta, come nella esperienza del XVIII secolo l’istituzione di squadra e compasso potrebbe rappresentare un punto di incontro privilegiato dove in nome della tolleranza potrebbero prendere corpo condizioni che consentono di elaborare progetti a misura d’uomo utili alla pacificazione dei popoli.
mercoledì 30 settembre 2015
Appunti per un articolo su Castel del Monte
in collaborazione con l'autore Michele Leone
tratto da: http://micheleleoneblog.blogspot.it/2015/04/appunti-per-un-articolo-su-castel-del.html
Attraversato il portale, il percorso è praticamente obbligato. L’obbligatorietà del percorso, i giochi delle luci e degli accadimenti astronomici lo rendono assai simile ad un labirinto, anzi, lo rendono un labirinto. Labirinto nella sua accezione classica ossia unicursale al pari di quelli rappresentati in molteplici cattedrali e non solo. E nel labirinto, non solo la luce anche le ombre a ricorrersi, a creare una opportunità di scelta, una necessità nel cammino. L’ombra e la luce, destrutturate da ogni valenza morale, sono parte del percorso. Ed ecco che bisogna camminare sul bianco e sul nero, a memoria del massonico pavimento a scacchi, per giungere non alla meta ma solo al passo successivo. La meraviglia ed il senso ritornano forti, perché ad un certo punto, mentre si cammina e si sale bisogna sentire ed utilizzare i sensi quelli fisici e quelli dello spirito. E meravigliarsi di quanto è in noi di luce e tenebra. Ecco allora cosa potrebbe essere, tra le altre cose Castel del Monte un labirinto e in quanto labirinto mandala, in quanto mandala può rimandare allora ad un fiore e se fiore deve essere sia rosa. Se è rosa, non può che essere la Rosa, quella degli iniziati che da un lato genererà i filosofi Rosa+Croce e dall’altro rimanderà ai custodi del Graal. Graal che secondo alcune leggende qui sarebbe custodito.
Gioia – Salute - Prosperità
© Michele Leone
tratto da: http://micheleleoneblog.blogspot.it/2015/04/appunti-per-un-articolo-su-castel-del.html
Attraversato il portale, il percorso è praticamente obbligato. L’obbligatorietà del percorso, i giochi delle luci e degli accadimenti astronomici lo rendono assai simile ad un labirinto, anzi, lo rendono un labirinto. Labirinto nella sua accezione classica ossia unicursale al pari di quelli rappresentati in molteplici cattedrali e non solo. E nel labirinto, non solo la luce anche le ombre a ricorrersi, a creare una opportunità di scelta, una necessità nel cammino. L’ombra e la luce, destrutturate da ogni valenza morale, sono parte del percorso. Ed ecco che bisogna camminare sul bianco e sul nero, a memoria del massonico pavimento a scacchi, per giungere non alla meta ma solo al passo successivo. La meraviglia ed il senso ritornano forti, perché ad un certo punto, mentre si cammina e si sale bisogna sentire ed utilizzare i sensi quelli fisici e quelli dello spirito. E meravigliarsi di quanto è in noi di luce e tenebra. Ecco allora cosa potrebbe essere, tra le altre cose Castel del Monte un labirinto e in quanto labirinto mandala, in quanto mandala può rimandare allora ad un fiore e se fiore deve essere sia rosa. Se è rosa, non può che essere la Rosa, quella degli iniziati che da un lato genererà i filosofi Rosa+Croce e dall’altro rimanderà ai custodi del Graal. Graal che secondo alcune leggende qui sarebbe custodito.
Gioia – Salute - Prosperità
© Michele Leone
sabato 26 settembre 2015
Sindone, il «giallo» del rattoppo sfuggito agli esperti
tratto da "il Giornale" del 11-04-2009
di Redazione
Ventuno anni dopo la datazione al radiocarbonio, la Sindone di Torino, che l’anno prossimo sarà di nuovo esposta, rimane un mistero. Nessuno è in grado di spiegare come quella immagine si sia formata, e la stessa datazione al medioevo è stata messa in dubbio dalle più recenti scoperte scientifiche. Va in onda alle 18 di questa sera, su Retequattro (con replica domani, giorno di Pasqua, alle 9 di mattina), Il mistero della Sindone, un documentario che presenta con immagini esclusive e tridimensionali gli studi più accreditati sul lenzuolo che secondo la tradizione avvolse il corpo di Gesù rimasto per tre giorni nel sepolcro. Particolarmente interessante è l’intervista a Raymond Rogers, uno degli studiosi coinvolti negli esperimenti al radiocarbonio eseguiti nell’88, scomparso nel 2005 e fino a pochi anni prima convintissimo sostenitore della datazione medioevale. Rogers prima di morire pubblicò su una rivista scientifica e testimoniò in un video le sue ultime ricerche e il motivo che gli aveva fatto cambiare idea. Lo studioso ha potuto provare che proprio nell’angolo della Sindone da dove erano stati prelevati i tre campioni analizzati al radiocarbonio era stato eseguito, tra XIV e XV secolo, un rammendo. I risultati di Rogers sono stati confermati nell’agosto scorso da Roberto Villareal, del laboratorio di Los Alamos, che ha dimostrato come su quel campione di Sindone siano presenti fili di lino e di cotone intrecciati con l’aggiunta di una sostanza gommosa. Dunque la presenza di materiale molto più recente ha falsato l’esperimento, come attesta il documentario e come si può leggere nell’ultimo libro sull’argomento, Inchiesta sulla Sindone (Piemme) scritto dal vaticanista Marco Tosatti.
di Redazione
Ventuno anni dopo la datazione al radiocarbonio, la Sindone di Torino, che l’anno prossimo sarà di nuovo esposta, rimane un mistero. Nessuno è in grado di spiegare come quella immagine si sia formata, e la stessa datazione al medioevo è stata messa in dubbio dalle più recenti scoperte scientifiche. Va in onda alle 18 di questa sera, su Retequattro (con replica domani, giorno di Pasqua, alle 9 di mattina), Il mistero della Sindone, un documentario che presenta con immagini esclusive e tridimensionali gli studi più accreditati sul lenzuolo che secondo la tradizione avvolse il corpo di Gesù rimasto per tre giorni nel sepolcro. Particolarmente interessante è l’intervista a Raymond Rogers, uno degli studiosi coinvolti negli esperimenti al radiocarbonio eseguiti nell’88, scomparso nel 2005 e fino a pochi anni prima convintissimo sostenitore della datazione medioevale. Rogers prima di morire pubblicò su una rivista scientifica e testimoniò in un video le sue ultime ricerche e il motivo che gli aveva fatto cambiare idea. Lo studioso ha potuto provare che proprio nell’angolo della Sindone da dove erano stati prelevati i tre campioni analizzati al radiocarbonio era stato eseguito, tra XIV e XV secolo, un rammendo. I risultati di Rogers sono stati confermati nell’agosto scorso da Roberto Villareal, del laboratorio di Los Alamos, che ha dimostrato come su quel campione di Sindone siano presenti fili di lino e di cotone intrecciati con l’aggiunta di una sostanza gommosa. Dunque la presenza di materiale molto più recente ha falsato l’esperimento, come attesta il documentario e come si può leggere nell’ultimo libro sull’argomento, Inchiesta sulla Sindone (Piemme) scritto dal vaticanista Marco Tosatti.
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