giovedì 22 agosto 2024

La prima edizione del libro sullo Spiritismo di Allan Kardec (1884)

in collaborazione con Simone Berni: https://www.cacciatoredilibri.com/la-prima-edizione-di-questo-libro-sullo-spiritismo-di-allan-kardec-1884/


Che cosa è lo Spiritismo?: introduzione alla conoscenza del mondo invisibile per mezzo delle manifestazioni spiritiche, contenente il riassunto dei principii della Dottrina spiritica e la risposta alle principali obbiezioni, di Allan Kardec; traduzione italiana di Giovanni Hoffmann (Torino, UTET, 1884).


Prima traduzione italiana di “Qu’est-ce que le Spiritisme“, inizialmente pubblicata in Francia nel 1859. Questo libro contiene una sintesi dei principi della dottrina spiritica e le risposte alle principali obiezioni. Allan Kardec, o Alan Kardec, vero nome Hippolyte Léon Denizard Rivail, nato il 3 ottobre 1804 e morto il 31 marzo 1869, è stato un educatore francese, fondatore della filosofia spirituale o spiritismo. È generalmente soprannominato il “codificatore dello spiritismo”. La copia qui presa ad esempio dell’edizione conserva la bellissima copertina originale della casa editrice.


Allan Kardec: L’architetto dello Spiritismo

Tutto comincia in una Francia turbolenta del XIX secolo, quando un pedagogista e filosofo, di nome Hippolyte Léon Denizard Rivail, notevolemente stimato nell’ambito educativo, si immerge nelle acque non esplorate dello spiritismo. Alla gente comune, Rivail è meglio conosciuto come Allan Kardec, il pseudonimo che adotta nel suo percorso di scoperta dello spiritismo.

Kardec nasce a Lione il 3 ottobre 1804 e, fin dalla giovane età, abbraccia la disciplina pedagogica sotto la guida del celebre Johann Heinrich Pestalozzi in Svizzera. Con il passare degli anni, diventa non solo un estimatore, ma anche un importante collaboratore di Pestalozzi, contribuendo alla riforma dell’educazione in Francia e Germania.

Tuttavia, la vera passione di Allan Kardec nasce nel 1854, quando prende forma il suo interesse per lo spiritismo. In un’epoca in cui la maggior parte delle persone accetta ciecamente la spiegazione del magnetismo animale per i fenomeni di spiriti, Kardec pensa diversamente. Ritiene infatti che questa interpretazione sia insoddisfacente e inizia a lavorare su una propria teoria.

Dedicando gli ultimi anni della sua vita alla sistematizzazione dello spiritismo, Kardec si distingue per il suo straordinario impegno nel cercare di elaborare un sistema di pensiero in cui le manifestazioni spirituali potessero contribuire alla trasformazione sociale e morale dell’umanità.

Il suo lavoro culmina in una serie di componimenti, che diventano ben presto la pietra angolare della filosofia spiritista. L’opera principale, conosciuta come “Il Libro degli Spiriti“, fornisce una spiegazione strutturata e pertinente degli enigmi dello spirito e del mondo invisibile che ci circonda.

Ma chi era l’uomo dietro il pedagogista? Il 6 febbraio 1832, si unisce in matrimonio con Amélie Gabrielle Boudet. Insieme, condividono non solo una vita, ma anche la passione per l’insegnamento e l’educazione. La coppia fonda un negozio pedagogico a Parigi simile a quello di Yverdon.

Dal punto di vista professionale, Kardec è un uomo di molti talenti. Traduttore, educatore, filosofo e, infine, il codificatore dello spiritismo. Tuttavia, al di sopra di tutto, è un uomo con una visione e un obiettivo: portare una trasformazione nel modo in cui l’umanità percepisce il divino e l’invisibile.

Allan Kardec muore il 31 marzo 1869, ma il suo lascito supera la sua morte. Oggi, è ricordato come il fondatore dello spiritismo, una dottrina che ha avuto un impatto enorme su un’ampia gamma di discipline, dalla filosofia alla medicina, e continua a farlo.

venerdì 9 agosto 2024

I dolori, le messe nere, i tribunali speciali: cosa fu l'Affare dei Veleni del Re Sole

tratto da "Il Giornale" del 3 Ottobre 2023

Avvelenamenti, omicidi, messe nere. Sono questi gli elementi inquietanti di uno degli scandali più terribili della Storia, capace di macchiare in modo indelebile il regno di Luigi XIV, gettando ombre sinistre perfino sui personaggi più in vista alla corte di Versailles

di Francesca Rossi


L’Affare dei Veleni (1679-1682) è una di quelle pagine del passato agghiaccianti che, pur essendo di grande interesse storico, di solito non vengono studiate a scuola. Eppure, oltre a essere uno scandalo senza precedenti alla corte di Luigi XIV, poiché coinvolse diversi membri altolocati della corte, fece emergere tutte le debolezze del mondo dorato creato dal Re Sole per controllare i nobili francesi. In un certo senso l’Affare dei Veleni fu un fallimento politico e personale del sovrano.


Prima dell’inizio: la morte di Enrichetta d’Inghilterra

Nella primavera del 1670 Enrichetta Anna d’Inghilterra (1644-1670), cognata di Luigi XIV (aveva sposato il fratello del Re, Filippo duca d’Orléans), iniziò a lamentarsi a causa di strani dolori al fianco. Con il passare del tempo questi fastidi si estesero all’apparato digerente, tanto da renderle molto difficile mangiare. Il 29 giugno di quell’anno, dicono gli storici, durante il suo soggiorno a Saint Cloud, Enrichetta bevve un bicchiere d’acqua di cicoria fredda.

Non sappiamo se e in che misura quest’ultimo dettaglio abbia influito o meno su ciò che accadde subito dopo, ma è bene tenerlo a mente. Dopo aver bevuto, infatti, la cognata del Re si sentì malissimo. Sosteneva di avere dolori al fianco ed era convinta che qualcuno l’avesse avvelenata. I medici di corte tentarono di curarla, ma non vi fu niente da fare: Enrichetta morì il 30 giugno 1670. Tra i cortigiani si mormorava che fosse stata assassinata dal Cavaliere di Lorena, amante del duca d’Orléans e, per questo, nemico giurato della duchessa, che era riuscita anche a farlo esiliare per un periodo. I dubbi e i pettegolezzi non si indebolirono neppure quando l’autopsia rivelò che la morte era da imputare a una gastroenterite.

Stando alle ricostruzioni il Re Sole avrebbe interrogato di persona il maggiordomo del fratello, il quale gli avrebbe rivelato che Enrichetta era stata davvero avvelenata dal cavaliere di Lorena. Benché quest’ultimo avesse un movente molto forte, non possiamo dire con certezza che avvelenò Enrichetta d’Inghilterra. Anzi, non possiamo affatto sostenere che la duchessa fu uccisa. Secondo gli studi più recenti la cognata del Re potrebbe essere morta di peritonite. C’è anche chi sostiene che fosse malata da molto tempo. Perché, allora, Enrichetta gridò di essere stata avvelenata? Potrebbe essere stata una semplice suggestione. La nobildonna sapeva di avere dei nemici e di doversi guardare le spalle.

Anche i cortigiani insistettero sulla tesi dell’avvelenamento, ma non certo perché avessero delle prove. In quell’epoca, infatti, non era raro che invidie, gelosie, vendette venissero risolte, “aiutate”, per così dire, dall’omicidio. Dall’avvelenamento in particolare. Forse la morte di Enrichetta d’Inghilterra non ha nulla a che vedere con tutto questo, ma rende bene il clima sospettoso, di pericolo di quegli anni e per questo può essere una specie di preludio a quello che accadde tra il 1679 e il 1682.


Il Vaso di Pandora

Paradossalmente fu una morte accidentale e non un avvelenamento ad aprire il Vaso di Pandora. Il 31 luglio 1672, infatti, l’avventuriero appassionato di alchimia Jean Baptiste Godin de Sainte Croix morì nel suo laboratorio, forse a causa di un esperimento malriuscito. L’uomo aveva così tanti debiti che i suoi creditori chiesero un inventario dei beni, sperando di riuscire a recuperare il loro denaro. Tra i suoi oggetti venne trovato uno scrigno di pelle rossa accompagnato da un biglietto su cui era stato scritto: “Da aprire solo in caso di morte precedente a quella della marchesa”.

Gli ispettori incaricati dell’inventario scoprirono che l’aristocratica a cui si riferiva Saint Croix era Marie Madeleine d’Aubray, marchesa di Brinvilliers. Nel cofanetto, infatti, erano custodite delle lettera inviate da quest’ultima all’alchimista, di cui era amante. Ma la scoperta vera fu un’altra: in quelle missive la marchesa ammetteva di aver ucciso il padre, due fratelli con l’acqua tofana, per prendersi la loro eredità. Non solo: accanto alle lettere vi era anche una fiala di veleno.

Marie Madeleine, condannata in contumacia nel 1673 e braccata dalla polizia, fuggì in Inghilterra, ma poi decise di nascondersi in un convento di Liegi nel 1673 (all’epoca non c’era estradizione nei luoghi di culto). Servì a poco. Nel 1676 venne catturata con uno stratagemma, torturata e decapitata il 16 luglio 1676. Era stato Saint Croix a insegnare alla marchesa "l’arte dei veleni", da lui appresa durante la sua reclusione alla Bastiglia, quando si era ritrovato in cella con un italiano esperto in materia, un certo Exili.

Forse questa vicenda non avrebbe avuto grande eco se la Brinvilliers, prima di morire, non avesse confessato di non essere la sola a fare commercio di veleni. La marchesa affermò che molti erano coinvolti, perfino persone dalla reputazione apparentemente immacolata. Il Re Sole, turbato da quanto accaduto e ben consapevole del fatto che nel suo regno il veleno fosse un’arma usata con eccessiva frequenza, decise di aprire un’inchiesta, affidata al luogotenente generale di polizia Gabriel Nicolas de la Reynie. Ciò che l’uomo scoprì è a dir poco tremendo.


Veleni e messe nere

Nel gennaio del 1679 le indagini arrivarono a una svolta con l’arresto di Marie Bosse, chiromante e nota avvelenatrice che si era vantata in pubblico di aver venduto rimedi “fatali” a molti personaggi di spicco della nobiltà francese. Prima di finire al rogo, l’8 maggio 1679, Marie fece il nome di un’altra maga, Catherine Deshayes, vedova Montvoisin, detta La Voisin (1640-1680).

Con l’arresto de La Voisin, avvenuto il 12 marzo 1679, l’Affare dei Veleni entrò in una fase cruciale: la donna si era reinventata come chiaroveggente e ostetrica dopo la bancarotta del marito gioielliere, ma non ci aveva messo molto a capire che vendendo pozioni fatte con polvere di ossa umane e veleni i suoi guadagni sarebbero stati molto più lauti. In fondo gli uomini e le donne che la contattavano chiedevano, sostanzialmente, due cose: trovare l’amore, essere ricchi e potenti. E per farlo erano disposti a “rimuovere” qualunque tipo di ostacoli.

Poco importava se la persona che volevano conquistare era già sposata, se il denaro che pretendevano apparteneva ai loro genitori, se la posizione che bramavano era già stata conquistata da un altro. Nessuno avrebbe avuto sospetti se un genitore avaro avesse reso l’anima prima del tempo, o un rivale in amore fosse morto in circostanze apparentemente naturali. In fondo poteva capitare. Questi erano i macabri, terrificanti ragionamenti della Deshayes e delle persone che si rivolgevano a lei.

La perquisizione in casa de La Voisin aggiunse altro orrore a quello già visto e ascoltato da La Reynie: i poliziotti vi trovarono un forno crematorio dove sarebbero stati bruciati dei feti dopo gli aborti condotti clandestinamente proprio dalla “maga”. Dagli interrogatori venne fuori che la Deshayes aveva amicizie tra loschi personaggi che per anni avevano organizzato delle messe nere, durante le quali venivano sacrificati dei neonati. La donna venne condannata al rogo in Piazza de Gréve, dove morì il 22 febbraio 1680.


Accuse alla favorita del Re

Il Re Sole, deluso, furioso, incredulo di fronte allo scandalo, istituì un tribunale speciale, la Camera Ardente (il nome venne scelto per via delle torce che illuminavano la sala), che lavorò al caso dall’aprile 1679 al luglio 1682. La Camera Ardente nacque per tentare di mantenere il più possibile la riservatezza sull’Affare dei Veleni, dato il rango di molti degli accusati. Dopo tre anni, però, Luigi XIV ordinò, di punto in bianco, di chiudere l’inchiesta. Il motivo di tanta fretta era semplice: la viglia di Catherine Deshayes, Marguerite, aveva fatto il nome della marchesa De Montespan, all’epoca favorita del Re.

La donna si sarebbe rivolta molte volte a La Voisin, chiedendole di organizzare messe nere, con tanto di sacrifici umani, che le “assicurassero” l’amore del sovrano. Quando la Montespan capì che il regale amante cominciava a stancarsi di lei, avrebbe addirittura tramato con la “maga” per ucciderlo. Luigi XIV venne anche a sapere che la sua favorita lo avrebbe drogato con un afrodisiaco. Disgustato, cercò un modo per allontanarla da sé e, nello stesso tempo, proteggerla dal processo. Del resto rimaneva la madre dei suoi figli. Le accuse contro di lei avrebbero potuto danneggiare irreparabilmente la monarchia.

Il Re Sole fece bruciare i documenti che riportavano il nome della sua amante (non sapendo che la Reynie aveva fatto delle copie), ma non la perdonò mai. La Montespan cadde in disgrazia, ma non pagò per i suoi presunti crimini. Nel 1691 si ritirò in convento e morì il 27 maggio 1707.


La fine dell’intrigo

La Camera Ardente ascoltò 442 imputati, emise 319 ordini di cattura, 36 condanne a morte e 30 verdetti di assoluzione. Per la politica di Luigi XIV l’Affare dei Veleni fu un fallimento, perché dimostrò l’incapacità del Re di controllare quella stessa nobiltà che aveva tramato contro di lui all’epoca delle Fronte, quando aveva solo 10 anni. Non era riuscito davvero ad asservirla al potere assoluto. Nemmeno la gabbia dorata che aveva creato per i nobili a Versailles, residenza in cui la corte si trasferì nel 1682, in concomitanza con la fine ufficiale dell'Affare dei Veleni, cambiò la situazione.

Versailles, con i suoi riti immutabili, la sue gerarchie e i privilegi tanto ambiti assecondò, in un certo senso, la brama dei cortigiani più malvagi e disonesti, continuando a "istigarli" nella ricerca spasmodica di titoli, favori, ricchezze e potere a qualunque prezzo.