venerdì 15 novembre 2024

Misteri, incontri, tragici incidenti. Il "fuoco segreto" di Julius Evola

tratto da "il Giornale" del 14 Maggio 2024

Una raccolta di testi rari e lettere mai viste illumina gli interessi del "barone": dalla pittura alla rivolta contro il mondo moderno

di Andrea Scarabelli

È l'11 giugno 1974. Nella torrida aria ferma di un pomeriggio romano, Julius Evola domanda a due persone, lì con lui, qualcosa di inaspettato: «Vestitemi e portatemi alla scrivania». La richiesta è singolare: è da giorni che, in condizioni fisiche sempre più compromesse, non si alza dal letto. Ad ogni modo, il desiderio viene esaudito. Di fronte al tavolo su cui ha scritto trenta e passa libri, il settantaseienne guarda fuori dalla finestra che dà sul Gianicolo. Appoggia le mani sulla sua Olivetti, come nel tentativo di strapparle un'ultima parola, e reclina la testa.

A mezzo secolo dalla sua scomparsa, tutti quegli studi sono ospitati nella collana Opere di Julius Evola, arricchita ora da Fuoco Segreto, la cui struttura ricalca quella dei mitici Cahiers de l'Herne di Dominique De Roux, presentandosi come una collettanea di rarità molte delle quali provenienti dagli archivi della Fondazione J. Evola introdotte da studiosi ed esperti. Risalenti a momenti e occasioni diverse, giungono tutte al cuore di quello che Enzo Erra chiamava «il mistero di Evola», l'enigma di qualcuno che ha fatto di tutto per librarsi al di là della storia, salvo poi scommettere di continuo sulla storia stessa, obbedendo a un interventismo inalterato dal passare dei decenni.

Ne emergono le sfaccettature di una personalità intellettuale complessa, passata senza soluzione di continuità dal dadaismo alla filosofia, dalla metastoria alla metapolitica, dalla storia delle religioni alla critica del costume, documentate da carteggi come quello con il poeta salentino Girolamo Comi, ma anche e soprattutto dalle trentotto lettere spedite all'antroposofo Massimo Scaligero, uno dei pochissimi a cui Evola, al netto di radicali differenze, «dava del tu» da un punto di vista spirituale.

Altri scambi epistolari certificano il raggio d'azione europeo del filosofo, sempre teso ad assegnare un'apertura transnazionale alle proprie attività, «sprovincializzando» ambienti culturali spesso asfittici. Discorso che vale, in particolare, per il mondo germanico e mitteleuropeo, come si legge tra le righe trasmesse a uomini come Walter Heinrich, Wilhelm Stapel e Armin Mohler. Sono tutti legati alla cosiddetta «rivoluzione conservatrice» poi liquidata dal nazionalsocialismo, alfieri di una visione della storia «a quattro dimensioni» e di uno Stato organico allergico al liberalismo americano e al collettivismo sovietico.

Allo stesso movimento appartengono altri due pesi massimi della cultura tedesca presenti in Fuoco Segreto. Il primo è il poeta Gottfried Benn, che per la cronaca revisionò la traduzione tedesca di Rivolta contro il mondo moderno, scrivendone: «Dopo aver letto questo libro, ci si sente trasformati». Il secondo è Ernst Jünger, le cui lettere evocano in realtà un clamoroso «incontro mancato», sia biografico sia intellettuale. Il Barone che poi barone non era, ma è un altro discorso e l'Anarca non si intesero mai, cosa che comunque non ci impedisce di leggere insieme opere come Il trattato del ribelle e Cavalcare la tigre, destinate a un tipo umano deciso a mantenere la propria personalità tra le «rovine» degli anni Cinquanta.

Ci sono poi i materiali artistici, risalenti tanto agli incendiari anni Venti quanto alla maturità di un ex dadaista disposto a cimentarsi in un ultimo corpo-a-corpo con la pittura, tra cui alcuni bozzetti, uno dei quali, con tanto di indicazioni cromatiche, è lo studio preparatorio di una mai realizzata «donna alchemica», da aggiungersi alle tre già note, dipinte sotto l'ascendente di Metafisica del sesso ed esposte al MART di Rovereto nel 2022, su iniziativa di Vittorio Sgarbi.

Seguono scritti inediti o rari, come due voci per la Treccani dedicate alle «apparizioni» e al «senso magico del battesimo», escluse dai curatori dell'Enciclopedia per il loro carattere eterodosso (a differenza di altre, che verranno pubblicate). Un'ulteriore chicca bibliografica è il «manifesto» della rubrica Diorama Filosofico, attiva tra il 1934 e il 1943 sulle colonne de Il Regime Fascista, messo nero su bianco da Evola ma firmato da Roberto Farinacci. Grazie all'interesse del «ras» cremonese e alla mediazione evoliana, sul quotidiano uscirono pezzi di autori come Paul Valéry, René Guénon e il già citato Gottfried Benn. Quale giornale oggi si sognerebbe di ospitare nomi del genere?

A due «capitoli tagliati» di Rivolta e agli articoli dell'introvabile rivista Domani (1956) si aggiungono due altre rarità assolute: il progetto editoriale di un'opera mai pubblicata sulla dimensione «ermetica» dell'erotismo (intitolata significativamente Eros e magia) e un breve saggio di Giovanni Caloggero, uscito nel 1971. Si tratta di uno dei primissimi testi organici sul filosofo, spedito prima della pubblicazione in visione a Evola in persona, il quale lo restituì con tagli, glosse, correzioni e aggiunte. Ebbene, in Fuoco Segreto sono riportate in anastatica proprio quelle bozze.

Molti, infine, i documenti legati al tragico incidente che il 21 giugno 1945 lo costrinse all'immobilità sino alla fine dei suoi giorni. Non solo le lettere a Heinrich, Comi e Scaligero, spedite durante la drammatica ospedalizzazione viennese, ma anche lo scambio epistolare con padre Clemente Rebora, che quando gli propose di andare a Lourdes in cerca di una grazia si sentì rispondere: «Se una grazia dovessi chiedere, sarebbe piuttosto quella di capire il senso che, in sede di spirito, ha ciò che è accaduto; ancor più, di comprendere il perché del mio continuare a vivere. L'incidente è stato come una risposta enigmatica al mio chiedere attraverso l'espormi al pericolo se alla mia vita terrena potesse essere posto un fine».

Per l'anziano filosofo era una questione essenziale. Basta leggere il diario, raccolto sempre in Fuoco Segreto, in cui Henri Hartung annota «a caldo» una serie di colloqui svoltisi a casa Evola negli anni Settanta. L'ultimo appunto si chiude con queste parole: «Gli pongo una domanda sul suo stato di salute e sul suo trauma del 1945, che gli cagionò una paralisi. La risposta è immediata: Morirò quando avrò capito la ragione profonda di quella ferita».

Era il 25 giugno 1971, tre anni prima che Evola giungesse al suo ultimo appuntamento con il destino.
Chissà che le parole mai uscite dalla sua Olivetti, nel torrido pomeriggio romano da cui siamo partiti, non fossero la risposta a questo interrogativo, enigma e chiave di volta di una vita straordinaria.



giovedì 7 novembre 2024

Storia di Karl Maria Wiligut, il Rasputin di Himmler

tratto da https://it.insideover.com/storia/karl-maria-wiligut-himmler.html del 20 giugno 2021


di Luca Gallesi

Tra gli aspetti più misteriosi del cosiddetto “esoterismo nazista” studiati da Giorgio Galli nella trilogia dedicata a questo argomento (Hitler e il nazismo magico, Rizzoli 1989, Hitler e la cultura occulta BUR 2013, Hitler e l’esoterismo, OAKS 2020), troviamo le gesta di personaggi poco considerati dalla storiografia ufficiale, che però giocarono, apparentemente, un ruolo tutt’altro che secondario nel breve periodo in cui la Germania fu governata dalla dittatura hitleriana.

Un alto ufficiale delle SS, tanto importante quanto sconosciuto, ad esempio, fu Karl Maria Wiligut, più noto come Weisthor, secondo Galli uno dei semi-sconosciuti “maestri” occulti che gestirono un grande potere dietro le quinte. Nato a Vienna nel 1866, eroe della Prima guerra mondiale, Wiligut si congeda dall’esercito austriaco col grado di colonnello, ed entra rapidamente in contatto con le più importanti associazioni esoteriche nazionaliste del tempo, come l’Edda Gesellschaft di Gorsleben e l’Ordo Novi Templi dell’abate Lanz von Liebenfels. 

Nel 1932 si trasferisce in Germania, a Monaco, dove, rafforzando i suoi legami con i circoli esoterici, conosce Heinrich Himmler, entra nelle SS e diventa rapidamente un influente membro della sua cerchia ristretta con lo pseudonimo, appunto di Karl Maria Weisthor. Uno studioso e ricercatore italiano, Marco Zagni, ha pubblicato due libri dedicati alla cultura esoterica delle SS: Gli archeologi di Himmler (Ritter) e La svastica e la runa (Mursia), dove ricorda che: “Ancora 30-35 anni fa la figura di Karl Maria Wiligut “Weisthor” era praticamente sconosciuta dagli storici e da gran parte del mondo tedesco sotto il nazismo e dalla maggioranza delle stesse SS. Si definiva uno studioso dei lati oscuri e nascosti della storia del mondo e in particolare del mondo germanico e si riteneva, come gli era stato detto nella sua famiglia, l’ultimo di una casata di re segreti e maledetti (dalla Chiesa) della Germania” . 

E maledetto, o forse solo pazzo, lo fu davvero, dato che, come risultò solo molti anni dopo, nel 1924 era stato internato nel manicomio di Salisburgo a seguito delle accuse mossegli dalla moglie, che lo aveva incolpato di avere manie occultistiche, di essere schizofrenico, megalomane, violento, e soprattutto di aver cercato di ammazzarla. Quando Himmler venne a sapere di questi trascorsi da Karl Wolff, il numero due delle SS che aveva incontrato la moglie di Weisthor, era il 1939, e il “Rasputin di Himmler” come lo chiamavano in molti, si ritirò dalla vita pubblica. Deportato, nel 1945, in un campo di concentramento alleato, fu poi rilasciato, e tornò nella cittadina di Arolsen, dove morì all’inizio del 1946. 

Pazzia a parte, Weisthor aveva davvero contribuito a creare i miti esoterici dell’Ordine nero guidato da Himmler: dopo aver partecipato a numerose spedizioni dell’Ahnenerbe alla ricerca delle vestigia dell’antica religione germanica, elaborò complesse teorie psicologiche e ipotesi storiche piuttosto stravaganti ma non del tutto prive di senso. Ad esempio, teorizzò l’esistenza di una memoria genetica, che conserva il ricordo anche dei nostri antenati, ipotesi, poi, avanzata anche da alcuni neurologi nei decenni successivi. Per quanto riguarda le sue concezioni esoterico-cosmologiche, riteneva che la storia dell’uomo e della Terra siano una perenne lotta tra energie contrapposte, che alternano fasi di civiltà ascendenti e discendenti, ipotesi confermate, secondo lui, dai risultati delle spedizioni negli antichi luoghi sacri che risultarono possedere notevoli proprietà geomantiche, ricche di questi opposti flussi energetici. 

Stramberie cosmologiche a parte, il “Rasputin di Himmler” fu davvero uno dei Maestri di cerimonia del Castello di Wewelsburg, il luogo magico citato in un articolo precedente: qui celebrava i matrimoni delle SS, e insegnava i misteri delle rune che, secondo lui, erano la chiave per svelare il segreto dell’universo, racchiuso nel rapporto armonico tra il microcosmo dell’uomo e, appunto il macrocosmo del creato. Le rune, secondo la tradizione germanica e soprattutto secondo l’interpretazione dei circoli esoterici dell’ottocento, erano la testimonianza della cultura arcaica dei popoli del Nord e le gelose custodi dei destini del mondo e degli uomini. 

Fu proprio Weisthor, inoltre, a disegnare il tristemente celebre Totenkpfring, l’anello d’argento con incisa la testa di morto che Himmler regalava a pochi eletti in occasione del genetliaco del Fuehrer, il 20 aprile, festa nazionale tedesca. Quando un possessore dell’anello moriva, il gioiello veniva riportato al Castello assieme alle ceneri del defunto, per esservi conservato in una grotta. Alla fine della guerra, gli ultimi superstiti fecero esplodere la grotta, e i macabri gioielli non furono mai ritrovati.

Gli studi di Giorgio Galli legano strettamente l’ascesa e declino di Weisthor al Generale Karl Wolff, il già menzionato vice di Himmler, che, curiosamente, non solo evitò le forche di Norimberga, ma, dopo un processo al quale presenziò in divisa e una breve condanna simbolica, venne restituito alla società come un uomo completamente libero. Wolff, secondo Galli, faceva parte del vertice esoterico nazionalsocialista, ed era al corrente delle profezie decifrate da Weisthor che vaticinavano una grande battaglia tra Oriente e Occidente, battaglia dalla quale le terre germaniche dell’Est sarebbero uscite completamente devastate. La profezia, però, non fu sufficiente a fermare la guerra, e l’Europa sarebbe stata presto ridotta a un cumulo di rovine, come, enigmaticamente, Weithor volle scritto sulla lapide che copre la sua tomba:

Unser Leben geht dahin wie ein Geschwaetz
(La nostra vita trascorre come una chiacchierata senza senso) 

venerdì 25 ottobre 2024

103 anni fa usciva “Lo Spirito dell’Universo” (Bocca 1921) di Olinto De Pretto: il libro che rischiò di riassegnare la Relatività!

in collaborazione con Simone Berni: https://www.cacciatoredilibri.com/103-anni-fa-usciva-lo-spirito-delluniverso-bocca-1921-di-olinto-de-pretto-il-libro-che-rischio-di-riassegnare-la-relativita/


Einstein e De Pretto: a chi la relatività?

 

Da sempre in molti ritengono Albert Einstein come l’unico corpo estraneo alla scienza realmente accettato dalla comunità scientifica stessa. Un’eccezione assoluta tributata obtorto collo a una delle più grandi menti della storia umana.

Lo storico della scienza Federico Di Trocchio (scomparso nel settembre del 2013), nel suo bellissimo libro Il genio incompreso (Milano, Mondadori, 1997), anni fa ne aveva tracciato un interessante profilo.

“Einstein – scrive Di Trocchio – a differenza della maggior parte degli scienziati, non attutì mai il suo anticonformismo: ascoltò sempre, e in molti casi aiutò, chi nuotava controcorrente”.

Forse il motivo di questa sua apertura era che Einstein, non provenendo dal mondo accademico, non ne seguiva pedissequamente l’ortodossia. Era un umile impiegato del celebre (“celebre” lo diverrà grazie a lui) Ufficio Brevetti di Berna, in Svizzera. Il suo ingresso nella comunità scientifica fu abbastanza repentino e inaspettato.

Con la relatività, egli è passato alla storia come l’artefice di una delle teorie che hanno rivoluzionato il concetto stesso di universo. Una teoria che da qualche anno per la verità ha cominciato a scricchiolare, ma che nei suoi principi base appare ancora ben salda, in particolar modo perché non ne è stata proposta una alternativa di pari valore. Eppure sono ormai trascorsi ben oltre cento anni dall’enunciazione di quella formula E=mc2 e più di sessanta dalla morte del suo autore.


Ma quella formula non c’era già?

Il documento, molto raro, che per un po’ ha gettato un’ombra sulla figura di Einstein è Ipotesi dell’etere nella vita dell’universo. Fu pubblicato nel 1904 negli Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, con la prefazione del celebre astronomo Giovanni Schiaparelli. A redigere quel lavoro era stato un oscuro autore (lo dice lui stesso nella presentazione) di Schio, Vicenza: Olinto De Pretto. Appena un anno più tardi, nel 1905, un altrettanto oscuro impiegato ventiseienne che lavorava presso l’Ufficio Brevetti di Berna, pubblicò un lavoro scientifico con una formula che farà storia, E=mc2. Era appunto Albert Einstein.

Il lavoro di Olinto De Pretto fu stampato in estratto a Venezia da Ferrari nello stesso anno 1904. Ma a quanto sembra nessuno volle riconoscere il valore di queste sue intuizioni e quello di De Pretto rimarrà sempre un nome sconosciuto ai più e il suo lavoro un’ombra perlopiù da respingere.

Il documento, sotto forma di estratto, ormai è introvabile perfino presso i librai antiquari; è in formato ottavo, 62 pagine, frequentemente intonso.

La sera del 16 Marzo 1921, proprio nell’anno che vedrà Einstein ricevere il premio Nobel per la fisica, De Pretto morirà in circostanze drammatiche (freddato da un colpo di pistola sparato da una donna per questioni d’interesse).

Sempre quell’anno, pochi mesi prima della sua morte, era uscito Lo spirito dell’universo (Torino, F.lli Bocca), che può essere considerato il suo testamento scientifico. Il libro in questione, ormai decisamente raro, contiene lo studio del 1904, rielaborato, e la seconda edizione dello scritto Sopra una grande forza tellurica trascurata (apparso per la prima volta nel 1914). È in formato ottavo, fa parte della Biblioteca di Scienze Moderne (n.77), 223 pagine, con tavole fuori testo sia a colori che in bianco e nero.

In copertina una maschera tribale di una civiltà non identificata, e sullo sfondo una serie di galassie a spirale. La carta dei libri di questa collana non sembra granché ed è piuttosto fragile. Se i volumi vengono trovati intonsi va prestata molta attenzione nell’aprirli, le pagine si possono lacerare con estrema facilità.

La lettura de Lo spirito dell’universo fa entrare in un mondo dalle atmosfere surreali. È un trattato scientifico, ma allo stesso tempo un testo avvincente ed emozionante come un vero e proprio romanzo d’avventura.

Eppure qualche scienziato lo ha appoggiato

Il libro di Umberto Bartocci, Albert Einstein e Olinto De Pretto: La vera storia della formula più famosa del mondo (Bologna, Andromeda, 1999) rischia di diventare ancora più raro delle opere di De Pretto. Infatti, nonostante l’editore lo abbia ristampato nel 2006, il libro è sempre da considerarsi raro. Il libro in questione fa parte della collana La storia impossibile, è un libro just in time, cioè stampato appena in tempo, in tempo per essere salvato. È un po’ il destino di quei libri che gli editori non ritengono adatti alla pubblicazione e che senza questa formula non riuscirebbero mai a vedere la luce. I manoscritti cadrebbero nel dimenticatoio, con il passare degli anni andrebbero persi in un trasloco o per colpa di qualche parente distratto.

Vengono i brividi a pensare a quanti romanzi, a quanti saggi o a quanti lavori scientifici è stato negato anche il semplice venire alla luce. Di certo la storia è stata scritta anche da mani sconosciute, delle quali a volte non è rimasta la benché minima traccia. Ed è quanto mai eccitante seguire queste orme misteriose.

In un prossimo futuro – e può suonare quasi come una beffa – il libro di Bartocci potrebbe essere conteso da bibliofili alla ricerca di testi originali e profetici, testi che non hanno segnato un’epoca al momento della loro silenziosa uscita, ma l’hanno fatto a posteriori, in quanto anticipatori di verità divenute tali solo in futuro, talvolta a distanza di molti anni. Per questo motivo lo conservo gelosamente. È una semplice brossura editoriale in ottavo, con la copertina nera su tutti i lati. Il volto di Einstein e il fungo atomico che campeggiano sul fronte sono due simboli molto chiari del concetto espresso dalla formula più famosa del mondo.

Prima di quel libro Bartocci aveva tentato – inutilmente – di far accettare per la pubblicazione un lavoro a quattro mani, con Marco Mamone Capria sullo stesso argomento. La rivista scientifica alla quale aveva indirizzato il manoscritto lo rifiutò, in maniera cortese ma inappellabile. Tutte queste difficoltà derivano dalla responsabilità che si porta dietro il nome di Albert Einstein. Ancora troppo grande e fulgida è la sua stella per poterla offuscare senza esporsi brutalmente alle critiche dell’ortodossia scientifica. Einstein non può essere messo in discussione, non ancora, almeno. Forse un giorno nuove concezioni del mondo della fisica ridimensioneranno le sue teorie, ma al momento resta un pilastro inamovibile, poco meno che intoccabile.


“La materia di un corpo qualunque, contiene in se stessa una somma di energia rappresentata dall’intera massa del corpo, che si muovesse tutta unita ed in blocco nello spazio, colla medesima velocità delle singole particelle”

 

Niente da fare: Olinto non c’entra con Einstein: lo dice la Scienza

Per questo motivo nessuna rivista che vuole costituire una voce degna di nota nell’ambito accademico oserebbe ospitare un intervento decisamente “contro corrente” che non sia suffragato da prove certe e inconfutabili circa un dubbio – sia pur sfumato – sulla paternità della formula più famosa del mondo. È logico che il problema, al momento attuale, non può essere presentato che a livello di congettura.

Non è ancora dimostrabile, se mai lo sarà, che Albert Einstein lesse il lavoro di Olinto De Pretto e che, soprattutto, ne trasse ispirazione. Forse l’unica strada praticabile per venirne a capo è quella di concentrare le attenzioni sulla figura di Michele Besso, che era amico di Einstein e collegabile a De Pretto. Einstein, infatti, conosceva l’italiano, tenne anche delle conferenze nella nostra lingua.

La scienza sembra non volersi rendere conto che De Pretto, questo oscuro agronomo vicentino, forse ispirò il grande scienziato. Magari si tratta di elementi formali, non decisivi, dato che il concetto di etere non sembra essere applicato alla teoria della relatività, ma di sicuro la frase che compare nel lavoro di De Pretto del 1904 (un anno prima della pubblicazione di Einstein negli Annalen der Physik dei suoi due celebri lavori) è esplicativa al riguardo:

“La materia di un corpo qualunque, contiene in se stessa una somma di energia rappresentata dall’intera massa del corpo, che si muovesse tutta unita ed in blocco nello spazio, colla medesima velocità delle singole particelle. (…) La formula mv2 ci dà la forza viva e la formula mv2/8338 ci dà, espressa in calorie, tale energia. Dato adunque m=1 e v uguale a 300 milioni di metri, che sarebbe la velocità della luce, ammessa anche per l’etere, ciascuno potrà vedere che si ottiene una quantità di calorie rappresentata da 10794 seguito da 9 zeri e cioè oltre dieci milioni di milioni”.

Per correttezza va riportata un’opinione di segno opposto, quella dello studioso scledense Ignazio Marchioro il quale, in un’intervista di Luca Valente su internet, afferma che la somiglianza della formula di De Pretto a quella di Einstein si deve solo a una casualità formale, complice la differente definizione tra forza viva ed energia cinetica. Afferma infatti Marchioro nell’intervista:

 “È invece ovvio che la teoria della relatività non ha nulla a che vedere con la sua intuizione: la formula assomiglia a quella famosissima di Einstein solo per una casualità formale, in quanto il De Pretto riportò la formula della forza viva valida a quel tempo, che non era non sinonimo dell’energia cinetica bensì del suo doppio. È ovvio quindi che se il De Pretto avesse inteso la formula relativa all’energia cinetica del corpo in movimento avrebbe scritto: E (energia cinetica)=mv²/2; vale a dire la nota formula di fisica classica, che è totalmente diversa dalla mc²”.

A firma dello stesso Marchioro, circa vent’anni fa è uscito I fratelli De Pretto (Schio, Tipografia Menin, 2000). Interessante e documentato lavoro sui fratelli De Pretto come imprenditori, tecnici e uomini di scienza; da non sottovalutare come pezzo raro perché stampato in appena 300 copie.


Il libro più raro: è sempre quello che che è andato perduto

Ma il libro più raro e introvabile sulla figura di Olinto De Pretto è un libro che non c’è. Nel 1931, infatti, a dieci anni dalla morte dello scienziato scledense, il fratello Silvio e il professor Giuseppe Flechia furono gli autori di uno studio sull’opera Lo spirito dell’universo, che sottoposero all’attenzione dell’astronomo Pio Emanuelli della Specola Vaticana. Racconta Bianca Mirella Bonicelli nel libro di Bartocci che del carteggio con l’Emanuelli non esistono più gli originali ma da appunti sui diari di Silvio De Pretto si evince che il responso dello studioso vaticano fosse stato negativo.

Questo scoraggiò gli autori a proseguire nella pubblicazione dello studio. Purtroppo il manoscritto originale sembra sia andato perduto. Non ci è dato sapere neppure il titolo che gli sarebbe stato attribuito.

C’è poi una commedia in tre atti di Sem Benelli, Con le stelle (Milano, Fratelli Treves, 1927) che si ispira alle teorie sull’universo di De Pretto. Il libro è una brossura in formato ottavo con una bellissima copertina futurista di Guido Marussig e si può ancora reperire sul mercato nell’edizione originale.

Un’altra opera piuttosto rara del De Pretto è Le due faglie di Schio (Roma, Tip. della Pace E. Cuggiani, 1921), interessante saggio di geologia scledense con cinque stupende tavole a colori ripiegate all’interno, tra cui una carta geologica. Piccola perla introvabile.

Stessa sorte (di introvabilità effettiva) per La via più breve fra Venezia ed il Brennero è la linea Mestre-Padova-Vicenza-Schio-Rovereto: calcolo approssimativo di costo di una ferrovia ordinaria fra Schio e Rovereto: appunti e confronti, di [Olinto De Pretto] (Schio, Tipi Prem. Manifattura etichette, 1899). Il libro è stato poi ristampato in facsimile nel 1985.


Einstein contestato? Ebbene sì!

Un curiosissimo libricino uscito nel 1923 in Francia e che si schiera dichiaratamente contro Albert Einstein e la Teoria della Relatività fu Les Hallucinations des Einsteiniens – Ou les Erreurs de Méthode chez les Physiciens-Mathématiciens (“Le allucinazioni degli einsteiniani”) di Christian Cornelissen (Paris, Librairie Scientifique Albert Blanchard, 1923).

Risulta di difficile reperibilità in quanto la tiratura fu sicuramente limitata all’indispensabile. Il libro la dice lunga su come l’ambiente scientifico accolse la teoria della relatività, soprattutto dopo il conferimento del Nobel nel 1921 al grande scienziato. Cornelissen cerca di dimostrare l’infondatezza scientifica delle teorie einsteiniane, ma con scarsi risultati.

Il suo, ad ogni modo, rimane un tentativo mirabile e di indubbia eccentricità, che in effetti ha dato luogo a un titolo assai ricercato dai collezionisti di curiosità.

martedì 15 ottobre 2024

ARTE, POLITICA E OCCULTISMO

tratto da "L'Opinione" del 07 agosto 2024


di Dalmazio Frau


I nostri padri d’età classica ben sapevano che alcuni luoghi del nostro mondo terreno sono governati da potenze sovrannaturali. Genius loci chiamavano queste entità che potevano essere benevole o nefaste nei confronti dell’uomo che si recava nel loro dominio. In realtà, anche con l’avvento del cristianesimo e persino oggi nella nostra società laica e desacralizzata, ciò non è mai cambiato. Ed ecco che, a seconda della sensibilità sottile di ciascuno di noi, più o meno spiccata, avvertiamo qualcosa di positivo o di negativo in certi luoghi o in alcuni edifici.

Ad esempio, io ho sempre avvertito uno spirito, una forza negativa nell’edificio postmoderno del Maxxi, a Roma, oppure nella Nuvola ideata da Massimiliano Fuksas, mentre sento scorrere le energie supere ancor oggi possenti e vitali in Castel Sant’Angelo o nella Basilica di San Clemente, nel suo Mitreo come nella navata centrale oppure nella sacra di San Michele in Val di Susa e in tanti altri luoghi, come il Duomo di Siena o il Tempio malatestiano a Rimini.

Suggestioni, diranno alcuni. Sensibilità e conoscenza del “mondo altro”, dico io… una sensibilità che l’uomo ha perduto sempre di più nel corso degli ultimi trecento anni. Altro fatto non trascurabile è che molti di questi luoghi, non tutti adibiti al culto cristiano, sono custodi d’opere artistiche. Musei, chiese, fortezze o semplici dimore contengono quei potentissimi catalizzatori d’energie che sono le opere d’arte. Veri e propri media tra l’uomo e il cielo o, a volte, tra l’essere umano e le forze ctonie. Queste energie, per usare un termine oggi alla moda, in realtà influenzano in maniera invisibile ma reale le persone che stanno in determinati luoghi, che ci crediate o meno. So che coloro che sono più in là con gli anni stanno riportando alla loro memoria, mentre leggono, le immagini inquietanti in bianco e nero dello sceneggiato tivù Belfagor-Il fantasma del Louvre di quando eravamo bambini, e non sarebbero tanto distanti dalla realtà, che è sempre molto più estesa di quella che giace sotto i nostri sensi materiali.

Persino edifici storici come il Quirinale o Palazzo Chigi non sono esenti dall’essere “dominio” di simili energie che ancora oggi si muovono lungo quei corridoi suggerendo, ispirando, spingendo e inclinando chi li occupa, spesso in maniera del tutto inconsapevole, a compiere determinate scelte piuttosto che altre. Sarebbe interessante scoprire quanti “spettri”, quante fantasime e quanto “démoni” si aggirano per le sale dei nostri palazzi istituzionali, senza neanche il favore delle tenebre, perché ad attrarli basta la cattiva volontà umana e magari qualcosa di antico, gravido di pulsioni basse quali l’odio, il rancore e l’avidità.

Cose da Ghostbusters all’amatriciana? O da Zaffiro e Acciaio de noantri. Ma giochiamo per un istante a credere nel sovrannaturale, soltanto per pochi minuti, tanto è un gioco ferragostano. E se certe decisioni politiche particolarmente discutibili, certe affermazioni inopportune rilasciate alla stampa con le relative polemiche, fossero dovute all’influsso preternaturale di forze oscure? Lo so che voi siete laici e illuministi – non tutti per fortuna – e fedeli alla buonanima di Piero Angela credete nella scienza materialista, ma un dubbio non vi ha mai solleticato? Vi ha mai sfiorato il terrore assoluto della “controra”? Non avete mai sentito un brivido diaccio scorrervi lungo la schiena laddove non c’era nessuno e comunque faceva un bel caldo estivo?

Chiamavano Belzebù, tra il serio e il faceto, un uomo di valore intellettivo e culturale altissimo come Giulio Andreotti e il Presidente della Repubblica Giovanni Leone, da buon partenopeo, ricorreva a gesti scaramantici, mentre si dice che il bolognese Romano Prodi fosse assiduo frequentatore di sedute spiritiche. Si dice, si narra, raccontano: tutte voci di corridoio. Eppure, quanti tra gli esponenti dei vari Governi che si sono succeduti, in maniera per lo più segreta, hanno avuto frequentazioni con il mondo dell’occulto? Difficile dirlo con certezza, così come è difficile affermare con altrettanta certezza quanti tra i politici abbiano investito in opere d’arte d’autori antichi e contemporanei per incrementare i loro introiti. Ma del resto non vi è nulla di male in tutto ciò, s’investe nell’arte così come lo si fa in borsa, sinché viene fatto nel rispetto delle leggi tutto è lecito.

Però pensiamoci, pensateci. Il mondo empio e tenebroso della Marchesa Françoise di Rochechouart de Mortemart, meglio nota come Madame de Montespan, favorita alla corte di Luigi XIV, il Re Sole, non è poi così distante dal nostro: appena tre secoli lo distanziano. Ma il potere cerca sempre di restare in sella in ogni modo. E se la politica non basta, se l’economia è insufficiente, se persino la guerra si rivela inadeguata, allora altre forze si manifestano, evocate, blandite, richiamate dall’innominato abisso per la cupidigia umana, che mai si accontenta in certi casi, dell’amore, del bene e della bellezza.

domenica 6 ottobre 2024

La lunga caccia al Santo Graal. Da Artù ai Nazisti

tratto da "Il Giornale" del  17 Marzo 2024

Matthias Egeler ricostruisce nel dettaglio una avventura, letteraria e non solo, che attraversa l’Europa da più di ottocento

di Matteo Sacchi

La ricerca del Santo Graal è un’avventura intellettuale, e non solo intellettuale, che dura almeno da ottocento anni. La mitica coppa dell’Ultima cena, in cui poi sarebbe stato raccolto il sangue fuoriuscito dal costato del Cristo, è al centro di una lunghissima rielaborazione letteraria. Si trova all’incrocio di miti e credenze che provengono da ambiti culturali diversissimi, spaziano dai Celti al mondo protocristiano e che poi si “arrampicano” lungo il Medioevo, passando attraverso i deliri di onnipotenza nazisti per approdare sino al presente e ai film di Indiana Jones. Questa storia lunghissima viene raccontata da Matthias Egeler, esperto di filologia dell’università di Monaco, in Il Santo Graal, saggio pubblicato in Italia per i tipi del Mulino (pagg. 132, euro 15). Egeler si muove a partire dal punto fermo in cui il Graal entra nella letteratura. La coppa - anche se all’inizio proprio una coppa non sembra essere - è strettamente correlata alla letteratura arturiana, alla materia di Bretagna. Per la precisione al Percival di Chrétien de Troyes. In questo poema incompiuto scritto tra il 1175 e il 1190 il Graal compare in associazione con una complessa parata allegorica e una lancia magica. Una lancia che potrebbe essere identificata con la mitica lancia di Longino, il centurione romano che avrebbe trafitto il costato di Cristo. La presunta lancia venne ritrovata durante la Prima crociata, nel 1098. E il Percival venne commissionato a Chrétien da Filippo di Fiandra che stava per partecipare alla terza spedizione in Terra Santa. Eppure leggendo il testo il Graal (la parola potrebbe provenire dal latino gradalis che indicava più un piatto fondo che una coppa) sembra assomigliare a molti calderoni delle leggende celtiche e anche la lancia facilmente rimanda ad avventure delle culture precristiane come Preiddeu Annwn (in cimrico, «il bottino dell’aldilà»). Insomma, perché il Graal diventi quello che tutti abbiamo in mente bisogna attendere almeno l’intervento del poeta borgognone Robert de Boron, parliamo dei primi del XIII secolo, con il suo romanzo in versi Giuseppe d’Arimatea. Con questo romanzo de Boron scrive virtualmente un nuovo vangelo apocrifo, utilizzando principalmente materiale della Bibbia e del Vangelo di Nicodemo. Ma per l’idea della coppa usata per raccogliere il sangue di Cristo crocifisso non è facile capire dove de Boron abbia preso l’ispirazione. Bisogna spostarsi in epoca e area carolingia per trovare codici, come il Salterio di Utrecht, in cui compaiano illustrazioni di personaggi che raccolgono il sangue di Cristo. Il risultato è una narrazione così potente da trasformarsi in una credenza che attraversa i secoli. Ci sono ancora molti visitatori, ad esempio, che si recano a Glastonbury, nell’Inghilterra meridionale. Una leggenda locale racconta che nei giorni immediatamente successivi alla Crocifissione di Gesù, Giuseppe d’Arimatea portò il Graal dalla Terra Santa in Inghilterra. Di là arrivò infine a Glastonbury, e quando ebbe scalato la ripida collina che oggi si chiama Wirrall Hill, conficcò il suo bastone nel terreno e disse (per qualche oscura ragione in inglese): «Are we not weary all» («Non siamo tutti stanchi»). Da allora la collina sarebbe chiamata «Weary-all (Wirrall) Hill». Il bastone mise le radici, germogliò rami e foglie e sarebbe diventato il progenitore del biancospino che si trova ancora oggi sulla collina. I “discendenti” del biancospino di Giuseppe fioriscono due volte l’anno, di cui una a dicembre; e un ramo di questi cespugli viene inviato ogni anno alla famiglia reale britannica per abbellire la tavola della colazione di Natale. Si dice
inoltre che lo stesso Giuseppe d’Arimatea si stabilì a Glastonbury dove fondò un monastero. E il Graal stesso si troverebbe da qualche parte nella Chalice Hill («Collina del Calice») tra Glastonbury Tor e Wirrall Hill, colorando di rosso l’acqua che sgorga nel Chalice Well (Pozzo del Calice). È solo un esempio di quanto la leggenda di questa coppa si sia radicata in molti luoghi della Gran Bretagna e non solo. E allora ricostruire le radici di questi miti e i loro intrecci nei secoli, indagando le leggende celtiche da un lato e la tradizione cristiana, vangeli apocrifi compresi, dall’altro, è una sfida in cui Egeler si cimenta fornendo al lettore un sacco di interpretazioni e di spunti. Potreste scoprire, ad esempio, che il mito arturiano e del Graal è collegato
anche a una serie di luoghi in Italia, come il duomo di Modena, e che la sua diffusione nella nostra penisola resta abbastanza misteriosa, avvenuta prima ancora che si diffondessero gli scritti di Chrétien de Troyes. Ma c’è spazio anche per la modernità e per ciò che il Graal è diventato nel corso dei secoli e anche nel nostro immaginario, come dicevamo arrivando sino al cinema e a Indiana Jones. Ah, a proposito di Indiana Jones e fantasia... La smania nazista di mettere le mani sul Graal, metaforicamente e no, è un fatto e non un mito. Negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale la ricezione del mito del Graal in Germania assunse forme particolarmente eclatanti e riguardò anche i vertici dell’apparato nazista. Ad esempio l’enorme significato che il Führer attribuiva all’opera di Wagner dedicata al Graal si rifletteva anche nel suo progetto di rendere questo dramma musicale il cuore di un’imponente celebrazione dopo la vittoria finale. Ma c’erano degli antecedenti anche negli anni che precedettero lo scoppio del conflitto. Un manifesto di propaganda del 1936, per esempio, mostra Hitler come un cavaliere medievale in armatura corazzata e con in mano uno stendardo a svastica, rappresentandolo come un moderno Parsifal, cavaliere del Graal, un salvatore con sfumature religioso-mitiche. Il regime nazista utilizzò il Graal anche nell’architettura: nel castello di Wewelsburg, che fu convertito a uso delle Ss a partire dal 1934, una stanza venne chiamata «Graal» e fu allestita una sala rotonda che evocava la scenografia della prima del Parsifal del 1882.

L’impianto fu probabilmente influenzato dall’idea di costruire un nuovo castello del Graal, un’idea molto diffusa negli ambienti nazionalisti e occultisti dall’inizio del secolo. E davvero i nazisti si sono recati in ogni dove per cercare la sacra coppa, a partire da Otto Rahn. Questo non è un mito, leggere le dense pagine di Egeler per credere.


Matthias Egeler
Il Mulino 
pagg. 132
euro 15

lunedì 30 settembre 2024

Ecco le mappe per trovare il diabolico regno del Male

 tratto da "Il Giornale" 23 Giugno 2024

La genesi, l'ingresso, le voragini e l'iconografia Un saggio svela i dettagli dell'antro di Satana


di Alessandro Gnocchi


Si fa presto a dire «va' all'Inferno». Bisogna trovare l'ingresso, superare il seno di Abramo o Campi Elisi, trovare un varco attraverso il Purgatorio e infine raggiungere il centro della Terra. Alt. L'Inferno infatti potrebbe coincidere con il Sole. Oppure essere sospeso nei cieli con vista sul Regno. E poi quale ingresso? La bocca dei vulcani, come da antica credenza popolare, o un antro o una voragine? In che modo si scende: con una scala o con i gradini? Bisogna poi affrontare le schiere dei diavoli. Difficile evitarli. Gli ex angeli ribelli sono 47.168.616. Li ha contati Giovanni Maria Bonardo, autore del trattato La grandezza et larghezza et distanza di tutte le sfere (1563; dal 1584 commentato da Luigi Groto, importante umanista). Se riuscite a passare, vi attende una lunga camminata: l'Inferno misura 7875 miglia di circonferenza, con diametro di 2505,5. Satana vi attende in fondo anche in senso etimologico: la parola «inferno» indica ciò che sta più in basso. Dovreste riconoscerlo: è quello a forma di dragone che sputa fiamme oppure quello incatenato che bestemmia oppure il signore oscuro assiso su un trono blasfemo. Nel caso tornaste a riveder le stelle e vi venisse la tentazione di raggiungere il Paradiso, preparatevi a viaggiare per 1.799.953.758,25 miglia (in chilometri: 3.333.246.167).

Queste e altre suggestive informazioni sono contenute nel saggio di Matteo Al Kalak intitolato Fuoco e fiamme. Storia e geografia dell'inferno (Einaudi, pagg. 270, euro 25). Al Kalak, docente di Storia moderna all'università di Modena, aveva pubblicato, nel 2021, un altro libro sorprendente, Mangiare Dio. Una storia dell'eucarestia (2021). Lo studioso si concentra in particolare sull'Inferno cristiano in tutte le sue declinazioni: letterarie, artistiche e teologiche. Un modello internazionale è la Divina commedia di Dante Alighieri, cristallizzazione e insieme superamento delle idee medievali. Nell'iconografia rinascimentale, Le Grand Saint Michel di Raffaello si impone come termine di paragone, visto il suo successo. Raffaello isola il momento nel quale san Michele schiaccia il dragone. L'Inferno, appena abbozzato, è raffigurato come un antro pronto a richiudersi sul diavolo per sempre. Esistono anche opere che sfuggono all'influenza di Raffaello. Domenico Beccafumi mette in scena la battaglia nei cieli, con gli spiriti degli sconfitti che precipitano in una voragine infuocata. Anche Giorgio Vasari affrontò il tema, riducendo però i contendenti: sette angeli in posa guerriera, agli ordini di Michele; e sette ribelli guidati da Satana. Il numero allude ai peccati capitali e alla loro punizione.

Questa idea dell'Inferno, nato dalla caduta del diavolo, inghiottito dalla Terra, nasce da un equivoco. La fonte infatti è l'Apocalisse. Giovanni descrive una battaglia nei cieli tra una donna vestita di sole, con la luna sotto i piedi, e un drago rosso con sette teste e dieci corna. La donna è incinta e partorisce un bimbo. Il neonato fugge in cielo, la madre si allontana nel deserto. A questo punto, Michele attacca e sconfigge la bestia, che precipita a terra. Giovanni prende spunto dalle immagini infernali della tradizione giudaica. Ma probabilmente voleva rappresentare lo scontro tra la vera chiesa di Cristo e le eresie. Il passo però era troppo invitante, e divenne subito la storia del diavolo ribelle (il dragone) abbattuto da Michele. La Terra si ritrae e Satana sprofonda, dando vita all'Inferno.

C'è poi il versante teologico, piuttosto complesso. Rinviando al saggio per i dettagli, qui notiamo alcune cose. Il peccato di Satana è variamente descritto ma in sostanza consiste in un orgoglio così forte da spingere a una ribellione già sconfitta in partenza. Ma Satana può decidere e sceglie l'impossibile battaglia. Il diavolo perseguita gli uomini perché non può sopportare che Dio abbia preferito incarnarsi in una creatura insignificante. Ecco spiegata la presenza del Male nella storia. La Chiesa ha sempre insistito sulla realtà concreta e non metaforica dell'Inferno. Ecco spiegata l'esigenza di descriverlo. La voragine risponde a un duplice scopo: spaventare il fedele ma anche mantenerlo sulla retta via. La struttura dell'Inferno riflette l'andamento del dibattito: quello della Controriforma è diverso da quello medievale; quello illuministico e moderno è una risposta a quello uscito dal Concilio di Trento. La dannazione assume contorni più sfumati fino a sparire del tutto, secondo la famosa immagine dell'Inferno totalmente vuoto di Hans Urs von Balthasar (1905-1988). Il punto è l'amore infinito di Dio e non il suo spirito vendicativo. Abbiamo ancora paura dell'Inferno? Indagini, risalenti al 2009, dimostrano che la prigione eterna è temuta dal 41,8 per cento degli italiani. E dire che la nostra società sembra infastidita dal solo parlare di Bene e Male con la maiuscola. Ci siamo già assolti senza bisogno del prete. Figuriamoci se possiamo credere all'Inferno... Eppure molti temono ancora il signore oscuro. D'altronde, l'oscurità ce l'abbiamo nel cuore e dobbiamo lottare per non perderci del tutto.

L'Inferno è anche lo specchio di ciò che ci fa paura dentro e fuori di noi. Sarà vuoto ma resta la libertà, forse la tentazione, di coltivare il male e autoconfinarsi nell'antro eterno, dove le fiamme e il ghiaccio tormentano le anime di chi ha scelto di negare la speranza.


domenica 22 settembre 2024

Il labirinto della Masone

di Cavaliere Vermiglio


Sono stato al labirinto della Masone. Il complesso è costida un labirinto di bambù più un edificio in stile egizio. L'uscita del labirinto è costituita da un passaggio sotto una piramide. Nel piano superiore della piramide c'è una sala con un labirinto disegnato sul pavimento il cui centro corrisponde al vertice della piramide. L'insieme ha un orientamento est-ovest. In uno dei pannelli era riportata la frase di Franco Maria Ricci in cui dichiarava che la piramide non fosse massonica, ma cattolica. Sarà stato così nelle intenzioni dell'ideatore, però mi è sembrato di essere in un luogo magico in cui l'unione di due potenti simboli come il labirinto e la piramide potesse aprire altre realtà. Peccato per l'affollamento.

Sarebbe interessante una visita notturna al labirinto, in modo che silenzio e buio possano far nascere un senso di smarrimento ben più evidente rispetto ad una visita alla luce con altre persone. Senso di smarrimento che alluderebbe al senso di smarrimento dell'anima di fronte a Dio.