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martedì 29 maggio 2012
Zolla, gli occhiali magici di un visionario razionale
Segnaliamo questo articolo su Elémire Zolla:
La sua lezione per l’oggi è nel corto circuito fra Oriente e Occidente, incanto e tecnica, metafisica ed elettronica
http://www.ilgiornale.it/cultura/zolla_occhiali_magici_visionario_razionale/28-05-2012/articolo-id=589912-page=0-comments=1
lunedì 28 maggio 2012
Le fate venute dalle stelle
di
Nicoletta Camilla Travaglini
Una teoria molto suggestiva portata avanti da Fieber nella quale sostiene che le fate siano, in realtà, delle creature venute dallo spazio.
L’autore di tale ipotesi dice a questo proposito:
Quando ero bambino, si narra in una raccolta di fiabe irlandesi, udivo mio nonno parlare del magico popolo che vive sulle colline…
Egli era fermamente convinto che le fate esistessero veramente e non si recò mai nelle paludi a raccogliere la torba, senza essere spiritualmente preparato a incontrarne qualcuna…
Diceva che in cielo c’era stato una guerra fra Dio e gli angeli e che per quaranta giorni e quaranta notti di seguito il Padreterno aveva scacciato angeli dal cielo gettandoli verso la Terra. Alcuni erano rimasti sospesi in aria, altri invece erano arrivati fin quaggiù, chi toccava la terraferma, chi cadendo in mare. Un giorno udì un uomo dire che se il giorno del Giudizio Universale avessero perduto la speranza di poter rientrare in Cielo avrebbero distrutto la Terra.
Fieber ci dice anche da dove proverebbero queste magiche creature:
…Fattosi improvvisamente serio, mi rimproverò, diventando serio di aver conosciuto un decano che non solo aveva visto con i propri occhi questi piccoli esseri, ma aveva anche parlato con loro: gli avrebbero rivelato di essere abitanti della Luna.
L’idea che ci si faceva allora della patria delle fate, degli elfi e dei folletti era però completamente diversa; W. Evans-Wentz la descrive come un mondo invisibile, nel quale il nostro pianeta sarebbe immerso, come un’isola sprofondata in un immenso oceano. Gli abitanti di “quest’altra Terra” erano normalmente immaginati come esseri più piccoli dell’uomo terrestre, ma avevano il potere di trasformarsi anche in giganti. Quelli che mantenevano almeno per metà sembianze umane erano molto amati e preferito agli altri. Usavano a volte i loro poteri per rapire uomini che, dopo avere stordito, tenevano prigionieri. A volte rubavano loro cereali e bestiame ma in altre occasioni potevano anche mostrarsi generosi e disponibili. Nel complesso, però, non esistevano fate, folletti e gnomi che fossero “buoni” in modo assoluto; tutti potevano all’improvviso e senza motivo, diventare cattivi e vendicativi.
… Gli Algonkini si tramontavano una leggenda secondo cui un giorno un cacciatore di questa stirpe scoprì in una radura un cerchio d’erba schiacciata. Si nascose fra i cespugli e di lì a poco vide scendere dal cielo un cesto nel quale sedeva un gruppo di donne meravigliose che, scese dal cesto, si misero a danzare in cerchio. Il cacciatore attese il momento propizio, poi afferrò una delle donne e la trascinò via con sé. Spaventate, le altre rifugiatesi di nuovo nel cesto, che venne velocemente tirato su e in un attimo sparì fra le nuvole. L’indiano condusse la donna nella sua tenda e, poco tempo che vivevano insieme, lei gli dette un figlio ma, approfittando di un momento in cui non era sorvegliata, fuggì nella radura col il bambino, dove intrecciò un nuovo cesto magico con le sue mani. Appena vi fu salita col il bimbo, volò in cielo a raggiungere le compagne e non tornò mai più.
Note
1) FIEBAG, Johannes Gli Alieni Contatti con intelligenze extraterrestri Edizioni Mediterranee, Roma 1994, pag.40.
2) FIEBAG, Johannes op. cit., pag. 41, 44, 45.
Una teoria molto suggestiva portata avanti da Fieber nella quale sostiene che le fate siano, in realtà, delle creature venute dallo spazio.
L’autore di tale ipotesi dice a questo proposito:
Quando ero bambino, si narra in una raccolta di fiabe irlandesi, udivo mio nonno parlare del magico popolo che vive sulle colline…
Egli era fermamente convinto che le fate esistessero veramente e non si recò mai nelle paludi a raccogliere la torba, senza essere spiritualmente preparato a incontrarne qualcuna…
Diceva che in cielo c’era stato una guerra fra Dio e gli angeli e che per quaranta giorni e quaranta notti di seguito il Padreterno aveva scacciato angeli dal cielo gettandoli verso la Terra. Alcuni erano rimasti sospesi in aria, altri invece erano arrivati fin quaggiù, chi toccava la terraferma, chi cadendo in mare. Un giorno udì un uomo dire che se il giorno del Giudizio Universale avessero perduto la speranza di poter rientrare in Cielo avrebbero distrutto la Terra.
Fieber ci dice anche da dove proverebbero queste magiche creature:
…Fattosi improvvisamente serio, mi rimproverò, diventando serio di aver conosciuto un decano che non solo aveva visto con i propri occhi questi piccoli esseri, ma aveva anche parlato con loro: gli avrebbero rivelato di essere abitanti della Luna.
L’idea che ci si faceva allora della patria delle fate, degli elfi e dei folletti era però completamente diversa; W. Evans-Wentz la descrive come un mondo invisibile, nel quale il nostro pianeta sarebbe immerso, come un’isola sprofondata in un immenso oceano. Gli abitanti di “quest’altra Terra” erano normalmente immaginati come esseri più piccoli dell’uomo terrestre, ma avevano il potere di trasformarsi anche in giganti. Quelli che mantenevano almeno per metà sembianze umane erano molto amati e preferito agli altri. Usavano a volte i loro poteri per rapire uomini che, dopo avere stordito, tenevano prigionieri. A volte rubavano loro cereali e bestiame ma in altre occasioni potevano anche mostrarsi generosi e disponibili. Nel complesso, però, non esistevano fate, folletti e gnomi che fossero “buoni” in modo assoluto; tutti potevano all’improvviso e senza motivo, diventare cattivi e vendicativi.
… Gli Algonkini si tramontavano una leggenda secondo cui un giorno un cacciatore di questa stirpe scoprì in una radura un cerchio d’erba schiacciata. Si nascose fra i cespugli e di lì a poco vide scendere dal cielo un cesto nel quale sedeva un gruppo di donne meravigliose che, scese dal cesto, si misero a danzare in cerchio. Il cacciatore attese il momento propizio, poi afferrò una delle donne e la trascinò via con sé. Spaventate, le altre rifugiatesi di nuovo nel cesto, che venne velocemente tirato su e in un attimo sparì fra le nuvole. L’indiano condusse la donna nella sua tenda e, poco tempo che vivevano insieme, lei gli dette un figlio ma, approfittando di un momento in cui non era sorvegliata, fuggì nella radura col il bambino, dove intrecciò un nuovo cesto magico con le sue mani. Appena vi fu salita col il bimbo, volò in cielo a raggiungere le compagne e non tornò mai più.
Note
1) FIEBAG, Johannes Gli Alieni Contatti con intelligenze extraterrestri Edizioni Mediterranee, Roma 1994, pag.40.
2) FIEBAG, Johannes op. cit., pag. 41, 44, 45.
domenica 20 maggio 2012
"Vampiri" a Trani Metti un masso sul morto iapigio
Tratto dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 3/3/2002
Due tombe, per quattro defunti: furono inumati senza onoranze funebri e in posizione prona, con un macigno addosso.L’inquietante ipotesi degli antropologi: erano reietti che non dovevano assolutamente tornare tra i vivi
"Vampiri" nell’antica Trani. E ciò che hanno sospettato archeologi e antropologi di fronte alle due sconcertanti tombe iapigie emerse a Capo Colonna. Qui qualcosa di unico nella storia degli scavi in Puglia - nonché della ritualità funebre antica - si è parato davanti agli occhi dell’archeologa Ada Riccardi della Sovrintendenza. Nella sepoltura più piccola era deposto un cadavere in posizione prona, inginocchiato, schiacciato da un lastrone piazzatogli sulla spalla; nel secondo sepolcro, invece, tre erano i defunti, anch’essi inumati, ognuno con un proprio masso addosso.
Lo scavo è stato condotto dalla Riccardi nel 2001. Ma la notizia, per evidente cautela, non era trapelata finora.
Durante gli scavi precedenti effettuati negli anni ‘70 a Capo Colonna, la penisoletta di Trani dove sorge il bel Monastero che sarà sede museale, non erano emerse sepolture: si trovarono invece tracce di insediamenti dell’età del Bronzo e anche fondi di capanna dell’età del Ferro, delimitate da un fossato. Furono recuperati reperti tardo-elladici e micenei (secondo la testimonianza dell’archeologo di allora: ma nessuno li ha mai visti, né sembra siano stati mai pubblicati!). Lo scorso anno però si ripresero le indagini in una zona limitrofa e riaffiorarono strutture di ambienti, con un cortile che doveva essere in origine lastricato (lo si deduce dal "vespaio" di ciottoli di mare disseminati, che avrebbero dovuto formare il sottofondo). Le pareti di questo edificio presentavano una originalità. i paramenti esterni dei muri erano costituiti da lastroni infissi verticalmente nel terreno. Una tecnica costruttiva mai attestata per l’antica Peucezia (o per la Daunia, visto che Trani allora sorgeva sul confine tra queste due popolazioni). D’altronde si doveva trattare, quasi certamente di un luogo di culto.
In questi ambienti sono riafforati frammenti di ceramica iapigia (un’olla ed altri cocci di vasi) che rimandano a una decorazione tipicamente daunia. Stravagante è il disegnino di uno dei frammenti, che raffigura un bipede con una voluminosa cresta, nonché una lunga coda da rettile. Il loro "stile" indica con ogni verosimiglianza la datazione dell’intero insediamento e quindi delle tombe. Tutto dunque farebbe pensare alla fine del IX o all’inizio dell’VIII secolo avanti Cristo.
Una fossa circolare fu scavata accanto alla parete dell’edificio maggiore. A che cosa servisse? Resta per ora una domanda senza risposta; e ancora più intrigante è aver constatato che nell’interno del pozzetto fossero stati infisse delle pietre. Certo un rito, di cui ci sfugge il senso.
Tuttavia il culmine del mistero di questo scavo a Capo Colonna non è certo la fossa, quanto le due tombe: che di per sé costituiscono una eccezionalità per questa epoca. Una di esse è all’interno all’edificio, l’altra, più piccola, è esterna, si direbbe nel "cortile".
Come si è detto, in quest’ultima sepoltura fu deposto - ben duemila e ottocento anni fa - un uomo in una posizione ben strana: quasi inginocchiato, prono, con addosso un lastrone. Identica fine fu riservata ai tre defunti ammassati nella tomba più vasta, anch’essi seppelliti con un macigno addosso. Il primo è un adulto maschio - ci dice il prof Vito Scattarella del Dipartimento di Zoologia, sezione Antropologica dell’Università di Bari, che con il dottor Sandro Sublimi Saponetti stanno studiando i resti ossei. Gli altri sono due adulti dai venti ai quarant’anni e un ragazzo di quindici anni. L’indagine prosegue, ma nessun segno traumatico è ancor apparso sulle ossa: il che escluderebbe, per ora, una morte violenta, inflitta loro dalla comunità, che pure volle punire questi morti per l’eternità.
Che si trattasse di sepolture di reietti era emerso da vari indizi: non solo l’imposizione dei massi, ma anche la mancanza di qualsiasi elemento a corredo funebre: neppure un frammentino di ceramica fu adagiato nelle tombe. Eppure i loro corpi non furono lasciati insepolti o gettati in mare. Oltre al sasso, i corpi furono coperti da terreno, e le tumulazioni furono sigillate con un lastrone di pietra. È quasi esplicita in un siffatto rituale la volontà di impedire ai defunti un ritorno tra i vivi. E a un fenomeno di "vampirismo" hanno pensato gli antropologi baresi Scattarella e Sublimi. Le deposizioni di Trani, pur essendo uniche in Italia, hanno dei riscontri con altre scoperte dagli archeologi nel nord della Grecia: fu la studiosa greca Anastasia Tsaliki (ora docente in Inghilterra) a rivelare in alcuni congressi di antropologia la permanenza di rituali funebri di questo genere, dall’età neolitica fino ai giorni nostri. Il masso imposto al defunto doveva impedire che, egli tornasse a portare scompiglio nella comunità dei vivi. Naturalmente quando si parla di "vampirismo" non ci si vuol riferire al mondo dell’orrore, come lo intendiamo oggi. E tuttavia questi trapassati dovevano essere affetti da morbi connessi con la manifestazione del sangue, sostengono gli antropologi: quali la fotofobia, la porfiria, la tubercolosi polmonare, la rabbia ecc...
Su quali fonti letterarie o documentali dell’antichità si basi questa convinzione, non è dato ancora sapere con precisione. Ma certo, l’indagine non finisce qui, e di queste sepolture si continuerà a parlare.
Macigni, ritorni dal mondo dei morti… Un nesso non nuovo: il più immediato riscontro che il mito può fornirci - se vogliamo stare al gioco - è quello di un celebre "revenant": Sisifo. L’astuto fondatore di Corinto, che aveva incatenato la Morte, e una volta defunto aveva ingannato anche gli dèi degli inferi ed era tornato a vivere (uno dei rarissimi casi di "zombi" nel mito) fu punito con un masso da sospingere per l’eternità. Perché aveva osato l’impossibile "ritorno".
Giacomo Annibaldis
La coincidenza
Qui Davanzati scrisse nel ‘700 il suo trattato "sopra i vampiri" È solo una coincidenza. Ma è stravagante che si parli di "vampirismo" nell’antica Trani, nella città in cui fu "incubato" - duemilacinquecento anni dopo l’inumazione di questi defunti iapigi - il primo trattato completo sui "revenants": quella "Dissertazione sopra i vampiri" scritta nel 1739-40 da Giuseppe Davanzati, che di Trani era in quegli anni arcivescovo e vi mori nel 1755 (era nato a Bari nel 1665). La "Dissertazione" era un’anatomia completa e illuministica non solo del diffuso fenomeno del vampiro, ma di tutto il luna park dell’orrore. Pubblicata postuma nel 1774 dal nipote Forges Davanzati, è stato riproposta nel 1998 da Besa editrice.
Due tombe, per quattro defunti: furono inumati senza onoranze funebri e in posizione prona, con un macigno addosso.L’inquietante ipotesi degli antropologi: erano reietti che non dovevano assolutamente tornare tra i vivi
"Vampiri" nell’antica Trani. E ciò che hanno sospettato archeologi e antropologi di fronte alle due sconcertanti tombe iapigie emerse a Capo Colonna. Qui qualcosa di unico nella storia degli scavi in Puglia - nonché della ritualità funebre antica - si è parato davanti agli occhi dell’archeologa Ada Riccardi della Sovrintendenza. Nella sepoltura più piccola era deposto un cadavere in posizione prona, inginocchiato, schiacciato da un lastrone piazzatogli sulla spalla; nel secondo sepolcro, invece, tre erano i defunti, anch’essi inumati, ognuno con un proprio masso addosso.
Lo scavo è stato condotto dalla Riccardi nel 2001. Ma la notizia, per evidente cautela, non era trapelata finora.
Durante gli scavi precedenti effettuati negli anni ‘70 a Capo Colonna, la penisoletta di Trani dove sorge il bel Monastero che sarà sede museale, non erano emerse sepolture: si trovarono invece tracce di insediamenti dell’età del Bronzo e anche fondi di capanna dell’età del Ferro, delimitate da un fossato. Furono recuperati reperti tardo-elladici e micenei (secondo la testimonianza dell’archeologo di allora: ma nessuno li ha mai visti, né sembra siano stati mai pubblicati!). Lo scorso anno però si ripresero le indagini in una zona limitrofa e riaffiorarono strutture di ambienti, con un cortile che doveva essere in origine lastricato (lo si deduce dal "vespaio" di ciottoli di mare disseminati, che avrebbero dovuto formare il sottofondo). Le pareti di questo edificio presentavano una originalità. i paramenti esterni dei muri erano costituiti da lastroni infissi verticalmente nel terreno. Una tecnica costruttiva mai attestata per l’antica Peucezia (o per la Daunia, visto che Trani allora sorgeva sul confine tra queste due popolazioni). D’altronde si doveva trattare, quasi certamente di un luogo di culto.
In questi ambienti sono riafforati frammenti di ceramica iapigia (un’olla ed altri cocci di vasi) che rimandano a una decorazione tipicamente daunia. Stravagante è il disegnino di uno dei frammenti, che raffigura un bipede con una voluminosa cresta, nonché una lunga coda da rettile. Il loro "stile" indica con ogni verosimiglianza la datazione dell’intero insediamento e quindi delle tombe. Tutto dunque farebbe pensare alla fine del IX o all’inizio dell’VIII secolo avanti Cristo.
Una fossa circolare fu scavata accanto alla parete dell’edificio maggiore. A che cosa servisse? Resta per ora una domanda senza risposta; e ancora più intrigante è aver constatato che nell’interno del pozzetto fossero stati infisse delle pietre. Certo un rito, di cui ci sfugge il senso.
Tuttavia il culmine del mistero di questo scavo a Capo Colonna non è certo la fossa, quanto le due tombe: che di per sé costituiscono una eccezionalità per questa epoca. Una di esse è all’interno all’edificio, l’altra, più piccola, è esterna, si direbbe nel "cortile".
Come si è detto, in quest’ultima sepoltura fu deposto - ben duemila e ottocento anni fa - un uomo in una posizione ben strana: quasi inginocchiato, prono, con addosso un lastrone. Identica fine fu riservata ai tre defunti ammassati nella tomba più vasta, anch’essi seppelliti con un macigno addosso. Il primo è un adulto maschio - ci dice il prof Vito Scattarella del Dipartimento di Zoologia, sezione Antropologica dell’Università di Bari, che con il dottor Sandro Sublimi Saponetti stanno studiando i resti ossei. Gli altri sono due adulti dai venti ai quarant’anni e un ragazzo di quindici anni. L’indagine prosegue, ma nessun segno traumatico è ancor apparso sulle ossa: il che escluderebbe, per ora, una morte violenta, inflitta loro dalla comunità, che pure volle punire questi morti per l’eternità.
Che si trattasse di sepolture di reietti era emerso da vari indizi: non solo l’imposizione dei massi, ma anche la mancanza di qualsiasi elemento a corredo funebre: neppure un frammentino di ceramica fu adagiato nelle tombe. Eppure i loro corpi non furono lasciati insepolti o gettati in mare. Oltre al sasso, i corpi furono coperti da terreno, e le tumulazioni furono sigillate con un lastrone di pietra. È quasi esplicita in un siffatto rituale la volontà di impedire ai defunti un ritorno tra i vivi. E a un fenomeno di "vampirismo" hanno pensato gli antropologi baresi Scattarella e Sublimi. Le deposizioni di Trani, pur essendo uniche in Italia, hanno dei riscontri con altre scoperte dagli archeologi nel nord della Grecia: fu la studiosa greca Anastasia Tsaliki (ora docente in Inghilterra) a rivelare in alcuni congressi di antropologia la permanenza di rituali funebri di questo genere, dall’età neolitica fino ai giorni nostri. Il masso imposto al defunto doveva impedire che, egli tornasse a portare scompiglio nella comunità dei vivi. Naturalmente quando si parla di "vampirismo" non ci si vuol riferire al mondo dell’orrore, come lo intendiamo oggi. E tuttavia questi trapassati dovevano essere affetti da morbi connessi con la manifestazione del sangue, sostengono gli antropologi: quali la fotofobia, la porfiria, la tubercolosi polmonare, la rabbia ecc...
Su quali fonti letterarie o documentali dell’antichità si basi questa convinzione, non è dato ancora sapere con precisione. Ma certo, l’indagine non finisce qui, e di queste sepolture si continuerà a parlare.
Macigni, ritorni dal mondo dei morti… Un nesso non nuovo: il più immediato riscontro che il mito può fornirci - se vogliamo stare al gioco - è quello di un celebre "revenant": Sisifo. L’astuto fondatore di Corinto, che aveva incatenato la Morte, e una volta defunto aveva ingannato anche gli dèi degli inferi ed era tornato a vivere (uno dei rarissimi casi di "zombi" nel mito) fu punito con un masso da sospingere per l’eternità. Perché aveva osato l’impossibile "ritorno".
Giacomo Annibaldis
La coincidenza
Qui Davanzati scrisse nel ‘700 il suo trattato "sopra i vampiri" È solo una coincidenza. Ma è stravagante che si parli di "vampirismo" nell’antica Trani, nella città in cui fu "incubato" - duemilacinquecento anni dopo l’inumazione di questi defunti iapigi - il primo trattato completo sui "revenants": quella "Dissertazione sopra i vampiri" scritta nel 1739-40 da Giuseppe Davanzati, che di Trani era in quegli anni arcivescovo e vi mori nel 1755 (era nato a Bari nel 1665). La "Dissertazione" era un’anatomia completa e illuministica non solo del diffuso fenomeno del vampiro, ma di tutto il luna park dell’orrore. Pubblicata postuma nel 1774 dal nipote Forges Davanzati, è stato riproposta nel 1998 da Besa editrice.
giovedì 17 maggio 2012
Il mistero delle Pleiadi
di Nicoletta Travaglini
|
L’antropomorfismo
delle civiltà antiche portò alla personificazione delle montagne o alture nelle
quali si credette di ravvisare divinità e personaggi mitologici dall’aspetto
umano.
Anche la Majella , massiccio
montuoso dell’Abruzzo, divenne, agli occhi dei suoi primi abitanti, una
divinità. Il suo nome deriva dalla Magna Mater italica Maja, che
significherebbe, secondo alcuni, cresta,montagna; secondo altri grandezza
intesa come forza o potenza; infine taluni hanno creduto di ravvisare in esso
la radice del nome “Amazzone”.
In molte leggende nate in
Abruzzo si parla di gigantesse guerriere chiamate “Majellane”, che indossavano
grossi orecchini di forma circolare e collane costituite da enormi sfere
sfaccettate.
Maia
o Maja era una di queste donne colossali che insieme al suo unico figlio fuggì
dalla Frigia per riparare nel porto di Ortona, dove con il ragazzo ferito in
battaglia tra le braccia, in groppa a un veloce destriero, per sfuggire ai suoi nemici, si rifugiò tra
gli anfratti, i boschi e le rocciose vette delle montagne abruzzesi dove,
malgrado le sue cure, egli morì di lì a poco. Allora, lo seppellì sulla terza
vetta del Gran Sasso andando da Oriente verso Occidente.
La
disperazione di Maja fu così forte che nel giro di poco tempo morì anche lei e
fu seppellita in montagna che in suo onore fu chiamata Majella, il mausoleo
della Magna Mater abruzzese.
In
un'altra leggenda si racconta che Maja era la più bella delle sette Pleiadi di
cui si innamorò Zeus, fu anche la moglie di Vulcano e la madre di Ermes. Sul
Monte Pallano, essa cercò le erbe per curare suo figlio, il quale, nel giro di
poco tempo, perì.
Di fronte all’imponente profilo del
massiccio montuoso della Majella, in Abruzzo e più precisamente, nella provincia
di Chieti, si staglia il Monte Pallano; un colle sulla cui sommità svetta il
simbolo della società moderna e tecnicizzata:
il ripetitore tv e antenne per la telefonia mobile; poche balze più in
basso, però, vi sono i ruderi di un’
antica città, delimitata da una possente cinta muraria, composta da blocchi di
pietra calcarea sovrapposti a secco.
Il
Monte Pallano è alto all’incirca 1020 metri ed è avvolto da una fitta
vegetazione che va dalle querce fino ai
lecci, passando per i cerri e faggi.
Il
suo territorio è diviso tra il comune di Archi, Atessa, Tornareccio e Bomba. La
fauna che popola questo primitivo angolo d’Abruzzo è composto da: volpi, tassi,
lepri, qualche cinghiale, ovviamente i serpenti, ramarri e uccelli rapaci
notturni e diurni.
Questo
luogo funge da spartiacque tra la valle del Sangro e quella dell’Osento. Dalla
sommità di questo monte lo sguardo si perde sulle cime dell’Appennino
Marchigiano fino a immergersi nelle coste della ex Jugoslavia, sostando sul
Faro di Puntapenna a Vasto, e sull’antica Abbazia di Santo Stefano ad Riva
Maris, potente monastero distrutto dai mori.
L’aspetto
peculiare di Monte Pallano è costituito da mura ciclopiche che si ergono per
circa 163 metri
in prossimità della vetta, raggiungono l’altezza e lo spessore di circa 5 metri ; essi risultano leggermente inclinati
rispetto al terreno circostante e recingono solo parte del versante di
Tornareccio, poiché il resto è difeso dall’asperità del paesaggio come:
canaloni, vegetazione intricata, angusti viottoli, rocce etc.
In passato, vi si accedeva tramite quattro
porte molto strette, di cui solo tre sono, al momento, visibili, di cui, una,
ancora in fase di recupero, poiché nel 1971, fu distrutta a causa di un
allargamento di una strada rurale. La più grande e la meglio conservata viene
chiamata “Porta del Piano”, l’altro ingresso più basso è chiamato “Porta del
Monte”; queste anguste aperture, che
hanno la trave principale costituita da un monolite unico, servivano per il
passaggio di una persona per volta o di un unico cavaliere, così in caso di
attacco nemico, esse potevano essere
facilmente sorvegliato.
Il
suo toponimo potrebbe derivare dal nome della dea Pale, protettrice dei pastori
a cui si tributavano offerte per propiziare fecondità e salute delle greggi.
La
dea Pale, che spesso è rappresentata
anche come un dio, ha molte caratteristiche simili a Eracle – Ercole, questo
fatto è suffragato anche da ritrovamenti fatti nella zona di Pallano. Eracle era l’eroe nazionale greco, ma il suo
mito si diffuse anche in Oriente, in Europa e ovviamente preso gli Italici.
Egli, come le dee Pale, Bona, Maia e in generale le divinità agresti, erano i
numi tutelari dell’agricoltura e di tutto ciò che era legato ad esso, inoltre
si invocava questo semidio anche per la stipula di contratti, in quanto egli
era anche il protettore della “parola data” e “della buona fede”. Veniva,
spesso, rappresentato con la clava e la
pelle leonina addosso, con arco e faretra, e presso gli Italici indossava la
corazza; aveva quasi sempre la barba ed era nudo con una possente muscolatura. Egli nutriva dell’astio nei confronti della
dea Maia – Bona, la quale si rifiutò di farlo bere alla sua fonte durante le
celebrazioni dei riti annuali ad ella dedicati, ai quali erano interdetti gli
uomini. Ercole – Eracle stanco ed affaticato per l’ennesima fatica patita, non
si era reso conto della situazione e così da quell’episodio disdicevole che
nacque il divieto alle donne di partecipare ai riti in onore dell’eroe.
Il
sincretismo cristiano assimilò questo eroe mitologico con Sant’Antonio Abate o
del deserto, del fuoco o del porcello con connotazioni prettamente agricole;
infatti, ancora oggi, è in uso, presso i contadini invocare il Santo per
propiziare la fecondità del bestiame. Molte sono le analogie tra questi due
personaggi, per esempio come il suo archetipo, Antonio ha la barba, combatte
con le entità infernali ed è nato in oriente. Inoltre nella zona pedemontana di
Pallano, all’incrocio delle grandi arterie tratturali del passato, e
sull’attuale strada a scorrimento veloce Fondo Valle Sangro, sorge il Ponte di Sant’Antonio dalla vicina
chiesa a lui dedicata.
Tuttavia
non si può escludere che il toponimo Pallano potrebbe derivare dal nome della dea della sapienza Pallade ma
non vi sono molto elementi a supporto di tale tesi.
Alcune fonti ritengono,
invece, che il nome provenga dal termine
osco “Pala” che significa
rotondità o altura.
I
megaliti, comunque, non erano costruzioni obsolete, poiché se ne contano più di
duecento solo nella zona dell’alto e basso Sangro; questo complesso di
recinzioni, si ritiene, che facessero parte di una più ampia rete di elementi
difensivi disseminati in punti strategici, che si tenevano in contatto
attraverso segnali ottici notturni e diurni.
Il
Monte Pallano, doveva, presumibilmente, essere, per la sua particolare
conformazione geomorfologia, un punto strategicamente fondamentale e un sicuro
baluardo contro la colonizzazione ellenica, in quanto rappresentava l’ultima
montagna prima del mare.
Questa
cinta muraria sono le vestigia di antiche civiltà preistoriche la cui origine
si perde nella notte dei tempi, giacché, essa, data intorno al IV - VI secolo
a. C., sembra essere stata edificata su elementi preesistenti.
La
presenza umana, in questi luoghi, si fa
risalire a circa 20000 anni fa e anche se rara,
essa era basata su gruppi più o meno organizzati.
Nel
millennio che definiamo come Età del Ferro, o meglio la fine dell’Età del
Bronzo e l’inizio dell’Età del Ferro,
che viene circoscritta dal 1020 fino al III secolo a.C., la penisola italiana
era costituita da un mosaico di popoli con usi e costumi diversi: l’area
settentrionale e meridionale era influenzata dalla cultura ellenico-orientale,
il centro, invece, era organizzato in confederazioni su modello centroeuropeo.
Una
differenza fondamentale tra queste due aree di influenza era il modo di
seppellire i morti; quelle popolazioni
affine alla cultura
greco-orientale, bruciavano il loro defunti e ne conservavano i resti in urne
bronzee, invece gli altri li tumulavano in fosse che venivano ricoperte da
tumuli di terra.
Nel
centro Italia, cioè nella Sabina, Abruzzo, Molise, Campania e Basilicata vi
erano stanziati i Sabini, Peligni, Marruccini, Marsi Aequi, Vestini, Pretuzi,
Frentani, Pentrini, Carracini, Sabelli, Sanniti e Umbri che venivano
genericamente definiti, dall’etimo osco, “Safin” . I Frentani, invece,
occupavano la fascia costiera del Molise e la parte centrale litorale
dell’attuale territorio chietino. Una popolazione affine ad essi occupava la
destra del fiume Sangro ed era chiamata Lucani o Lucanati e risultavano culturalmente
analoghi agli altri popoli del centro peninsulare definiti, poi, dai romani
come Italici.
Questi
popoli erano il risultato dell’unione tra pacifici agricoltori autoctoni e
pastori guerrieri cercatori di metalli provenienti dalla zona egeo – anatolica,
apportatori di tecniche superiori come la transumanza, praticamente sconosciuta
presso i popoli neolitici.
Nel
I millennio a. C. con l’affermarsi della cultura agreste tipica dei Piceni, la
pastorizia fu relegata solo alle zone montane interne. In seguito con l’avvento
dei bellicosi Sabelli si diede un nuovo impulso alla pastorizia, la quale per
varie ragioni si praticò solo verticalmente, cioè dai monti alle valli
circostanti; per favorire tale tecnica essi edificarono i Vici, villaggi agro pastorali,
situati in pianura erano difesi dagli Oppida, borghi costruiti su alture e
protette da possenti mura, simili a quelli del Monte Pallano.
Il
primo insediamento di cui abbiamo traccia in questa zona di Pallano è quello
adiacente all’incavo naturale chiamato Lago Nero, che oggi risulta
completamente asciutto, che si ubicava nei pressi della cima del monte. Questo
lago, che si riempiva solo in determinate condizioni climatiche, era
considerato dall’uomo di Pallano, come una divinità alla quale erano tributati
culti magico-misterici correlate, alla presenza o meno delle sue acque.
In
questo contesto mistico legato all’acqua, che i Lucanati probabilmente,
celebravano anche i riti della Primavera Sacra o Ver Sacrum, durante la quale
un capo, in questo caso il Nerf, principe guerriero con poteri assoluti,
compreso quello religioso, consacrava, forse al Lago Nero, tutti gli esseri
viventi che sarebbero nati nella primavera successiva, i quali una volta
adulti, venivano allontanati dal consorzio civile perché appartenete alla deità
e con il compito di colonizzare nuove terre lontane. In realtà molto di coloro
che venivano offerti come ex voto risultavano poco gradite alla comunità; questi si riunivano, spesso, in
vere e proprie milizie paramilitari fuorilegge che terrorizzavano la zona e non
solo.
Questo
culto era connesso anche alla dea Maja o Maia, la Grande Madre ,
chiamata anche Vergiliae per il suo stretto rapporto con la primavera di cui ne
era una epifania.
Il nome Maia, tra i tanti significati che gli
sono stati attribuiti, c’è anche quello di accrescimento, sviluppo e fertilità
del suolo, nonché essa da il nome al mese di Maggio, cioè, il mese in cui si
risveglia Madre Natura ed è anche quello dedicato alla Vergine Maria.
Maia,
come abbiamo detto, era una gigantessa
facente parte delle mitiche amazzoni e secondo vox populi, i Megaliti Palatini
sono stati costruiti da uomini mastodontici, i quali risiedevano all’interno
delle mura e andavano a lavorare in Puglia.
Essi
erano, secondo alcuni miti medioevali abruzzesi, i Paladini o Palladini di Carlo Magno che la fantasia popolare ha
associato ad alcuni scheletri enormi ritrovati nella zona. Intorno al 1954
circa, infatti, si stavano ultimando dei lavori per la costruzione di una
strada quando venne alla luce uno scheletro di un uomo alto circa tre metri che
calzava dei parastinchi, tra lo stupore generale egli venne tolto dallo scavo,
ma siccome i lavori dovevano andare avanti ed il più velocemente possibile, lo
scheletro gigante fu occultato e di esso non si seppe più niente.
Questa
cinta muraria non aveva comunque, solo valenza difensiva, ma era anche un luogo
di culto dedicato, presumibilmente, alla Grande Madre, il quale posto su un
monte poteva fungere, forse, da osservatorio astronomico orientato verso le
stelle chiamate Pleiadi.
Le
Pleiadi fanno parte della costellazione del Toro che nonostante il loro scarso
splendore, se comparato alle vicine Orione e Aldebaran, hanno, da
sempre,suscitato interesse negli astronomi di tutte le epoche, che hanno visto
in esse un qualcosa di misterioso e arcano.
Intorno
al 2500 a .C.
questo gruppo di stelle, acquistano una notevole importanza presso gli abitanti
della Mesopotamia, in quanto il loro sorgere corrispondente all’equinozio
primaverile, che coincideva con il loro capodanno.
I
greci le intitolarono il grande anno processionale, consistente in circa 26
mila anni solari, che venne chiamato, appunto, “Il grande anno delle Pleiadi”,
che, però, nei secoli successivi prese il nome di “anno platonico”.
Nell’antichità
ai marinai, la loro apparizione nel cielo primaverile, cioè il 10 maggio,
indicava il periodo dell’anno propizio alla navigazione, dopo il riposo
invernale, il quale si concludeva l’11 novembre quando esse divenivano
invisibili. Questo lasso di tempo era chiamato dai Celti All Hallows Evens,
cioè il tempo in cui i vivi potevano incontrare i morti, che il sincretismo
cristiano trasformò nella festa di “Ognisanti”.
In
passato, queste stelle erano visibili dalla primavera in poi, oggi, a causa
della precessione degli equinozio, sono visibili dalla metà di agosto fino alla
fine di marzo.
Nell’antica
Grecia si narrava che queste sette sorelle, figlie di Pleione e Atlante, prima
della loro mutazione in astri, si erano unite a
dei, partorendo altrettante divinità o eroi, Maja la più vecchia e più
bella, giacendo con il padre degli dei generò, Ermes, come fecero le sue
sorelle con altrettante divinità maschili, la cui stirpe avrebbe fondato città
o imperi, solo Merope essendosi unita ad un mortale aveva interrotto la stirpe
divina; perciò nel momento in cui fu trasformata in stella, insieme alle altre,
vergognandosi della sua scelta affettiva, si celò agli esseri umani.
Parlando
dell’Atlantidi perdute, in un’altra narrazione, non si fa riferimento a Merope,
bensì a Elettra, la quale, dopo la sconfitta di Troia, fondata da suo figlio
Dardano, in preda alla disperazione si rifugiò nel circolo polare Artico da
dove torna ciclicamente con i capelli scompigliati in segno di grande dolore,
cioè come una stella cometa.
Alcuni
miti narrano che queste siano state trasformate in stelle in segno di
riconoscenza per la loro saggezza.
Un’altra
versione del mito si dice che esse piansero così tanto per la sorte del loro
padre che per questo divennero stelle.
Infine
in uno dei tanti racconti popolari nati intorno alle Pleiadi, si dice che un
giorno Pleione e le sue figlie erano in Boezia quando furono aggredite da
Orione, il grande cacciatore, che voleva abusare di loro esse, riuscirono
miracolosamente a fuggire e stettero nascose per cinque anni finché Zeus non le
trasformò in astri del firmamento.
Questo
gruppo di stelle in realtà è composto da oltre novecento corpi celesti ma solo
sei o sette sono visibili ad occhio nudo esse sono: la più scintillante
Alcione, tempesta invernale, Taigete, ninfa della montagna, Asterope, Elettra,
ombra, Maja, fertilità, Merope,
mortalità, e Celano, oscurità.
Il
loro nome deriverebbe dalla parola “navigare” in quanto indicava il periodo
dell’anno più adatto alla navigazione,
potrebbe derivare dalla parola “più” poiché ne sono tante, il loro nome
greco, invece, significa “stormo di
colombe” perché sembra che prima di divenire stelle fossero colombe inseguite
da Orione.
L’insediamento
di Monte Pallano, come si è detto precedentemente era strategicamente ottimo,
per questo esso resistette a lungo alla colonizzazione forzata e violenta dei
romani, che con tre Guerre Sociali,
assoggettarono gli Italici.
Questa
romanizzazione brutale e inevitabile portò anche all’urbanizzazione di quelle
comunità tribali sparse in tutta la valle del Sangro; le quali si aggregarono in vere e proprie
città, come quella che nacque nella zona di Fonte Benedetti quasi alle falde di
Monte Pallano.
Questa città, di cui ignoriamo il nome, che era forse la Palacinum impressa in
alcune monete ritrovate sul posto,
doveva essere molto ricca ed operosa dato che batteva moneta e si
trovava in una posizione particolarmente favorevole al controllo dei traffici
lungo il braccio tratturale secondario
Centurelle-Montesecco, rispetto al più importante tratturo Aquila – Foggia,
oggi in parte inglobata nella strada a scorrimento veloce “Fondo Valle Sangro”.
Nonostante queste buone premesse questa comunità non divenne
mai “Municipio Romano” e, così, gradatamente ma, inesorabilmente, la presenza
antropica dei luoghi divenne sempre più rara e limitata solo ai Tholos, ripari
in pietra usata dai pastori e greggi durante la transumanza.
Durante il Medioevo, molte furono le abbazie e luoghi
di culto che si concentrarono a ridosso della zona pedemontana del monte in
questione. Per una curiosa coincidenza, forse voluta dai suoi costruttori,
lungo la strada che congiunge il mare Adriatico al Monte Pallano vi sono ben
tre chiese dedicate a Santo Stefano: la prima Santo Stefano erga mare, nel
territorio di Vasto, la seconda Santo Stefano rivum maris a Casalbordino, la
terza Santo Stefano in Lucania a Tornareccio. A questa enigmatica casualità si
aggiunge anche un destino comune che unì la storia di questi tre luoghi.
E’ notorio che questo protomartire morì lapidato per
il suo eccessivo zelo nella diffusione del “Verbo” cristiano. Il suo culto
dilagò prepotentemente, dall’oriente fino ad arrivare anche in Abruzzo, poiché
esso si intrecciò indissolubilmente con l’agiografia di Santo Stefano in
Lucania, parroco della zona Frentana, attuale Lanciano e dintorni, che fu
ammazzato barbaramente insieme ai suoi figli dai mori di Pallonio, despota saraceno che viveva nel
castello di Monte Pallano, di cui oggi non si è trovata nessuna traccia se non
nei toponimi. I resti del Santo e dei suoi figli furono trovati diversi secoli
dopo grazie a un sogno premonitore e in quel luogo fu edificata la chiesa che porta
il suo nome. In un'altra versione si dice che Pallonio, da qui, forse, il nome
Pallano, avesse imprigionato i cristiani all’interno dei megaliti affinché
abiurassero il loro credo, e quelli che non lo fecero furono trucidati.
Queste leggende nacquero in seguito alle scorrerie dei
mori che terrorizzavano la costa adriatica e intorno alla prima metà dell’anno
Mille, questa chiesa come le altre tre
dedicate al protomartire furono profanate, saccheggiate e distrutte dai
saraceni, come in una sorta di invisibile e comune destino che associò questi
luoghi di culto.
Santo Stefano in Lucania risorse molto lentamente e
faticosamente, Santo Stefano ad rivum maris, invece ebbe un più rapida ripresa
ma fu profanato per ben tre volte e
quando nel 1566 Pialy Pascià, mise a ferro e fuoco tutta la riviera
adriatica, da Pescara a Termoli, distrusse definitivamente questo luogo sacro,
nato su edifici romani preesistenti Egli, dopo aver preso prigionieri i monaci,
li sevizio e impiccò sui ruderi della chiesa;
così si compì il tragico destino
della potente abbazia di Santo Stefano ad rivum maris.
Sempre durante
l’Evo medio si svilupparono molti miti intorno a questa costruzione atipica,
che venne chiamata anche con l’appellativo di “ Mura del Diavolo” , perché in
alcune leggende si sosteneva che nelle viscere del monte vi fossero seppelliti
ingenti tesori, tutti custoditi da demoni, imprigionati in quei luoghi da
malefici; questa credenza popolare ricorda quella degli indiani d’America che
costruivano le loro “ Ruote della Medicina”, una sorta di cerchi magici che si
dipanavano a raggiera lungo i pendii delle alture, al cui interno vi erano
rinchiusi entità malvagie. Il tesoro più cospicuo è composto da una gallina
tutta d’oro e dai suoi pulcini, che razzolano nei vari cunicoli di Pallano.
Questa leggenda avvalorerebbe la tesi che queste mura
megalitiche sarebbero in realtà osservatori astronomici orientati verso le
Pleiadi in quanto, esse, erano conosciute dai nostri avi dediti
all’agricoltura, come le “Gallinelle”con
le quali si misurava il tempo, così, quando esse sorgevano su Montepallano
all’alba, erano circa le quattro di mattina, quando erano visibile sul far
della sera erano foriere di pioggia. I francesi chiamano la gallina Alcione
e,le sorelle, i pulcini.
Secondo alcune leggende queste mura megalitiche sono
state costruite dalle fate; infatti, in molte tradizioni, queste costruzioni
sono conosciute come “pietra delle fate”.
Di
Nicoletta Camilla Travaglini
Fonti:
A.A.V.V., L’enciclopedia
dei misteri, Arnaldo Mondadori Editori S.p.A. Milano 1993.
CATTABIANI, Alfredo, Planetario,
Simbolo, miti e misteri di astri, pianeti e costellazioni, Arnaldo
Mondadori Editori S.p.A. Milano Marzo
2003.
CHEVALIER, Jean; GHEERBRANDT Alain; Dizionario dei Simboli, Biblioteca Universale
Rizzoli, quarta edizione, luglio 2001.
GARDNER, Laurence: “ Il
regno dei signori degli anelli mito e magia del Santo Graal” 2001 Newton &
Compton editori s.r.l.
MERCATANTE, Antony S., Dizionario Universale dei miti e delle
leggende, Newton & Compton Editori S.r.L, Roma 2001.
PANSA, Giovanni, Miti,
leggende e superstizioni dell’Abruzzo, Arnaldo Forni Editore Sulmona
1924.
PANSA, Giovanni, S.Domenico
di Cocullo e il culto dei Serpari della Marsica, Adelmo Polla Editore,
Dicembre 1992.
TRAVAGLINI, Nicoletta
in Mystero la Rivista del Possibile anno II n. 16 ed.
Mondo Ignoto srl. Roma.
TRAVAGLINI, Nicoletta, La
Magna Mater , in Graal n. 7 Gennaio/Febbraio 2004.
PERILLI, Vinicio, PERILLI, Enrico Da Freud a Jung a Hillman
edizione Samizar 2003
mercoledì 16 maggio 2012
La scienza nascosta
È appena uscito il libro del dottor Roberto Volterri…
Oltre all’onnipresente e genialissimo Nikola Tesla, in questo libro troverete qualche altro “spirito irriverente” – irriverente verso la Conoscenza consolidata, universalmente accettata, accademica. Certamente è considerato “irriverente” pensare che la Grande Piramide di Giza, anziché rappresentare – almeno per l’archeologia di stretta osservanza – un gigantesco monumento che dovrebbe ricordare le gesta di Cheope, di Chefren o di chissà chi, fosse in realtà una mastodontica ”Pila a combustibile” Eppure un misconosciuto agronomo del nostro imprevedibile Bel Paese così ipotizza…E non è da considerarsi “scienziato pazzo” – nella più benevola accezione del termine! – chi ipotizza che con le “sottilissime energie” la nostra mente sarebbe in grado di produrre, i misteriosi “crop circles”? Ma l’universo delle “energie sottili” è vastissimo, quasi infinito. Così, nel libro incontrerete anche il dottor Reichenbach e il suo “OD” e il dottor Blondot per esaminare da vicino i suoi (molto) evanescenti “Raggi N”. Ma alcune scoperte scientifiche vanno nascoste e ostacolate. Su questa linea si inserisce la vicenda delle geniali e stranissime teorie di quell’altro “scienziato pazzo” – il governo USA così lo definì per… toglierselo poco elegantemente di torno – Wilhelm Reich con le sue “Camere Orgoniche” e i suoi strani “Cloud busters” in grado di agire sul tempo atmosferico!Nel libro si parlerà di laboratori dove altri “scienziati pazzi” studiano la possibilità di vedere senza l’uso degli occhi, di generare energie di incommensurabile potenza partendo…dal “nulla” e qualche altro divertente ed istruttivo girovagare tra i misteri della medicina antica, dell’esoterismo “diabolico”, dell’astrologia un po’ più “scientifica” e di qualche criptico messaggio celato in un indecrittabile “quadrato magico”.
Oltre all’onnipresente e genialissimo Nikola Tesla, in questo libro troverete qualche altro “spirito irriverente” – irriverente verso la Conoscenza consolidata, universalmente accettata, accademica. Certamente è considerato “irriverente” pensare che la Grande Piramide di Giza, anziché rappresentare – almeno per l’archeologia di stretta osservanza – un gigantesco monumento che dovrebbe ricordare le gesta di Cheope, di Chefren o di chissà chi, fosse in realtà una mastodontica ”Pila a combustibile” Eppure un misconosciuto agronomo del nostro imprevedibile Bel Paese così ipotizza…E non è da considerarsi “scienziato pazzo” – nella più benevola accezione del termine! – chi ipotizza che con le “sottilissime energie” la nostra mente sarebbe in grado di produrre, i misteriosi “crop circles”? Ma l’universo delle “energie sottili” è vastissimo, quasi infinito. Così, nel libro incontrerete anche il dottor Reichenbach e il suo “OD” e il dottor Blondot per esaminare da vicino i suoi (molto) evanescenti “Raggi N”. Ma alcune scoperte scientifiche vanno nascoste e ostacolate. Su questa linea si inserisce la vicenda delle geniali e stranissime teorie di quell’altro “scienziato pazzo” – il governo USA così lo definì per… toglierselo poco elegantemente di torno – Wilhelm Reich con le sue “Camere Orgoniche” e i suoi strani “Cloud busters” in grado di agire sul tempo atmosferico!Nel libro si parlerà di laboratori dove altri “scienziati pazzi” studiano la possibilità di vedere senza l’uso degli occhi, di generare energie di incommensurabile potenza partendo…dal “nulla” e qualche altro divertente ed istruttivo girovagare tra i misteri della medicina antica, dell’esoterismo “diabolico”, dell’astrologia un po’ più “scientifica” e di qualche criptico messaggio celato in un indecrittabile “quadrato magico”.
lunedì 14 maggio 2012
IL SEPRIO, I LONGOBARDI, IL MEDIOEVO
tratto da L'indipenza del 10 gennaio 2012
di REDAZIONE
Questo libro ripercorre la storia dell’antico Comitatus – prima ancora Iudiciaria – del Seprio nel Medioevo, quando quest’area, oggi appartenente alla Provincia di Varese, rivestiva un ruolo politico, strategico, militare ed economico-commerciale di primaria importanza.
I saggi qui raccolti forniscono un quadro completo sulle vicende del Seprio e del suo centro eponimo, Castrum Sibrium, oggi parco archeologico ma un tempo fortezza-cardine del sistema difensivo subalpino, distrutta nel 1287 da Ottone Visconti e mai più riedificata. Protagonista è anche la cittadina di Morazzone, che nell’aprile 2010 ha ospitato il convegno di cui questo volume rappresenta gli Atti: oltre a uno studio delle sue vicende storiche, è infatti presentato per la prima volta il resoconto dettagliato sugli scavi svolti nella chiesetta della Maddalena.
Completa il testo una disamina del Sistema museale archeologico della Provincia di Varese, fondamentale in vista dell’ormai prossima entrata di Castelseprio e Torba – come parte integrante del progetto Italia Langobardorum, L’Italia dei Longobardi – nella World Heritage List dell’Unesco.
Elena Percivaldi, l’autrice, è nata a Milano e vive a Monza. Laureata in Lettere Moderne – Storia, medievale, sposata, due bimbi, sono medievista, scrittrice e giornalista, critico d’arte e musicale.
All’attività di saggista, storico e critico affianca la curatela di mostre, la conduzione di programmi radio, la partecipazione in trasmissioni tv e radio a tema e a conferenze, convegni e seminari di studio in tutta Italia.
TITOLO: . Longobardi nella Lombardia settentrionale. Autore Libro: PERCIVALDI E. (a c.), Collana GLI ARCHI, illustrato, pagine 128, editore IL CERCHIO
domenica 13 maggio 2012
LE NOTTI DI SAMHAIN
Un Viaggio nelle Tradizioni Popolari alla ricerca di antichi Culti Pagani
di Andrea Romanazzi
Ancora una volta, come ogni anno, ci stiamo apprestando ad esser bombardati da pubblicità, magazine, network che parlano di Halloween, il "carnevale" novembrino vera e propria festa del consumistico mondo occidentale. Per molti la ricorrenza è estranea alla nostra cultura italiana, un chiaro esempio dell’effetto della globalizzazione e dell’assorbimento di usi e costumi del mondo anglosassone. In realtà, celate da maschere e vetrine scintillanti ecco trasparire antichi ricordi di tradizioni mai del tutto scomparse e ancora insite nel folklore popolare che contraddistingue la nostra nazione.
Sarà così seguendo gli indizi nascosti nelle pieghe del tempo che arriveremo ad un culto molto antico, il culto della Dea Madre, regina di questa mistica notte ove ancora oggi il velo della reminescenza è così leggero da permetterci di guardar attraverso.
Secondo il Dizionario McBeain di Lingua Gaelica Samhain (pronunciato "sow-in"), forse la più importante tra le festività celtiche, deriverebbe da "samhuinn" e significherebbe "summer’s End", la fine dell’estate e l’inizio della stagione invernale. In realtà i festeggiamenti non duravano una sola giornata ma iniziavano una settimana prima e si concludevano una settimana dopo, così è molto più probabile che il giorno più importante dei festeggiamenti non fosse il primo del mese di Novembre, bensì l’11, data coincidente con quella che oggi viene definita estate di San Martino. Successivamente, nei paesi di origine anglosassone, Samhain fu trasformata in All Hallow’Eve, ove "Eve" sta per "vigilia" o ancora Halloween.
Questa data coincideva con l’inizio dell’anno celtico, il momento in cui la natura inizia il suo riposo e il primitivo, spaurito dalla morte della propria "mater", già preparava la sua rinascita. Da qui il collegamento di Samhain come festa dei morti, ma in realtà essa non è una festività legata ai defunti, esattamente il contrario, è legata alla vita, alla grande dea che muore per poter rinascere.
Ai primordi infatti la divinità è immaginata come la sovrana dei boschi e della natura selvaggia, essa da sostentamento agli uomini ma ne può causare anche la morte, successivamente il passaggio dal nomadismo all’agricoltura impone al selvaggio un più attento esame delle stagioni e dei cicli naturali, egli si accorge che la terra non è sempre fertile, la dea, resasi immanente nei campi, nelle piante di grano e di orzo muore per poter rinascere nuovamente e così assicurare, con i suoi eterni cicli, la novella vita. Il concetto di morte e resurrezione ha così da sempre permeato le credenze e i miti degli uomini, nel mondo greco ad esempio essa è ben descritta dalla storia di Demetra e Persefone, la leggenda narra che un giorno la bella Presefone, figlia di Demetra, mentre raccoglieva dei fiori con delle amiche, si allontanò nel bosco e così Ade, la divinità dell’oltretomba, da tempo perdutamente innamorato della fanciulla, decise di rapirla con il beneplacito di Zeus. La Dea Madre accortasi della scomparsa della figlia iniziò a cercarla ma, vedendo vani i suoi tentativi, decise che fin quando non le sarebbe stata restituita la terra non avrebbe prodotto più i suoi frutti. Zeus ordinò così ad Ade di lasciar libera la fanciulla ma il dio, con un sotterfugio, costrinse la stessa a ritornare ogni sei mesi nel suo regno. Demetra allora infuriata decise che nel periodo in cui Persefone fosse stata nel regno dei morti, sul mondo sarebbe calato l’inverno e la terra non avrebbe prodotto i suoi magnifici frutti, una metaforica morte in attesa del risveglio. E’ in questa ottica che la festa di Halloween assume un nuovo significato, esso diventa il giorno in cui il velo che separa il mondo dei vivi da quello del soprannaturale si fa molto sottile, tanto da poter facilmente trapassarlo, nasce così l’idea che le anime dei morti proprio in questo giorno riescon più facilmente a raggiungere e far visita ai loro cari ancora in vita. Da questa credenza nasce l’usanza di lasciare frutti o latte sugli usci delle porte, in modo che gli spiriti, durante le loro visite potessero ristorarsi o ancora accendere torce e fiaccole per segnalare il cammino e agevolare loro il ritorno.
Con l’avvento del Cristianesimo, la Chiesa cercò di appropriarsi della festività troppo radicata nella cultura popolare per esser cancellata e così il 1° Novembre diventava la festa di Ognissanti, le figure fatate e gli spiriti della tradizione celtica, a loro volta immagine di un oltremodo di morte e rigenerazione, furono demonizzati, le stesse donne il cui ruolo nei rituali di fertilità era fondamentale furono trasformate in streghe e i falò di "gioia" tradotti in roghi. Anche le lanterne e le luci giuda subirono una ugual sorte, quelle che all’inizio avevano proprio il compito di indicare ai propri defunti la "via di casa" divennero "lanterne scaccia streghe" con un uso completamente differente.
LA ZUCCA COME SIMBOLO DELLA DEA MADRE
La tradizione vuole che solo verso il 1700 iniziò a sorgere l’usanza di intagliare strani e spaventosi volti nelle rape e di inserire nel loro interno delle candele illuminate proprio per far allontanare gli spiriti maligni, nel 1845 però, una spaventosa carestia in Irlanda obbligò moltissime persone a immigrare in America portando con loro anche queste tradizioni. La difficoltà di reperire rape nel nuovo continente fece si che il tubero fosse sostituito dalle molto più diffuse zucche gialle che ancor oggi sono uno dei simboli più ricorrenti di Samhain. Se così ci racconta la storia non possiamo far a meno di soffermarci sulla scelta del frutto-simbolo della festa, trovando molte altre antiche tradizioni che riportano alla zucca. Essa è infatti da sempre legata a rituali di morte e rigenerazione che contraddistinguono il culto della dea, infatti il fiore, chiamato giglio, era legato di solito ai morti, il suo colore giallo pallido ricordava appunto il colore delle ossa dei defunti, mentre il frutto, appunto la zucca, era associato alla procreazione e alla fertilità.
Se così immaginiamo che la lanterna di Halloween abbia origini moderne basta sfogliare il Corpus Hippocraticum del 400-300 a.C. per leggere che
"…se la donna ha la stanguria tagliare la testa e il fondo di una zucca, metterci sotto del carbone, gettare sul fuoco della mierra triturata, la donna si sieda sulla zucca e faccia entrare quanto più possibile i suoi organi genitali, affinché le parti genitali ricevano più vapore possibile…"
Ai nostri occhi la descrizione sempre perfettamente coincidere con la lanterna cacciastreghe simbolo della festività. La zucca è così lo strumento per assicurare la procreazione, essa è il priapos primordiale, l’elemento ingravidatore che nasce dalla stessa terra e assicura, nel periodo più oscuro e buio la vita. Del resto la zucca era anche associata al dio Priapo, divinità di origine greca poi successivamente "adottata" dai romani. Il dio, spesso rappresentato con un volto umano e le orecchie di una capra, tiene in mano un bastone usato per spaventare gli uccelli, la falce per potare gli alberi e sulla testa foglie d’alloro. Sua caratteristica più evidente è l’enorme o addirittura il doppio fallo, simbolo proprio della sua natura feconda, aspetto per il quale era anche rappresentato da un pilastrino verticale con sopra scolpita la sua testa e il suo fallo eretto, simbolo appunto della fecondazione.
Ebbene il dio era anche strettamente collegato alla zucca come possiamo leggere dai Carme Priapei
"…io sono invocato come custode ligneio delle zucche…"
E ancora il ricordo della zucca come frutto legato ai rituali di fertilità lo ritroviamo in molti autori latini che la associano al parto e alla gravidanza
" …intortus cucumis praegnansque cucurbita serpit… "
o ancora in Propezio che scrive
" ...caerules cucumis tumidoque cucurbita ventre... "
Così la zucca è simbolo fallico ma al tempo stesso essa stessa "madre", portando nel suo ventre fruttifero i semi, come la donna e la dea essa assicura la vita per la sua specie e il sostentamento per gli uomini.
La Processione dei Morti dal mondo celtico alle tradizioni Italiane
Altra interessante tradizione è legata al famoso Trick or Treak, la mascherata di bambini che attraversano le vie della città cercando dolciumi e regalini. In realtà per scoprire cosa si cela dietro questa usanza dovremo attraversare i sentieri del folklore italiano alla ricerca delle "processioni dei morti" fino ad imbatterci nel mitico Artù, espressione dell’Ankou bretone, ma anche e soprattutto della "morte birichina" delle tradizioni popolari italiane.
L’Ankou e il culto dei morti in Bretagna
Dal XI secolo moltissimi sono i racconti popolari e i testi letterari in Europa che parlano dell’apparizione dell’"esercito furioso", nome con il quale è conosciuto, nell’area centro europea, una strana processione di misteriose creature fantastiche, poi evolutesi nel loro aspetto, in streghe e stregoni pronti al viaggio verso il sabba.
Questa schiera di esseri, composta indifferentemente da uomini e donne, spesso a cavallo di animali in qualche modo legati ai culti totemici pagani, come capre, cavalli o strani rapaci, era di solito guidata da un essere mitico, una antica divinità pagana autoctona come ad esempio Wotan o Odino dell’area nordica o da strane creature, spesso dalle fattezze femminili, che trasportavano, non di rado, un carro rituale.
Una interessante area da esaminare, proprio perché ancora oggi è visibile nel folklore locale lo strano rapporto tra viventi e defunti, è la Bretagna, luogo ove alla religione ufficiale si mescolano vorticosamente antiche tradizioni pagane mai cancellate.
Un esempio ancora ben visibile nelle leggende e nei racconti popolari, è ad esempio quello dell’Ankou. Si tratta di una figura locale raffigurata come la "morte", sotto forma di scheletro con la falce che però non è semplice espressione della stessa, in realtà si tratta solo di un suo messaggero, una strana figura che giunge ad avvisare le persone, e spesso a consigliare di portare subito a termine faccende personali in sospeso prima del loro trapasso.
Questo però non è l’unico esempio, altra interessante informazione sul mondo bretone dei trapassati può esser desunta, poi, dal racconto di Procopio di Cesarea nella sua Guerra Gotica. Parlando della Brittia ci racconta che "…giunto a questo punto della storia mi sembra inevitabile raccontare un fatto che ha piuttosto attinenza con la superstizione…". Ecco così che lo storico narra delle strane abitudini di alcuni abitanti di borghi di pescatori situati dall’altra parte del mare, in quell’area che oggi è appunto nota come la Bretagna. Alcuni di questi individui avevano un compito strano, quello di traghettare le anime dei morti nella "…A tarda ora della notte, infatti, essi sentono battere alla porta e odono una voce soffocata che li chiama all’opera. Senza esitazione saltano giù dal letto e si recano sulla riva del mare…sulla riva trovano barche speciali, vuote. Ma quando vi salgono sopra le barche affondano fin quasi al pelo dell’acqua come se fossero cariche…dopo aver lasciato i passeggeri ripartono con le navi leggere…".
Se questo racconto sembra incredibile basta giungere ancora oggi in Bretagna per ritrovare, arenate nelle sacche di sabbia dovute alla marea, vecchie barche oramai in disuso. Nessuno però si azzarda a spostarle o portarle via, ancora oggi queste sono le barche che traghettano i morti.
E’ questa l’espressione della comunicazione locale con un aldilà mai visto come luogo tenebroso come dimostrerebbero i numerosi cimiteri mai isolati dai luoghi abitati.
Del resto è già dai tempi di Claudiano, V secolo, che l’area bretone era nota come il luogo dei morti, era qui, infatti, che si identificava il luogo ove Ulisse aveva incontrato i morti e ove "i contadini vedono vagare le ombre pallide dei morti", una affermazione che ritroveremo in seguito proprio legata al territorio italiano. Ma questo non basta, oramai è ben dimostrato come alcuni viaggi compiuti da cavalieri delle saghe bretoni, come Parsifal o Lancillotto, in terre desolate o verso castelli misteriosi altro non sono che viaggi nel mondo dei defunti come poi testimonierebbero toponimi come Limors o il Schastel le mort.
Lo stesso Artù, in varie raffigurazioni, altro non sarebbe che il traghettatore delle processioni dei morti, come nel mosaico pavimentale di Otranto, ove il sovrano è raffigurato con uno scettro in mano in groppa ad un caprone, seguito da una schiera di uomini.
La Processione dei morti nella tradizione italiana
Anche il folklore italico però, come si potrebbe pensare, non è estraneo al mondo dei trapassati, come mi sono occupato in un altro mio lavoro proprio sul culto dei morti.
La tradizione della Processione dei defunti e la visione degli stessi da parte della gente contadina non è però patrimonio esclusivamente bretone, anche se ancora oggi in quelle terre tale tradizione resiste fortemente, ma in tutta Europa sono fortemente diffusi racconti popolari di gente che periodicamente assisteva a tali apparizioni.
In realtà questo "spettacolo" non era riservato a tutti, ma solo a persone dai particolari poteri o nati in ben precisi giorni.
Così, ad esempio, in Friuli, il Ginzburg parla dei Beneandanti, uomini dai particolari "poteri", nati con la "camicia", un parte della placenta che, proprio per questa loro "stranezza" saranno poi gli attori, in particolari periodi dell’anno, di una lotta contro le forze maligne per assicurare fertilità ai campi.
Sono loro che possono aver rapporto con i defunti dato che "chi vede i morti, cioè va con loro, è un Benandante".
Moltissimi poi sono i racconti popolari di incredibili incontri nelle campagne con schiere di defunti. Sempre in Friuli interessante è l’avventura capitata ad un povero monaco nel 1091. Mentre questi camminava lungo un sentiero di campagna viene attratto da strani lamenti e così scorge una processione tra la quale riconosce alcuni uomini suoi conoscenti morti da poco tempo. Se però potremmo pensare che simili visioni sono relegate ad un lontano passato ecco presenti numerose testimonianze di donne lucane che durante il secolo scorso si imbatterono in quella che è la "messa dei morti". Così lungo le buie vie che conducono le contadine del sud nei campi da lavoro, capita spesso di vedere una chiesa aperta e illuminata e all’interno anime dannate che allontanano subito le viandante o le comunicano un messaggio per il mondo dei vivi.
"…una volta un forese [abitante del paese di Forenza, in Lucania N.d.A] commise con il suo padrone di andar ad attingere acqua ad una fontana lontano dal paese…il forese si mise in cammino ma giunto nei pressi della fontana di Tromacchio vide quattro persone che portavano a spalla una bara…decise di andare alla fontana di spando ma anche qui il cammino era sbarrato dai quattro…allora gli venne incontro un sacerdote morto da qualche tempo che lo prese per mano e gli disse "queste scommesse non le devi fare"…"
La strana fila tanto ricorda quelle raffigurazioni rinascimentali, chiamate "Danze Macabre", che iniziano ad apparire attorno al 1400, interpretate successivamente con il motivo della morte "livellatrice". Sicuramente queste attingerebbero da ben più antichi ricordi, come testimonierebbe la primitiva guida delle fila.
Sempre nella regione lucana, fortemente legata al mondo contadino, pullulano storie di donne che, mentre raccoglievano l’acqua, nel riflesso del catino, scorgevano strane processioni tra le quali individuavano alcuni loro defunti, tradizione presente anche nel Sud Italia. Anche in questo caso le "visioni" sono accomunate da un particolare: avvengono solo in particolari momenti della vita dell’individuo o in particolari periodi dell’anno, spesso coincidenti con festività agrarie, come ad esempio la Festa di Onnissanti o la notte di San Giovanni.
Dolcetto o Scherzetto? I Prolegomeni del cibo del mondo Ctonio
Allo stesso modo si innesta la tradizione del cibo dei defunti, trasformato poi nelle leccornie e dolciumi per i giovani bambini.
Da sempre l’uomo ha avuto timore del ritorno del defunto, l’untore che può portare morte tra i vivi. Secondo così il principio della magia simpatica, ponendo del cibo nelle tombe si sarebbe placata la fame del trapassato impedendogli così di ritornare sul mondo terreno. Che il cibo reale fosse davvero utilizzato nei sepolcri è dimostrato da diversi testi come il "De Masticazione Mortuorum in Tumulis" di Michel Raufft o la "Dissertatio Historico-Philosophica de Masticatione Mortorum" di Philip Rohr. Qui si descriveva come il morto, le cui scorte alimentari erano insufficienti, iniziava a nutrirsi masticando il sudario e le sue stesse carni. Anche il cannibalismo diventa un modo per assicurare la seconda morte al defunto, infatti lo stomaco diventa suo definitivo sepolcro e sarebbe da questa interpretazione che deriverebbero diverse espressioni popolari Italiane come "bere i morti" o "mangiare i morti"(E. De Martino, 1959) e l’usanza del banchetto funebre. Ecco così che nel giorno dei morti, quasi riproponendo il tema della necrofagia, in molti paesi della Penisola vengono preparati strani dolcetti a forma di ossa chiamati appunto "ossa dei morti"(A. Romanazzi, 2003) che vengono poi regalati ai fanciulli.
Cibo rituale sono le fave e i ceci, da sempre presenti nei convivi funebri e nelle "merende" che si tenevano tra i parenti del defunto immediatamente dopo il funerale. La motivazione potrebbe essere che la fava è stata da sempre considerata come il mezzo per comunicare con l’Aldilà, esse erano presenti nelle cerimonie funebri nell’antico Egitto ed in Grecia mentre a Roma erano il simbolo della resurrezione dalla morte.
Cicerone ci informa dell’uso ateniese di spargere granaglie sulle tombe, e legumi cotti in enormi pentole venivano offerti ad Hermes Ctonio. Ancora fino al secolo scorso in vari paesi grandi bigonci erano posti agli angoli delle strade in modo che le anime vaganti, ma anche i poveri, potessero rifocillarsi.
Il seme, poi, nasconde anche un’altra motivazione, esso è alimento molto gradito ai defunti perché, secondo l’immaginario popolare, deriverebbe proprio da quello stesso mondo conio al quale il trapassato apparterrebbe. Non solo però, il seme è simbolo del continuo ciclo di morte e rinascita, esso infatti viene mietuto proprio per poter ricrescere e non dobbiamo dimenticare che etimologicamente la dea Cerere sembrerebbe provenire proprio da "Madre del grano" identificata spesso con l’ultimo covone della raccolta e destinato a rituali di fertilità, infatti era riservato alle vacche gravide proprio per assicurare loro fertilità o alle stesse donne che si dovevano garantire un parto felice.
Il seme diventa così anche simbolo della rinascita, una novella speranza per il defunto, dunque.
Non dobbiamo poi dimenticarci della tradizione del melograno come altro alimento importante, esso è un frutto di speranza, ricco di semi e da sempre albero di fertilità.
Così, ad esempio, è sulla tomba di Osiride che germoglia un melograno dopo che esso viene ricomposto da Iside, o ancora raffigurazioni del frutto le troviamo sulle pareti tombali di varie tombe etrusche o romane.
Ecco così che le numerose tradizioni legate alle schiere dei morti propongono una nuova ed interessante interpretazione delle schiere di ragazzini, mascherati da esseri demoniaci o semplicemente da strane creature animalesche, che girano per le città al grido di "trick or treak". Guidati da un mitico "traghettatore", conosciuto ad esempio nel mondo celtico come "cenmad y meirew", ma la cui figura come abbiamo visto non è estranea al patrimonio folklorico italiano, questi bambini, vestiti a maschera come i vetusti sciamani altro non sarebbero che i defunti che tornano tra i vivi e chiedendo loro in offerta cibo rituale destinato in cambio di tranquillità: solo una volta sazio il defunto potrà ritrovare la pace dell’aldilà.
di Andrea Romanazzi
Ancora una volta, come ogni anno, ci stiamo apprestando ad esser bombardati da pubblicità, magazine, network che parlano di Halloween, il "carnevale" novembrino vera e propria festa del consumistico mondo occidentale. Per molti la ricorrenza è estranea alla nostra cultura italiana, un chiaro esempio dell’effetto della globalizzazione e dell’assorbimento di usi e costumi del mondo anglosassone. In realtà, celate da maschere e vetrine scintillanti ecco trasparire antichi ricordi di tradizioni mai del tutto scomparse e ancora insite nel folklore popolare che contraddistingue la nostra nazione.
Sarà così seguendo gli indizi nascosti nelle pieghe del tempo che arriveremo ad un culto molto antico, il culto della Dea Madre, regina di questa mistica notte ove ancora oggi il velo della reminescenza è così leggero da permetterci di guardar attraverso.
Secondo il Dizionario McBeain di Lingua Gaelica Samhain (pronunciato "sow-in"), forse la più importante tra le festività celtiche, deriverebbe da "samhuinn" e significherebbe "summer’s End", la fine dell’estate e l’inizio della stagione invernale. In realtà i festeggiamenti non duravano una sola giornata ma iniziavano una settimana prima e si concludevano una settimana dopo, così è molto più probabile che il giorno più importante dei festeggiamenti non fosse il primo del mese di Novembre, bensì l’11, data coincidente con quella che oggi viene definita estate di San Martino. Successivamente, nei paesi di origine anglosassone, Samhain fu trasformata in All Hallow’Eve, ove "Eve" sta per "vigilia" o ancora Halloween.
Questa data coincideva con l’inizio dell’anno celtico, il momento in cui la natura inizia il suo riposo e il primitivo, spaurito dalla morte della propria "mater", già preparava la sua rinascita. Da qui il collegamento di Samhain come festa dei morti, ma in realtà essa non è una festività legata ai defunti, esattamente il contrario, è legata alla vita, alla grande dea che muore per poter rinascere.
Ai primordi infatti la divinità è immaginata come la sovrana dei boschi e della natura selvaggia, essa da sostentamento agli uomini ma ne può causare anche la morte, successivamente il passaggio dal nomadismo all’agricoltura impone al selvaggio un più attento esame delle stagioni e dei cicli naturali, egli si accorge che la terra non è sempre fertile, la dea, resasi immanente nei campi, nelle piante di grano e di orzo muore per poter rinascere nuovamente e così assicurare, con i suoi eterni cicli, la novella vita. Il concetto di morte e resurrezione ha così da sempre permeato le credenze e i miti degli uomini, nel mondo greco ad esempio essa è ben descritta dalla storia di Demetra e Persefone, la leggenda narra che un giorno la bella Presefone, figlia di Demetra, mentre raccoglieva dei fiori con delle amiche, si allontanò nel bosco e così Ade, la divinità dell’oltretomba, da tempo perdutamente innamorato della fanciulla, decise di rapirla con il beneplacito di Zeus. La Dea Madre accortasi della scomparsa della figlia iniziò a cercarla ma, vedendo vani i suoi tentativi, decise che fin quando non le sarebbe stata restituita la terra non avrebbe prodotto più i suoi frutti. Zeus ordinò così ad Ade di lasciar libera la fanciulla ma il dio, con un sotterfugio, costrinse la stessa a ritornare ogni sei mesi nel suo regno. Demetra allora infuriata decise che nel periodo in cui Persefone fosse stata nel regno dei morti, sul mondo sarebbe calato l’inverno e la terra non avrebbe prodotto i suoi magnifici frutti, una metaforica morte in attesa del risveglio. E’ in questa ottica che la festa di Halloween assume un nuovo significato, esso diventa il giorno in cui il velo che separa il mondo dei vivi da quello del soprannaturale si fa molto sottile, tanto da poter facilmente trapassarlo, nasce così l’idea che le anime dei morti proprio in questo giorno riescon più facilmente a raggiungere e far visita ai loro cari ancora in vita. Da questa credenza nasce l’usanza di lasciare frutti o latte sugli usci delle porte, in modo che gli spiriti, durante le loro visite potessero ristorarsi o ancora accendere torce e fiaccole per segnalare il cammino e agevolare loro il ritorno.
Con l’avvento del Cristianesimo, la Chiesa cercò di appropriarsi della festività troppo radicata nella cultura popolare per esser cancellata e così il 1° Novembre diventava la festa di Ognissanti, le figure fatate e gli spiriti della tradizione celtica, a loro volta immagine di un oltremodo di morte e rigenerazione, furono demonizzati, le stesse donne il cui ruolo nei rituali di fertilità era fondamentale furono trasformate in streghe e i falò di "gioia" tradotti in roghi. Anche le lanterne e le luci giuda subirono una ugual sorte, quelle che all’inizio avevano proprio il compito di indicare ai propri defunti la "via di casa" divennero "lanterne scaccia streghe" con un uso completamente differente.
LA ZUCCA COME SIMBOLO DELLA DEA MADRE
La tradizione vuole che solo verso il 1700 iniziò a sorgere l’usanza di intagliare strani e spaventosi volti nelle rape e di inserire nel loro interno delle candele illuminate proprio per far allontanare gli spiriti maligni, nel 1845 però, una spaventosa carestia in Irlanda obbligò moltissime persone a immigrare in America portando con loro anche queste tradizioni. La difficoltà di reperire rape nel nuovo continente fece si che il tubero fosse sostituito dalle molto più diffuse zucche gialle che ancor oggi sono uno dei simboli più ricorrenti di Samhain. Se così ci racconta la storia non possiamo far a meno di soffermarci sulla scelta del frutto-simbolo della festa, trovando molte altre antiche tradizioni che riportano alla zucca. Essa è infatti da sempre legata a rituali di morte e rigenerazione che contraddistinguono il culto della dea, infatti il fiore, chiamato giglio, era legato di solito ai morti, il suo colore giallo pallido ricordava appunto il colore delle ossa dei defunti, mentre il frutto, appunto la zucca, era associato alla procreazione e alla fertilità.
Se così immaginiamo che la lanterna di Halloween abbia origini moderne basta sfogliare il Corpus Hippocraticum del 400-300 a.C. per leggere che
"…se la donna ha la stanguria tagliare la testa e il fondo di una zucca, metterci sotto del carbone, gettare sul fuoco della mierra triturata, la donna si sieda sulla zucca e faccia entrare quanto più possibile i suoi organi genitali, affinché le parti genitali ricevano più vapore possibile…"
Ai nostri occhi la descrizione sempre perfettamente coincidere con la lanterna cacciastreghe simbolo della festività. La zucca è così lo strumento per assicurare la procreazione, essa è il priapos primordiale, l’elemento ingravidatore che nasce dalla stessa terra e assicura, nel periodo più oscuro e buio la vita. Del resto la zucca era anche associata al dio Priapo, divinità di origine greca poi successivamente "adottata" dai romani. Il dio, spesso rappresentato con un volto umano e le orecchie di una capra, tiene in mano un bastone usato per spaventare gli uccelli, la falce per potare gli alberi e sulla testa foglie d’alloro. Sua caratteristica più evidente è l’enorme o addirittura il doppio fallo, simbolo proprio della sua natura feconda, aspetto per il quale era anche rappresentato da un pilastrino verticale con sopra scolpita la sua testa e il suo fallo eretto, simbolo appunto della fecondazione.
Ebbene il dio era anche strettamente collegato alla zucca come possiamo leggere dai Carme Priapei
"…io sono invocato come custode ligneio delle zucche…"
E ancora il ricordo della zucca come frutto legato ai rituali di fertilità lo ritroviamo in molti autori latini che la associano al parto e alla gravidanza
" …intortus cucumis praegnansque cucurbita serpit… "
o ancora in Propezio che scrive
" ...caerules cucumis tumidoque cucurbita ventre... "
Così la zucca è simbolo fallico ma al tempo stesso essa stessa "madre", portando nel suo ventre fruttifero i semi, come la donna e la dea essa assicura la vita per la sua specie e il sostentamento per gli uomini.
La Processione dei Morti dal mondo celtico alle tradizioni Italiane
Altra interessante tradizione è legata al famoso Trick or Treak, la mascherata di bambini che attraversano le vie della città cercando dolciumi e regalini. In realtà per scoprire cosa si cela dietro questa usanza dovremo attraversare i sentieri del folklore italiano alla ricerca delle "processioni dei morti" fino ad imbatterci nel mitico Artù, espressione dell’Ankou bretone, ma anche e soprattutto della "morte birichina" delle tradizioni popolari italiane.
L’Ankou e il culto dei morti in Bretagna
Dal XI secolo moltissimi sono i racconti popolari e i testi letterari in Europa che parlano dell’apparizione dell’"esercito furioso", nome con il quale è conosciuto, nell’area centro europea, una strana processione di misteriose creature fantastiche, poi evolutesi nel loro aspetto, in streghe e stregoni pronti al viaggio verso il sabba.
Questa schiera di esseri, composta indifferentemente da uomini e donne, spesso a cavallo di animali in qualche modo legati ai culti totemici pagani, come capre, cavalli o strani rapaci, era di solito guidata da un essere mitico, una antica divinità pagana autoctona come ad esempio Wotan o Odino dell’area nordica o da strane creature, spesso dalle fattezze femminili, che trasportavano, non di rado, un carro rituale.
Una interessante area da esaminare, proprio perché ancora oggi è visibile nel folklore locale lo strano rapporto tra viventi e defunti, è la Bretagna, luogo ove alla religione ufficiale si mescolano vorticosamente antiche tradizioni pagane mai cancellate.
Un esempio ancora ben visibile nelle leggende e nei racconti popolari, è ad esempio quello dell’Ankou. Si tratta di una figura locale raffigurata come la "morte", sotto forma di scheletro con la falce che però non è semplice espressione della stessa, in realtà si tratta solo di un suo messaggero, una strana figura che giunge ad avvisare le persone, e spesso a consigliare di portare subito a termine faccende personali in sospeso prima del loro trapasso.
Questo però non è l’unico esempio, altra interessante informazione sul mondo bretone dei trapassati può esser desunta, poi, dal racconto di Procopio di Cesarea nella sua Guerra Gotica. Parlando della Brittia ci racconta che "…giunto a questo punto della storia mi sembra inevitabile raccontare un fatto che ha piuttosto attinenza con la superstizione…". Ecco così che lo storico narra delle strane abitudini di alcuni abitanti di borghi di pescatori situati dall’altra parte del mare, in quell’area che oggi è appunto nota come la Bretagna. Alcuni di questi individui avevano un compito strano, quello di traghettare le anime dei morti nella "…A tarda ora della notte, infatti, essi sentono battere alla porta e odono una voce soffocata che li chiama all’opera. Senza esitazione saltano giù dal letto e si recano sulla riva del mare…sulla riva trovano barche speciali, vuote. Ma quando vi salgono sopra le barche affondano fin quasi al pelo dell’acqua come se fossero cariche…dopo aver lasciato i passeggeri ripartono con le navi leggere…".
Se questo racconto sembra incredibile basta giungere ancora oggi in Bretagna per ritrovare, arenate nelle sacche di sabbia dovute alla marea, vecchie barche oramai in disuso. Nessuno però si azzarda a spostarle o portarle via, ancora oggi queste sono le barche che traghettano i morti.
E’ questa l’espressione della comunicazione locale con un aldilà mai visto come luogo tenebroso come dimostrerebbero i numerosi cimiteri mai isolati dai luoghi abitati.
Del resto è già dai tempi di Claudiano, V secolo, che l’area bretone era nota come il luogo dei morti, era qui, infatti, che si identificava il luogo ove Ulisse aveva incontrato i morti e ove "i contadini vedono vagare le ombre pallide dei morti", una affermazione che ritroveremo in seguito proprio legata al territorio italiano. Ma questo non basta, oramai è ben dimostrato come alcuni viaggi compiuti da cavalieri delle saghe bretoni, come Parsifal o Lancillotto, in terre desolate o verso castelli misteriosi altro non sono che viaggi nel mondo dei defunti come poi testimonierebbero toponimi come Limors o il Schastel le mort.
Lo stesso Artù, in varie raffigurazioni, altro non sarebbe che il traghettatore delle processioni dei morti, come nel mosaico pavimentale di Otranto, ove il sovrano è raffigurato con uno scettro in mano in groppa ad un caprone, seguito da una schiera di uomini.
La Processione dei morti nella tradizione italiana
Anche il folklore italico però, come si potrebbe pensare, non è estraneo al mondo dei trapassati, come mi sono occupato in un altro mio lavoro proprio sul culto dei morti.
La tradizione della Processione dei defunti e la visione degli stessi da parte della gente contadina non è però patrimonio esclusivamente bretone, anche se ancora oggi in quelle terre tale tradizione resiste fortemente, ma in tutta Europa sono fortemente diffusi racconti popolari di gente che periodicamente assisteva a tali apparizioni.
In realtà questo "spettacolo" non era riservato a tutti, ma solo a persone dai particolari poteri o nati in ben precisi giorni.
Così, ad esempio, in Friuli, il Ginzburg parla dei Beneandanti, uomini dai particolari "poteri", nati con la "camicia", un parte della placenta che, proprio per questa loro "stranezza" saranno poi gli attori, in particolari periodi dell’anno, di una lotta contro le forze maligne per assicurare fertilità ai campi.
Sono loro che possono aver rapporto con i defunti dato che "chi vede i morti, cioè va con loro, è un Benandante".
Moltissimi poi sono i racconti popolari di incredibili incontri nelle campagne con schiere di defunti. Sempre in Friuli interessante è l’avventura capitata ad un povero monaco nel 1091. Mentre questi camminava lungo un sentiero di campagna viene attratto da strani lamenti e così scorge una processione tra la quale riconosce alcuni uomini suoi conoscenti morti da poco tempo. Se però potremmo pensare che simili visioni sono relegate ad un lontano passato ecco presenti numerose testimonianze di donne lucane che durante il secolo scorso si imbatterono in quella che è la "messa dei morti". Così lungo le buie vie che conducono le contadine del sud nei campi da lavoro, capita spesso di vedere una chiesa aperta e illuminata e all’interno anime dannate che allontanano subito le viandante o le comunicano un messaggio per il mondo dei vivi.
"…una volta un forese [abitante del paese di Forenza, in Lucania N.d.A] commise con il suo padrone di andar ad attingere acqua ad una fontana lontano dal paese…il forese si mise in cammino ma giunto nei pressi della fontana di Tromacchio vide quattro persone che portavano a spalla una bara…decise di andare alla fontana di spando ma anche qui il cammino era sbarrato dai quattro…allora gli venne incontro un sacerdote morto da qualche tempo che lo prese per mano e gli disse "queste scommesse non le devi fare"…"
La strana fila tanto ricorda quelle raffigurazioni rinascimentali, chiamate "Danze Macabre", che iniziano ad apparire attorno al 1400, interpretate successivamente con il motivo della morte "livellatrice". Sicuramente queste attingerebbero da ben più antichi ricordi, come testimonierebbe la primitiva guida delle fila.
Sempre nella regione lucana, fortemente legata al mondo contadino, pullulano storie di donne che, mentre raccoglievano l’acqua, nel riflesso del catino, scorgevano strane processioni tra le quali individuavano alcuni loro defunti, tradizione presente anche nel Sud Italia. Anche in questo caso le "visioni" sono accomunate da un particolare: avvengono solo in particolari momenti della vita dell’individuo o in particolari periodi dell’anno, spesso coincidenti con festività agrarie, come ad esempio la Festa di Onnissanti o la notte di San Giovanni.
Dolcetto o Scherzetto? I Prolegomeni del cibo del mondo Ctonio
Allo stesso modo si innesta la tradizione del cibo dei defunti, trasformato poi nelle leccornie e dolciumi per i giovani bambini.
Da sempre l’uomo ha avuto timore del ritorno del defunto, l’untore che può portare morte tra i vivi. Secondo così il principio della magia simpatica, ponendo del cibo nelle tombe si sarebbe placata la fame del trapassato impedendogli così di ritornare sul mondo terreno. Che il cibo reale fosse davvero utilizzato nei sepolcri è dimostrato da diversi testi come il "De Masticazione Mortuorum in Tumulis" di Michel Raufft o la "Dissertatio Historico-Philosophica de Masticatione Mortorum" di Philip Rohr. Qui si descriveva come il morto, le cui scorte alimentari erano insufficienti, iniziava a nutrirsi masticando il sudario e le sue stesse carni. Anche il cannibalismo diventa un modo per assicurare la seconda morte al defunto, infatti lo stomaco diventa suo definitivo sepolcro e sarebbe da questa interpretazione che deriverebbero diverse espressioni popolari Italiane come "bere i morti" o "mangiare i morti"(E. De Martino, 1959) e l’usanza del banchetto funebre. Ecco così che nel giorno dei morti, quasi riproponendo il tema della necrofagia, in molti paesi della Penisola vengono preparati strani dolcetti a forma di ossa chiamati appunto "ossa dei morti"(A. Romanazzi, 2003) che vengono poi regalati ai fanciulli.
Cibo rituale sono le fave e i ceci, da sempre presenti nei convivi funebri e nelle "merende" che si tenevano tra i parenti del defunto immediatamente dopo il funerale. La motivazione potrebbe essere che la fava è stata da sempre considerata come il mezzo per comunicare con l’Aldilà, esse erano presenti nelle cerimonie funebri nell’antico Egitto ed in Grecia mentre a Roma erano il simbolo della resurrezione dalla morte.
Cicerone ci informa dell’uso ateniese di spargere granaglie sulle tombe, e legumi cotti in enormi pentole venivano offerti ad Hermes Ctonio. Ancora fino al secolo scorso in vari paesi grandi bigonci erano posti agli angoli delle strade in modo che le anime vaganti, ma anche i poveri, potessero rifocillarsi.
Il seme, poi, nasconde anche un’altra motivazione, esso è alimento molto gradito ai defunti perché, secondo l’immaginario popolare, deriverebbe proprio da quello stesso mondo conio al quale il trapassato apparterrebbe. Non solo però, il seme è simbolo del continuo ciclo di morte e rinascita, esso infatti viene mietuto proprio per poter ricrescere e non dobbiamo dimenticare che etimologicamente la dea Cerere sembrerebbe provenire proprio da "Madre del grano" identificata spesso con l’ultimo covone della raccolta e destinato a rituali di fertilità, infatti era riservato alle vacche gravide proprio per assicurare loro fertilità o alle stesse donne che si dovevano garantire un parto felice.
Il seme diventa così anche simbolo della rinascita, una novella speranza per il defunto, dunque.
Non dobbiamo poi dimenticarci della tradizione del melograno come altro alimento importante, esso è un frutto di speranza, ricco di semi e da sempre albero di fertilità.
Così, ad esempio, è sulla tomba di Osiride che germoglia un melograno dopo che esso viene ricomposto da Iside, o ancora raffigurazioni del frutto le troviamo sulle pareti tombali di varie tombe etrusche o romane.
Ecco così che le numerose tradizioni legate alle schiere dei morti propongono una nuova ed interessante interpretazione delle schiere di ragazzini, mascherati da esseri demoniaci o semplicemente da strane creature animalesche, che girano per le città al grido di "trick or treak". Guidati da un mitico "traghettatore", conosciuto ad esempio nel mondo celtico come "cenmad y meirew", ma la cui figura come abbiamo visto non è estranea al patrimonio folklorico italiano, questi bambini, vestiti a maschera come i vetusti sciamani altro non sarebbero che i defunti che tornano tra i vivi e chiedendo loro in offerta cibo rituale destinato in cambio di tranquillità: solo una volta sazio il defunto potrà ritrovare la pace dell’aldilà.
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