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sabato 22 ottobre 2016

La Dottrina vedica del “Silenzio”

In collaborazione con la rivista Lettera e Spirito: http://acpardes.com/letteraespirito/la-dottrina-vedica-del-silenzio/

di Ananda K. Coomarswamy*

«Soltanto allora lo vedrai, quando non puoi parlarne;

perché la sua conoscenza è profondo silenzio e soppressione dei sensi»[1]



Il significato generale di “silenzio” in connessione con riti, miti e misteri è stato mira­bilmente discusso da René Guénon in Études traditionnelles[2]. Qui ci proponiamo di citare altri, più specifici dettagli dalla tradizione vedica. Va premesso che l’Identità Suprema (tad ekam) non è meramente in se stessa “senza dualità” (advaita), ma quando è considerata da un altro ed esteriore punto di vista è un’identità di molte cose differenti. Con questo non intendiamo soltanto che un primo principio unitario trascende le coppie di opposti (dvandvau) reciproca­mente connesse che possono essere distinte in qualsiasi livello di riferimento come contrari o conosciute come contraddittorie; ma piuttosto che l’Identità Suprema, indeterminata persino come prima assunzione di unità, include nella sua infinità la totalità di ciò che può essere implicato o rappresentato dalle nozioni di infinito e di finito, di cui la prima comprende la seconda, senza reciprocità[3]. D’altra parte, il finito non può essere escluso o isolato da o negato all’infinito, giacché un finito indipendente sarebbe di per sé una limitazione dell’infinito per ipotesi. L’Identità Suprema è, perciò, rappresentata inevitabilmente nel nostro pensiero sotto due aspetti, che sono entrambi essenziali alla formazione di ogni concetto di totalità secundum rem. Così troviamo detto di Mitrāvaruṇau (apara e para Brahman, Dio e Divinità) che da uno stesso seggio essi contemplano «il finito e l’infinito» (aditiṃ ditiṃ ca, RV 1.62.8); dove, natu­ralmente, si deve tener presente che in divinis “vedere” equivale a “conoscere” e a “essere”. O similmente, ma sostituendo la nozione di espirazione con quella di manifestazione, si può dire che «Quell’Uno è ugualmente espirazione e inspirazione» (tad ekam ānīd avātam, RV X.129.2) oppure è allo stesso tempo «Essere e Non-essere» (sa-dasat, RV X.5.7)[4].

Lo stesso concetto, espresso in termini di enunciazione e silenzio, è chiaramente formulato in RV II.43.3, «Oh Uccello, che tu enunci benessere ad alta voce, o sieda silente (tūṣṇīm), pensa a noi con favore»[5]. E analogamente nel rituale, troviamo che riti sono eseguiti con o senza formule enunciate, e che lodi sono offerte vocalmente o silenziosamente; per cui anche i testi forniscono una spiegazione adeguata. Qui si deve premettere che lo scopo primario del Sacrifi­cio Vedico (yajña) è di effettuare una reintegrazione della deità concepita come esaurita e disin­tegrata dall’atto della creazione, e allo stesso tempo quello dello stesso sacrificatore, la cui per­sona, considerata nel suo aspetto individuale, è evidentemente incompleta. La modalità di rein­tegrazione è mediante iniziazione (dīkṣa) e simboli (pratika, ākṛti), siano naturali, costruiti, attuati o vocalizzati; il sacrificante è tenuto a identificarsi con lo stesso sacrificio e così con la deità il cui auto-sacrificio primordiale esso rappresenta, «l’osservanza della regola di questo essendo la stessa com’era alla creazione». Una chiara distinzione è tracciata tra coloro che possono essere solamente “presenti” e quelli che “veramente” partecipano agli atti rituali che vengono eseguiti per loro conto.

Come già detto, ci sono certi atti che sono eseguiti con un accompagnamento vocale e altri silenziosamente. Ad esempio, in ŚB VII.2.2.13-14 e 2.3.3, a proposito della preparazione del­l’altare per il Fuoco, certi solchi sono scavati e certe libagioni fatte con un accompagnamento di parole pronunciate, e altri silenziosamente. «Silenziosamente (tūṣṇīm), poiché ciò che è silente è non dichiarato (aniruktam), e ciò che è non dichiarato è ogni cosa (sarvam) … Questo Agni (Fuoco) è Prajāpati, e Prajāpati è sia dichiarato (niruktaḥ) sia non dichiarato, limitato (parimitaḥ) e illi­mitato. Ora qualunque cosa faccia con formule espresse (yajuṣā), con ciò integra (saṃskaroti) quella sua forma che è dichiarata e limitata; e qualunque cosa faccia silenziosamente, con ciò integra quella sua forma che è non dichiarata e illimitata. In verità, chi come conoscitore di ciò fa così, integra la piena totalità (sarvam kṛtsnam) di Prajāpati; le forme ab extra (bāhyāni rūpāṇi) sono dichiarate, le forme ab intra (antarāṇi rūpāṇi) sono non dichiarate». Un passaggio quasi identico appare in ŚB XIV.1.2.18; e in VI.4.1.6 v’è un altro riferimento all’esecuzione di un rito in silenzio: «Egli distende la pelle d’antilope nera in silenzio, poiché è il Sacrificio, il Sacrificio è Prajāpati, e Prajāpati è non dichiarato».

In TS III.1.9, le prime libagioni sono sorbite silenziosamente (upāṇśu), l’ultima con rumore (upabdim), e «così quello concede alle divinità la gloria che spetta loro, e agli uomini la gloria che spetta loro, e diventa divinamente glorioso fra le divinità e umanamente glorioso tra gli uomini».

In AB II.31-32, i Deva, incapaci di sconfiggere gli Asura, sono detti aver “visto” la “lode silenziosa” (tūsṇīm śaṇsam apaśyam), e questo gli Asura non potevano capirlo. Questa “lode silenziosa” è identificata con ciò che è chiamato gli «occhi delle pigiature del soma, mediante i quali il Conoscitore raggiunge la Luce del mondo». V’è un riferimento a «questi Occhi del soma, con i quali occhi della contemplazione (dhī) e dell’intelletto (manas) noi contempliamo il Dorato» (hiraṇyam, RV I.139.2, vale a dire, Hiraṇyagarbham, il Sole, la Verità, Prajāpati, come in X.121). Si può osservare a tale proposito che, come il vino di altre tradizioni, il soma condiviso non è il vero elisir (rasa, amṛta) della vita, ma un liquore simbolico. «Di ciò che i Brahmani inten­dono con “soma”, nessuno ne gusta mai, nessun che dimora sulla terra ne gusta» (RV X.85.3-4): è «mediante il sacerdote, l’iniziazione e l’invocazione» che il potere temporale partecipa alla parvenza del potere spirituale (brahmaṇo rūpam), AB VII.31[6]. Qui la distinzione tra il soma realmente condiviso e il soma teoricamente condiviso è analoga a quella tra le parole del rituale pronunciate e ciò che non può essere espresso a parole, e analoga similmente alla distinzione tra la rappresentazione visibile e il «dipinto che non è nei colori» (Laṇkāvatāra Sūtra II,118).

La ben nota orazione in RV X.189, indirizzata alla Regina Serpente (sarparājñī) che è allo stesso tempo l’Alba, la Terra, e la Sposa del Sole, è conosciuta anche come il “canto mentale” (mānasa stotra), evidentemente perché, come spiegato in TS VII.3.1, è “cantato mentalmente” (manasā[7] stuvate), e questo proprio perché è nel potere dell’intelletto (manas) non solamente di comprenderlo (imām, i.e., l’universo finito) in un singolo momento, ma anche di trascenderlo, non solo di contenerlo (paryāptum) ma anche di avvolgerlo (paribhavitum). E in questo modo, mediante ciò che è stato precedentemente enunciato vocalmente (vācā) e ciò che è successiva­mente enunciato mentalmente, «entrambi (i mondi) sono posseduti e ottenuti». Proprio lo stesso è sottinteso in ŚB II.1.4.29, dov’è detto che quanto non è stato ottenuto con i riti precedenti è ora ottenuto mediante i versi del Sarparājñī, recitati, com’è evidentemente dato per scontato, mentalmente e in silenzio; e così il tutto (sarvam) è posseduto. Similmente in KB XIV.1, dove le prime due parti del Ājya sono il “mormorio silenzioso” (tūṣṇiṃ-japaḥ) e la “lode silenziosa” (tūṣṇiṃ–śaṇsa), «Egli recita in modo inudibile, per il raggiungimento di tutti i desideri», va inteso, naturalmente, che il canto vocalizzato attiene solo al conseguimento di beni temporali.

Si può notare, altresì, che la corrispondenza delle parole pronunciate verso l’esterno e quelle non dette verso le forme interne di divinità, sopracitata, è in perfetto accordo con la formula­zione di AB I.27, dove quando il soma è stato acquistato dai Gandharva (tipi di Eros, armati di archi e frecce, che sono i guardiani di Soma, ab intra) al prezzo della Parola (vāc, femm., chiamata qui “la Grande Nuda”, la Dea Nuda, e rappresentata nel rito da una giovenca vergine), è prescritto che il recitativo dev’essere eseguito in silenzio (upāṇśu) fino a che ella non sia stata riscattata da loro, vale a dire, fino a quando ella rimane “dentro”.

In BU III.6, dove c’è un dialogo su Brahman, la posizione viene finalmente raggiunta dove all’interrogante viene detto che Brahman è «una divinità sulla quale altre domande non possono essere poste», e così l’interrogante «possiede la sua pace [della divinità]» (upararāma). Questo, naturalmente, è in perfetto accordo con l’impiego della via remotionis negli stessi testi, dov’è detto che il Brahman è “No, No” (neti, neti), e anche con il testo tradizionale citato da Śaṇkara sui Vedānta Sūtra III.2.17, dove Bāhva, interrogato in merito alla natura di Brahman, rimane in silenzio (tūsṇīm), esclamando solo quando la domanda è ripetuta per la terza volta: «Invero io v’insegno, ma voi non capite: questo Brahman è silenzio». Il rifiuto del Buddha d’analizzare lo stato di nirvāṇa comporta precisamente lo stesso significato. [Cfr. avadyam, “l’impronuncia­bile”, da cui i principi conseguenti sono liberati dalla luce manifestata, RV passim.] In BG X.38, Krishna parla di se stesso come «il silenzio di coloro che son nascosti (mauna guhyāṇām), e la gnosi degli Gnostici (jñanaṃ jñanavataām)»; dove mauna corrisponde al muni familiare, “saggio silente”. Naturalmente, questo non significa che Egli non “parli” anche, ma che il suo parlare è semplicemente la manifestazione, e non un’affezione, del Silenzio; come BU III.5 pure ci ricorda, lo stato supremo è tale da trascendere la distinzione tra enunciazione e silenzio. «Senza rispetto verso enunciazione o silenzio (amaunaṃ ca maunaṃ nirvidya), allora egli è veramente un Brāhman». Quando inoltre è chiesto, «Con quali mezzi si diviene così un Brāhman?» all’in­terrogante è detto, «Con quei mezzi con cui si diviene un Brāhman», che è come dire, per una via che può essere trovata ma non può essere tracciata. Il segreto dell’iniziazione rimane inviolabile per sua stessa natura; non può essere tradito perché non può essere espresso, è inesplicabile (aniruktam), ma l’inesplicabile è ogni cosa, allo stesso tempo tutto ciò che può e tutto ciò che non può essere espresso.

Si vedrà dalle citazioni di cui sopra che i testi dei Brāhmaṇa e i riti cui si riferiscono sono non solo assolutamente coerenti in sé ma in completo accordo con i valori sottintesi nel testo dei RV II.43.3; le spiegazioni sono, infatti, di validità universale, e potrebbero essere applicate anche alle Segrete Orazioni della Messa Cristiana (che è anche un sacrificio) come alla ripe­tizione silente della formula degli Indiani Yajus[8]. La coerenza offre allo stesso tempo un’eccel­lente illustrazione del principio generale che quanto si trova nei Brāhmaṇa e nelle Upaniṣhad non rappresenta in linea di principio nulla di nuovo, ma solo un’espansione di quanto è dato per scontato e più “eminentemente” enunciato negli stessi testi liturgici “più vecchi”. Coloro che suppongono che nei Brāhmaṇa e nelle Upaniṣhad siano insegnate dottrine del tutto “nuove” stanno semplicemente ponendo inutili difficoltà sulla via della loro comprensione delle Saṃhitā.

Sarà vantaggioso anche considerare la derivazione e la forma della parola tūṣṇīm. Questa forma indeclinabile, generalmente avverbiale (“silenziosamente”) ma talvolta da rendere in mo­do aggettivale o come un sostantivo, è in realtà l’accusativo di tūṣṇa, femm. tūṣṇī, presumibil­mente andato perso, corrispondente al significato del greco σιγή, e derivato da Vtuṣ, che significa essere soddisfatto, contento e a riposo, nel senso che il movimento s’arresta nel raggiungimento del suo oggetto, e proprio come il discorso s’arresta nel silenzio quando tutto ciò che si poteva dire è stato detto. La parola tūṣṇīm si presenta come un vero accusativo (W. Caland, «tūṣṇīm è uguale a vācaṃyamaḥ») [poiché parlare di “contemplare silenziosamente” comporterebbe una tautologia] in PB VII.6.1, dove Prajāpati, desiderando procedere dallo stato di unità a quello di molteplicità (bahu syām), si espresse con le parole «Possa io nascere» (prajāyeya), e «avendo con l’intelletto contemplato il silenzio» (tūṣṇīm manasā dhyāyat), con ciò “vide” (ādīdhīt) che il Germe (garbham, vale a dire, Agni o Indra, che come il Bṛhat diventa il “primogenito”) era na­scosto dentro di sé (antarhitam), e così si prefisse di farlo nascere per mezzo della Parola (vāc). [Cfr. TS II.5.11.5, yad-dhi manasā dhyāyati, dove yad è equivalente a “parola non detta”, “concetto inespresso”.] Tūsṇīm manasā dhyāyat poi corrisponde al più usuale manasā vācam akrata (RV X.71.2) o manasāivā vācaṃ mithunaṃ samabhavat (ŚB VI.1.2.9), con riferimento a «l’atto della fecondazione latente nell’eternità», così[9] «Egli (Prajāpati) rimase gravido (garbhin)[10] e manifestò (asṛjata) i Singoli Angeli». La nascita del Figlio è, a rigore, non solo un concepimento dai principi congiunti, nel senso di un’operazione vitale, ma allo stesso tempo un concepimento intellettuale, per verbum in intellectu conceptum, corrispondente alla designazione del Germe (garbham, vale a dire, Hiraṇyagarbha) come un concetto (dīdhitim) in tal senso, RV III.31.1.

Il Pañcaviṃśa Brāhmaṇa, sopracitato, continua a spiegare con riferimento all’intenzione di «portare alla nascita per mezzo della Parola» (vācā prajanayā) che Prajāpati «emise la Parola»[11] (vācam vyaṣarjata, in altre parole, effettuò la separazione di Cielo e Terra), ed Ella discese come Rathantara (vāg rathantaram avapadyata, dove avapad è letteralmente “discendere”) … e di lì nacque il Bṛhat … che era rimasto così a lungo all’interno “(jyog antar abhūt); cfr. RV X.124.1, «Tu giacesti abbastanza a lungo nella vasta oscurità» (jyog eva dīrghaṃ tama āśayiṣṭhāh)[12]. Vale a dire che Aditi, Magna Mater, Notte, diventa Aditi, Madre Terra, e Alba, per essere rappresentata nel rituale presso l’altare (vedi), che è il luogo di nascita (yoni) di Agni: si fa distinzione tra la Parola che «era presso Dio ed era Dio» e la Parola come Madre Terra, o in altre parole tra “Maria spirituale” e “Maria incarnata”[13]. Poiché, come sappiamo da TS III.1.7 e JB I.145-146, il Bṛhat (il Padre portato alla nascita) corrisponde al Cielo[14], il futuro (bhaviṣyat), l’illimitato (aparimitam), e all’espirazione (apāna); il Rathantara (la natura separata del Padre) corrisponde alla Terra, il passato (bhūtāt), il limitato (parimitam), e all’inspirazione (prāna)[15]. Gli stessi assunti si trovano in JU I.53 sgg., sostituendo Sāman e Ṛc a Bṛhat e Rathantara: il Sāman (masch.) rappresentante l’intelletto (manas) e l’espirazione (apāna), la Ṛc (femm.) la Parola (vāc) e l’inspirazione (prāṇa). Il Sāman è anche in se ipso «sia lei (sā) sia lui (ama)», ed è come una singola potenza luminosa (virāj)[16] che i principi congiunti generano il Sole, e poi immediata­mente si separano l’uno dall’altro, questa divisione dell’essenza dalla natura, del Cielo dalla Terra, o della Notte dal Giorno essendo l’inevitabile condizione di tutta la manifestazione; è in­variabilmente la venuta della luce che separa nel tempo i Genitori che sono riuniti nell’eternità. Ora sāman è sempre in rapporto con la musica, ṛc con l’articolata formulazione delle incanta­zioni (ṛc, mantra, brahma), così che quando le parole sono cantate con musica misurata questa rappresenta un’analisi e un rendere in natura una musica celestiale che in sé è una, e imper­cettibile all’orecchio umano[17]. Possiamo dire, di conseguenza, che il nome di “Grande Liturgia” (bṛhad ukthaḥ, dove ukthaḥ viene da vāc, “parlare”) applicato ad Agni, e.g., in RV V.19.3, rappresenta il Figlio come Parola parlata, e Logos manifestato[18]; e allo stesso modo Indra è «la più eccellente incantazione» (jyeṣṭhaś ca mantraḥ, RV X.50.4).

La Parola parlata è un’armonia. In KB XXIV.2 e XXIV.1 «Prajāpati è colui il cui nome non è menzionato[19]; questo è il simbolo di Prajāpati … “A voce alta” in “Canta a voce alta, Oh tu dall’ampio splendore” (Agni) è un simbolo del Bṛhat». In ŚB VI.1.1.15, il Giubilo trionfante della Parola parlata è descritto come segue: «Lei (la Terra, bhūmi, essendo pṛthivī, “distesa”), sentendosi del tutto completa (sarvā kṛtsnā), cantò (agāyat); e poiché “cantò”, lei è Gāyatrī. Dicono anche che “Fu Agni, invero, sulla sua schiena (pṛṣṭhe)[20] che, sentendosi del tutto completo, cantò; e dacché cantò, pertanto egli è Gāyatra”. E quindi chiunque si senta del tutto completo, o canta o si diletta nel canto».

Abbiamo così brevemente discusso la natività divina da certi punti di vista al fine di far emer­gere le corrispondenze dei riferimenti vedici e gnostici al Silenzio. In entrambe le tradizioni le potenze autentiche e integrali a ogni livello di riferimento sono sizigie di principi congiunti, maschile e femminile; riassumendo la dottrina gnostica degli Eoni (vedico amṛtāsaḥ=devāḥ) possiamo dire che ab intra e informalmente vi sono ßνθóς e σιγή, “Abisso” e “Silenzio”, e ab extra, formalmente, νoûς e ἔvvoια o Sofia, “Intelletto”, e “Saggezza”, e senza entrare in ulteriori dettagli, che σιγή corrisponde al vedico tuṣṇī e νoûς a manas, σιγή e Sofia rispettivamente agli aspetti nascosti e manifesti di Aditi-Vāc; e anche che la “caduta” della Parola (vāg … avapadyata, sopracitata), e la sua purificazione come Ṛc, Apālā, Sūryā (JU I,53 sgg., RV VIII.91 e X.85) corrisponde alla caduta e redenzione di Sofia e della Shekinah nelle tradizioni gnostica e cabalistica, rispettivamente. In quelle che sono forme di Cristianesimo in realtà più accademiche che “ortodosse”, i due aspetti della Voce, interiore ed esteriore, sono quelli di «quella natura con cui il Padre genera» e «quella natura che recede dalla somiglianza a Dio, e tuttavia mantiene una certa somiglianza con l’essere divino» (Summa Theologiæ I.41.5c e I.14.11 ad 3), il Theotokoi eterno e temporale, rispettivamente.

In conclusione ripetiamo che l’Identità Suprema non è meramente silente né solo vocale, ma letteralmente una non-cosa che è allo stesso tempo indefinibile e parzialmente definita, una Parola tacita e parlata.



Ananda K. Coomaraswamy

* Ananda K. Coomaraswamy, The Vedic Doctrine of “Silence”, in Indian Culture, n. 4, vol. III, Princeton University Press, 1937 (cfr. Coomaraswamy. 2: Selected Papers. Metaphysics, Princeton University Press, 1987).

Legenda: RV: Ṛg Veda Saṃhitā; TS: Taittirīya Saṃhitā; AV: Atharva Veda; PB: Pañcavimśa Brāhmaṇa; ŚB: Śatapatha Brāhmaṇa; AB: Aitareya Brāhmaṇa; KB: Kauṣītaki Brāhmaṇa; JB: Jaiminīya Brāhmaṇa; JU: Jaiminlya Upaniyad; GB: Gopatha Brāhmaṇa; AĀ: Aitareya Āraṇyaka; BU: Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad; MU: Muṇḍaka Upaniṣad; BG: Bhagavad Gita; KU: Kauṣītaki Upaniṣad.

Cfr. R. Guénon, Études Traditionnelles, no 214, octobre 1937, Les Revues, ripreso in Études sur l’Hindouisme, Éditions Traditionnelles, Paris, 1968, Compte-rendu d’articles de revues, Année 1937: «In Indian Culture (Vol. III, no 4), il sig. Ananda Coomaraswamy studia La dottrina vedica del “silenzio”, ch’egli ricollega a quanto abbiamo qui esposto a proposito del “segreto iniziatico”, così come dei “miti” e dei “misteri” intesi nel loro senso originario. Si tratta dunque essenzialmente dell’inesprimibile, che è il “supremo” (para), mentre la “parola” espressa si riferisce necessariamente al “non-supremo” (apara), i due aspetti apparendo d’altronde come inseparabilmente associati in numerosi testi, così come nel rituale, a costituire insieme la concezione totale del Principio».

[1] Ermete, Libro X, 5.

[2] René Guénon, Organisations initiatiques et sociétés secrètes e Du Secret initiatique, in Le Voile d’Isis (1934), pp. 349 e 429; Mythes, mystères et symbols, in Le Voile d’Isis (1935), p. 385. Dal 1936 Le Voile d’Isis è stato pubblicato come Études traditionelles.

[3] «L’Infinito (aditiḥ) è Madre, Padre e Figlio, di tutto ciò che è nato, e il principio di nascita, ecc.» (RV I.89.10); «Nulla è cambiato nell’Infinito inamovibile (ananta) dall’emanazione o riassorbimento dei mondi» (Bhāskara, Bījagaṇita [Benares, 1927], ripetendo il pensiero di AV X.8.29 e BU V.I, che «No­nostante plenum (lat.) (pūraṇam) sia sottratto da plenum, plenum ancora rimane»). L’inclusione del finito nell’Infinito è espressamente formulata in AĀ II.3.8, «A è Brahman, l’ego (aham) è al suo interno». Sulla relazione tra unità e molteplicità vedi Coomarswamy, Vedic Exemplarism, in Harvard Journal of Asiatic Studies, 1936.

[4] Le “operazioni distinte” (vivrata), interne ed esterne (tira o guhya, e āvis), dell’Identità Suprema sono rappresentate da molte altre coppie, e.g., ordine e disordine (cosmo e caos), vita e morte, luce e tenebre, vista e cecità, veglia e sonno, potenza e impotenza, movimento e riposo, tempo ed eternità, ecc. Si può osser­vare che tutti i termini negativi rappresentano privazioni o mali se considerati empiricamente, ma assenza di limite, e bene, quando considerati anagogicamente, il concetto negativo includendo il positivo, come la causa include l’effetto. [Questo è ulteriormente illustrato dalle due nature, niruktānirukta, mortale e immortale, come Mitrāvaruṇau in RV I.164.38, i due Brahmani in BU II.3.1, Prajāpati in ŚB X.1.3.2.]

[5] Cfr. RV X.27.21, «Oltre ciò che è udito qui, v’è un altro suono» (śrava id ena paro anyad asti); I.164.10, «Dietro all’immensità del Cielo gli dei incantano una parola onnisciente senza effetti verso l’esterno» (mantrayante … viśvavidaṃ vācam aviśminvam); JU III,7-9, dove si dice che l’iniziato (dìkṣitaḥ, considerato come un morto per il mondo) pronunci una parola “non umana” (amānuṣiṃ vācam) o “brahmadictum” (brahmavādyam). Nient’altro che un’eco della vera Parola può essere udito o compreso da orecchie umane.

[6] AĀ II.3.7, «Mediante la forma dell’Unico si ha l’essere in questo mondo» (amuno rūpeṇêmaṃ lokam ābhavati); l’opposto, «mediante questa forma (umana) si è interamente rinati in quel mondo» è asserito qui, e anche in II.3.2 dove una “persona” (puruṣa) si distingue dall’animale (paśu) dacché «dal mortale cerca l’immortale, che è la sua perfezione». Ad esempio, in AB VII.31, sopracitato, è mediante i colpi della nyagrodha che il rappresentante del potere temporale condivide metafisicamente il soma (parokṣeṇa). Questa dottrina di “transustanziazione” è enunciata similmente in ŚB XII.7.3.11, «Per fede fa sì che il surā sia soma», cfr. ŚB XII.8.1.5 e XII.8.2.2. Vedi anche Coomaraswamy, Angel e Titan: An Essay in Vedic Ontology, Journal of the American Oriental Society, n. 12, 1935, p. 382.

[7] Da qui Manasā Devī, la moderna denominazione bengalese della Dea Serpente.

[8] Si può aggiungere che mentre, da un punto di vista religioso, silenzio e digiuno e altri atti d’asten­sione sono atti di penitenza, da un punto di vista metafisico il loro significato non ha più a che fare con il mero miglioramento dell’individuo come tale, ma con la realizzazione di condizioni sovra-individuali. La vita contemplativa come tale è superiore alla vita attiva come tale. Non ne consegue, tuttavia, che lo stato del Conoscitore o persino quello del Viaggiatore dovrebbe essere d’inazione totale; questa sarebbe un’i­mitazione imperfetta dell’Identità Suprema, dove eterno riposo ed eterno lavoro sono una e stessa cosa. V’è una imitazione adeguata solo quando inazione e azione sono identificate, come inteso dalla Bhagavad Gitā e nel wu wei Taoista; l’azione non implica più limitazione quando non è più determinata da necessità o imposta da fini da raggiungere, bensì diviene una semplice manifestazione. In tal caso, ad esempio, l’enunciazione non esclude, ma piuttosto rappresenta il silenzio [«È solo dal suono che il non suono è rivelato», MU VI.22]; ed è proprio in questo modo che un mito o altro simbolo adeguato, sebbene sia invero un’”espressione”, rimane essenzialmente un “mistero”. Allo stesso modo, di ogni funzione natu­rale, quando riferita al principio che rappresenta, si può propriamente dire che vi si è rinunciato anche quando è compiuta.

[9] “Così”, i.e., come esprime sant’Agostino: avendo così «fatto Se stesso madre di chi deve nascere» (Epiphanius contra quinque hæreses, 5). [Vedi A Coptic Gnostic Treatise Contained in the Codex Bru­cianus Ms. 96, trad. Charlotte Baynes (Cambridge, 1933), XII.10 (p. 48), per Source and Silence.]

[10] Cfr. Epiphanius contra quinque hæreses XXXIV.4, «Il Padre era in travaglio», e nel folklore, la “covata”.

[11] È interessante notare il rituale parallelo in ŚB IV.6.9.23-24 dove, dopo essersi seduti senza parlare (vācaṃyamaḥ), i sacrificatori devono «formulare la loro richiesta» (vācam visṛjetan) secondo i loro desideri, e.g., «Possa esserci concessa abbondante prole». [Nota tūsṇīm śansaṃ tira iva vai retāṃsi vikryante, AB II.39; cfr. particolarmente JB III.16.]

[12] Dīrghatamas, “Vasta Oscurità”, uno dei “profeti” ciechi (ṛṣī) del Ṛg Veda, è, di conseguenza, la desi­gnazione di una ab intra, nascosta forma di Agni, la cui relazione con suo fratello minore Dīrghaśravas, “Grido Lontano”, è come quella di Varuna con il fratello minore Mitra o Agni, o, in altre parole, come quella della Morte (mṛtyu) con la Vita (āyus). Di Dīrghaśravas è anche detto che era «rimasto a lungo in stato di privazione e mancanza di cibo» (jyog aparuddhó śayānaḥ, PB XV.3.25), e tutte queste espressio­ni corrispondono a quanto si dice di Vṛtra in RV I-32.10, cioè, che «il nemico di Indra giaceva nella vasta oscurità (dīrgham tama aśayat) sotto le Acque»; l’aspetto ab intra della divinità è quello del Drago o del Serpente (vṛtra, ahi), la processione di Prajapati un «trascinarsi fuori dalla cieca oscurità» (andhe tamasi prāsarpat, PB XVI.1.1), e quella dei Serpenti generalmente uno «strisciare avanti» (ati sarpana), per cui essi diventano i Soli (PB XXV.15.4). Su questa processione serpentina vedi Coomaraswamy, Angel and Titan, in Journal of the American Oriental Society, 1935. La processione di Dīrghatamas richiede una più lunga discussione.

[13] Diversamente rappresentato miticamente come il ratto della Parola (RV I.130.9, dove Indra “ruba la Parola,” vācam … muṣāyati), o come un’analisi della Parola (RV VII.103.6, X.71.3 e 125.3), o ancora come una misura o la nascita di Māyā da Māyā (AV VIII.9.5, «Māyā naque da Māyā», seguito dal Lalita Vistara XXVII.12, «Dacché come lei, i.e., la madre del Buddha, la sembianza fu modellata secondo quella di Māyā, Māyā fu chiamata».).

[14] Agni, sebbene il Figlio, è lo stesso Padre rinato, e immediatamente ascende; inoltre, «Agni è acceso da Agni» (RV I.12.6). Di conseguenza, si può dire di lui non solo che «Essendo il Padre, divenne il Figlio» (AV XIX.53.4) e che Egli è insieme «il Padre degli dei e il loro Figlio» (RV I.69.1, vedi ŚB VI.1.2.26), ma anche che «Colui che un tempo era il proprio Figlio ora diventa il proprio Padre» (ŚB II.3.3.5), che egli è «Padre di suo padre» (RV VI.16.35), a un tempo Figlio e Fratello di Varuṇa (RV IV.1.2 e X.51.6), e “Proprio-figlio” (tanūnapat, passim), quest’ultima espressione corrisponde esattamente allo Gnostico “αῦτoγεvης”. Quindi, è facile vedere come Agni, sebbene Figlio di nascita ctonia [ctonio dal gr. χϑόνιος, der. di χϑών -ονός “terra”, letter. sotterraneo (N.d.T.)], può nella sua identità con il Sole essere considerato anche come l’Amante della Madre Terra; la sigizia [dal gr. σύζυγος, lett. aggiogato insieme; in astronomia, dicesi sigizia una configurazione in linea retta di tre corpi celesti (N.d.T.)] Agni-Prithvī essendo quindi un aspetto dei genitori Cielo e Terra, Savitṛ-Sāvitṛī, e più alla lontana Mitrāvaruṇau (GB I.32 e JUB IV.27, ecc.).

[15] Cfr. in AĀ II.3.6 la distinzione dello spirito (prāna) dal corpo (śarīra), di cui il primo è nascosto (tira) e il secondo evidente (āvis), come “a” intrinseca e “a” espressa: ŚB X.4.3.9, «Nessuno diventa immortale mediante il corpo, ma che si tratti di gnosi o di lavoro, solo dopo aver abbandonato il corpo».

[16] Virāj, da cui tutte le cose “suggono” la loro specifica virtù o carattere, è comunemente una designa­zione della Magna Mater, ma anche quando così considerato è una sigizia, «Chi conosce la sua dualità progenitiva?» AV VIII.9.10. I termini virāj e aditi, benché entrambi di solito femminili, possono anche avere un senso maschile con riferimento simile al primo principio. Sostenere, invero, che qualsiasi potere creativo considerato nel suo aspetto creativo possa essere definito come esclusivamente “maschio” o esclu­sivamente “femmina” implica una contraddizione in termini, essendo qualunque creazione una co-gnizione e una con-cezione; persino nel Cristianesimo, la generazione del Figlio è «un’operazione vitale da un principio congiunto» (a principio conjuncto, Summa Theologiæ I.27.2), i.e., un principio che è sia un’es­senza sia una natura, «Quella natura onde la quale il Padre genera». E solo quando ci si è resi conto una volta per tutte che il potere creativo a qualsiasi livello di riferimento, che sia ad esempio come Dio o Uomo, è sempre un’unità di principi congiunti, vale a dire, una sigizia e mithunatva, che può essere vista l’adeguatezza di espressioni come «Egli (Agni) nacque dal grembo di Titan (asurasya jaṭharāt ajāyata)», RV III.29.14; «Mitra versa il seme in Varuṇa (retaḥ varuṇo siñcati)», PB XXV.10.10; «Il mio grembo è il Grande Brahman, in esso depongo il Germe», BG XIV.3, e molti riferimenti simili alla maternità di una divinità attribuiti con nomi grammaticalmente maschili o neutri.

[17] Proprio come in Plotino, Enneadi I.6.3, «Armonie non udite nel suono creano le armonie che udiamo e risvegliano l’anima alla sola essenza in un’altra natura»; e V.9.11, «Una rappresentazione terrena della musica che c’è nel ritmo (Skr. chandāṇsi) del mondo ideale». È precisamente in tal senso che la musica rituale, come ogni altra parte del Sacrificio, è un’imitazione di «ciò che fu fatto dalle Divinità al principio» (ŚB VII.2.1.4 e passim), che vale non meno per la Messa o il Sacrificio Cristiano.

Si può osservare che nell’operazione dei principi congiunti necessariamente ne concepiamo uno come attivo, l’altro come passivo, e diciamo che uno è agente e l’altro mezzo, o che uno dà e l’altro riceve. L’apparente conflitto con la dottrina Cristiana, che nega una “potenza passiva” in Dio (Summa Theologiæ I.41.4 ad 2), è irreale. Lo stesso San Tommaso osserva che «in ogni generazione v’è un principio attivo e uno passivo» (Summa Theologiæ I.98.2c). Il fatto è che una distinzione di questo tipo è determinata dalla necessità di parlare in termini di tempo e spazio; mentre in divinis l’azione è immediata, e non v’è una di­stinzione reale, ma soltanto logica tra agente e mezzo. Savitṛ e Sāvitṛī sono entrambi ugualmente “grembi” (yonī, JU IV.27). Se «Una delle perfezioni agisce (kartā), l’altra favorisce (ṛndhan)», RV III.31.2, ed entrambe le cose sono operazioni attive; non significa che “agire” o “favorire” rappresentino possibilità che potrebbero o meno essere state realizzate, ma solamente si riferisce alla co-operazione dei principi congiunti, intenzione e potenza. Non v’è distinzione fra potenzialità e atto. È solo quando la creazione è avvenuta, e i concetti di tempo e spazio sono quindi coinvolti, che possiamo pensare a un “puro atto” come separato dalla “potenza” dalla misura dell’intero universo (Dante, Paradiso XXIX.31-36), pensare al Cielo e alla Terra “in atto di separarsi” (te vyadravatām, JU I,54), o alla «Natura che si allontana dalla somiglianza con Dio» (Summa Theologiæ I.14.11). Questa separazione (viyoga) è l’occasione della sofferenza cosmica (traiśoka, il dolore dei Tre Mondi che un tempo erano stati uno, PB VIII.1.9, loka-duḥkha, Weltschmerz, KU V.II), e non v’è da meravigliarsi che «Quando la coppia congiunta fu divisa, i Deva gemettero, e dissero, “Lasciate che s’uniscano ancora”» (RV X.24.5); tuttavia, è solo «all’incontro delle vie», «alla fine dei mondi», che il Cielo e la Terra «s’abbracciano» (JU 1.5, ecc.), solo «nel cuore» che il matrimonio di Indra e Indrāṇī è davvero consumato (ŚB X.5.2.11), vale a dire, in un silenzio e oscurità che sono gli stessi come nella «Notte che nasconde l’oscurità della coppia congiunta» in RV I.123.7, il Śatapatha Brāhmaṇa interpreta questa condizione di cognizione inconscia (saṃvit), beatitudine perfetta (para-mānanda), e sonno (svapna) come un «entrare all’interno, o essere posseduto da, ciò che è il proprio Sè» (svāpyaya). [Cfr. Māṇḍ. Up. II, apīti.]

[18] Il Sacrificio nel suo aspetto liturgico è un «portare alla nascita mediante la Parola»: si «canta la Sāman su un Ṛc», e questo è un accoppiamento procreativo (mithunam), identico a quello tra Intelletto e Parola (manas e vāc), Sacrificio e Ricompensa (yajña, dakṣinā, i.e., Prajāpati e Alba), e letteralmente una in-form-azione della Natura, «se non fosse per l’Intelletto, la Parola sarebbe incoerente» (ŚB III.2.4.11), mentre è in realtà il «luogo di nascita dell’Ordine». La Rathantara, ad esempio, è un «mezzo di procrea­zione» (prajananam, PB VII.7.16, corrispondente a prajananam in quanto “amante” viśpatnī, la “madre” di Agni in RV III.29.1); Sāvitrī in tal senso è identificato con i misuratori (chandāṇsi) e chiamata la “Madre dei Veda” (Gopatha Brāhmana I.33 e 38), i quali “misuratori” sono comunemente considerati come il mezzo per eccellenza di reintegrazione (saṃskaraṇa, AB VI.27, ŚB VI.5.4.7, ecc.), e nella sua unione con Savitṛ presenta un’analogia con l’Ecclesia Gnostica (“Chiesa Madre”) e Gnosi come costituenti una sigizia con l’Uomo (άνθρωπος=Prajāpati, Agni, Manu). Anche in questo nesso andrebbe notata la stretta relazione delle parole mātrā, mātṛ, e māyā, “metro”, “madre”, e “mezzi magici” o “matrice”; mā “misurare” e nir-mā “delimitare” essendo costantemente impiegati non solo nel senso di dare forma e definizione, ma nel senso strettamente correlato di creare o dare alla luce, segnatamente in RV III.38.3, III.53.15, X.5.3, X.125.8, AV VIII.9.5, e nella ben nota espressione nirmāṇa-kāya, che denota precisa­mente il presunto ed effettivamente manifestato e nato “corpo” del Buddha.

Sacrificio e nascita sono concetti inseparabili; il Śatapatha Brāhmaṇa, invero, propone la hermeneia, «yajña, perché “yañ jayate”». Il Sacrificio crea divisione, uno “spezzare del pane”; il risultato è articolato e chiaro. Il Sacrificio è un distendersi, un fare un tessuto o rete della Verità (satyam tanavāmahā, ŚB IX.5.1.18), una metafora comunemente impiegata altrove in relazione all’irraggiare della luce fontale, che forma la trama dei mondi. Proprio come l’accensione di Agni è il rendere percepibile ed evidente una luce nascosta, così l’enunciazione dei canti è il rendere percepibile un silente principio del suono. La Parola parlata è una rivelazione del Silenzio, che misura la traccia di ciò che è di per sé incommensurabile.

[19] [Prajāpati sceglie aniruktaṃ sāmno … svargyam, la «(parte) indistinta del sāman che appartiene al Cielo», JU I.52.6; cfr. manasā “in silenzio”, opposto a vācā, come nel JU I.58.6; vedi ŚB IV.6.9.17 e la nota di Eggeling su manasā stotra, anche JU I.40.4.]

[20] Pṛṣṭhe, i.e., (1) con riferimento ad Agni seduto sull’altare della terra (vedi), che è il luogo della sua nascita (yoni), e/o (2) con riferimento ad Agni sostenuto da Pṛṣṭhhastotra, del cui inno la Gāyatrī è la madre per mezzo di Prajāpati, PB VII.8.8.

sabato 17 settembre 2016

Del segreto iniziatico

In collaborazione con la rivista Lettera E Spirito: http://acpardes.com/letteraespirito/del-segreto-iniziatico/

di René Guénon(*)

Sebbene abbiamo già indicato qual è la natura essenziale del segreto iniziatico[1], dobbiamo portare ulteriori precisazioni in proposito, allo scopo di distinguerlo, senza possibilità di equi­voci, da tutti gli altri generi di segreti più o meno esteriori che s’incontrano nelle molteplici organizzazioni che, per questa ragione, sono dette “segrete” nel senso più generale. Abbiamo detto, infatti, che questa designazione, per noi, significa unicamente che tali organizzazioni pos­siedono un segreto, qualunque ne sia la natura, e anche che, secondo il fine che esse si propon­gono, questo segreto può naturalmente vertere sulle cose più diverse e assumere le forme più svariate; ma, in tutti i casi, qualunque segreto che non sia il segreto propriamente iniziatico ha sempre un carattere convenzionale; con ciò intendiamo dire che non è tale se non in virtù di una convenzione più o meno esplicita, e non per la natura stessa delle cose. Al contrario, il segreto iniziatico è tale perché non può non esserlo, poiché consiste esclusivamente nell’“inesprimibile”, il quale, di conseguenza, è necessariamente anche l’“incomunicabile”; e così, se le organizza­zioni iniziatiche sono segrete, in esse tale carattere non ha più nulla d’artificiale e non risulta da alcuna decisione più o meno arbitraria da parte di chicchessia. Questo punto è dunque parti­colarmente importante per ben distinguere, da un lato, le organizzazioni iniziatiche da tutte le altre organizzazioni segrete qualunque, e dall’altro, nelle stesse organizzazioni iniziatiche, quel che costituisce l’essenziale da tutto ciò che può venire ad aggiungervisi accidentalmente; quindi dobbiamo ora dedicarci a svilupparne un po’ le conseguenze.
La prima di queste conseguenze, che peraltro abbiamo già indicato precedentemente, è che, mentre ogni segreto d’ordine esteriore può sempre essere tradito, solo il segreto iniziatico non può mai esserlo in alcuna maniera, poiché, in se stesso e in qualche modo per definizione, è inaccessibile e inafferrabile ai profani e non può da essi venir penetrato, la sua conoscenza non potendo essere che la conseguenza dell’iniziazione stessa. In effetti, questo segreto è di tal na­tura che le parole non possono esprimerlo; è per questo, come spiegheremo più completamente in seguito, che l’insegnamento iniziatico non può far uso che di riti e di simboli, i quali sugge­riscono piuttosto che non esprimano nel senso ordinario della parola. Per l’esattezza, quel che è trasmesso con l’iniziazione non è il segreto in sé, poiché esso è incomunicabile, ma l’influenza spirituale che ha i riti come veicolo, e che rende possibile il lavoro interiore per mezzo del quale, prendendo i simboli come base e come supporto, ciascuno coglierà tale segreto e lo penetrerà più o meno completamente, più o meno profondamente, secondo la misura delle proprie possibilità di comprensione e di realizzazione.
Checché si possa pensare delle altre organizzazioni segrete, non si può perciò, in ogni caso, rimproverare alle organizzazioni iniziatiche d’avere questo carattere, poiché il loro segreto non è qualcosa che esse nascondano volontariamente per ragioni qualsiasi, legittime o no, e sempre più o meno soggette a discussione e ad apprezzamento come tutto quel che procede dal punto di vista profano, bensì qualcosa che non è in potere di nessuno, quand’anche lo volesse, svelare e comunicare ad altri. Quanto al fatto che queste organizzazioni siano “chiuse”, vale a dire che non ammettono tutti indistintamente, esso si spiega semplicemente con la prima delle condi­zioni dell’iniziazione quali abbiamo esposte in precedenza, ossia per la necessità di possedere certe “qualificazioni” particolari, in assenza delle quali alcun beneficio reale potrebbe essere tratto dal ricollegamento a una tale organizzazione. Per di più, quando questa diviene troppo “aperta” e insufficientemente rigorosa a tale riguardo, corre il rischio di degenerare a causa dell’incomprensione di coloro che così ammette sconsideratamente, e che, soprattutto quando divengono la maggioranza, non mancano d’introdurvi ogni sorta di vedute profane e di deviare la sua attività verso scopi che non hanno niente in comune con il dominio iniziatico, come si vede anche troppo bene in ciò che, ai nostri giorni, ancora sussiste in quanto a organizzazioni di questo genere nel mondo occidentale.
Così, ed è una seconda conseguenza di quel che abbiamo enunciato all’inizio, il segreto iniziatico in se stesso e il carattere “chiuso” delle organizzazioni che lo detengono (o, per parlare più esattamente, che detengono i mezzi con i quali è possibile a coloro che sono “qualificati” d’avervi accesso) sono due cose del tutto distinte e che non devono in nessun modo essere confuse. Per quanto riguarda il primo, significa disconoscerne totalmente l’essenza e la portata l’invocare delle ragioni di “prudenza” come talvolta si fa; per il secondo, invece, che peraltro riguarda la natura degli uomini in generale e non quella dell’organizzazione iniziatica, si può fino a un certo punto parlare di “prudenza”, nel senso che, con ciò, quest’organizzazione si difende, non contro delle “indiscrezioni” impossibili quanto alla sua natura essenziale, ma contro quel pericolo di degenerazione di cui abbiamo appena parlato; né si tratta della ragione primaria, quest’ultima non essendo altro che la perfetta inutilità d’ammettere delle individualità per le quali l’iniziazione non sarebbe mai altro che “lettera morta”, vale a dire una formalità vuota e senz’alcun effetto reale, poiché esse sono in qualche modo impermeabili all’influenza spirituale. Quanto alla “prudenza” nei confronti del mondo esterno, come la s’intende il più delle volte, non può essere che una considerazione affatto accessoria, ancorché sia sicuramente legittima in presenza di un ambiente più o meno coscientemente ostile, l’incomprensione pro­fana fermandosi raramente a una sorta d’indifferenza e tramutandosi fin troppo facilmente in un odio le cui manifestazioni costituiscono un pericolo che non ha certo niente d’illusorio; ma questo non può tuttavia colpire l’organizzazione iniziatica in sé, la quale, in quanto tale, è, come abbiamo detto, veramente “inafferrabile”. Così le precauzioni a questo riguardo s’imporranno quanto più tale organizzazione sarà già più “esteriorizzata”, dunque meno puramente iniziatica; è peraltro evidente che è soltanto in questo caso che essa può arrivare a trovarsi in diretto contatto con il mondo profano, che, altrimenti, non potrebbe che ignorarla in modo puro e semplice. Non parleremo qui di un pericolo d’ordine diverso, che può risultare dall’esistenza di ciò che abbiamo chiamato la “contro-iniziazione”, e al quale semplici misure esteriori di “prudenza” non possono peraltro ovviare; queste non valgono che contro il mondo profano, le cui reazioni, lo ripetiamo, sono da temere soltanto perché l’organizzazione ha assunto una forma esteriore analoga a quella di una “società” o è stata trascinata più o meno completamente in un’azione esercitantesi al di fuori del dominio iniziatico, tutte cose il cui carattere non può essere considerato che semplicemente accidentale e contingente[2].
Arriviamo così a far emergere un’ulteriore conseguenza della natura del segreto iniziatico: può accadere infatti che, oltre a questo segreto che solo le è essenziale, un’organizzazione iniziatica possieda anche secondariamente, e senza per questo perdere in nessun modo il suo carattere proprio, altri segreti che non sono dello stesso ordine, ma di un ordine più o meno esteriore e contingente; e sono questi segreti puramente accessori che, essendo necessariamente i soli ad apparire agli occhi dell’osservatore esterno, saranno suscettibili di provocare diverse confusioni. Questi segreti possono provenire dalla “contaminazione” di cui abbiamo parlato, intendendo con ciò l’aggiunta di fini che non hanno nulla di iniziatico, e ai quali può peraltro esser data un’importanza più o meno grande, poiché, in questo genere di degenerazione, tutti i gradi sono evidentemente possibili; ma non sempre le cose stanno così, e può anche essere che simili segreti si riferiscano ad applicazioni contingenti, ma legittime, della stessa dottrina iniziatica, applicazioni che si giudica opportuno “riservare” per ragioni che possono essere assai diverse, e andrebbero determinate in ciascun caso particolare. I segreti a cui stiamo alludendo sono, in special modo, quelli che concernono le scienze e le arti tradizionali; quel che nel modo più generale si può dire al proposito, è che, non potendo tali scienze e tali arti essere veramente comprese al di fuori dell’iniziazione in cui hanno il loro principio, la loro “volgarizzazione” potrebbe avere solo degli inconvenienti, giacché essa comporterebbe inevitabilmente una defor­mazione o addirittura uno snaturamento, del genere di quello che ha precisamente dato origine alle scienze e alle arti profane, come abbiamo esposto in altre occasioni.
In questa stessa categoria di segreti accessori e non essenziali, si deve annoverare anche un altro genere di segreto che esiste in maniera molto generale nelle organizzazioni iniziatiche, e che è quello che occasiona più comunemente, nei profani, quell’equivoco su cui abbiamo pre­cedentemente attirato l’attenzione: tale segreto è quello che verte, sia sull’insieme dei riti e dei simboli in uso in tale organizzazione, sia, più particolarmente ancora, e anche in maniera più ri­gorosa di solito, su certe parole e certi segni da essa impiegati come “mezzi di riconoscimento”, per permettere ai suoi membri di distinguersi dai profani. Va da sé che ogni segreto di tale natura non ha che un valore convenzionale e tutto relativo, e che, per il fatto stesso di concer­nere delle forme esteriori, può sempre essere scoperto o tradito, il che peraltro, rischierà, del tutto naturalmente, di verificarsi tanto più facilmente quanto più si tratterà di un’organizzazione meno rigorosamente “chiusa”; si deve anche insistere su questo, che non solamente tale segreto non può in alcun modo essere confuso con il vero segreto iniziatico, salvo che da coloro che non hanno la minima idea della natura di quest’ultimo, ma che non ha neppure nulla d’essenziale, cosicché la sua presenza o assenza non possono essere invocate per definire un’organizzazione in quanto in possesso di un carattere iniziatico o come priva di esso. In realtà, la stessa cosa, o qualcosa d’equivalente, esiste anche nella maggior parte delle altre organizzazioni segrete qua­lunque, senza nulla d’iniziatico, benché le ragioni ne siano allora differenti: può trattarsi, sia d’imitare le organizzazioni iniziatiche nelle loro apparenze più esteriori, com’è il caso per le organizzazioni da noi qualificate pseudo-iniziatiche, o addirittura per certi raggruppamenti fan­tasiosi che non meritano neppure tale nome, sia molto semplicemente di garantirsi quanto possi­bile contro le indiscrezioni, nel senso più comune della parola, come accade soprattutto per le associazioni di scopo politico, ciò che si capisce senza la minima difficoltà. D’altra parte, l’esistenza di un segreto di questo genere non ha, per le organizzazioni iniziatiche, niente di necessario; anzi ha in esse un’importanza tanto meno grande quanto più puro e più elevato è il loro carattere, poiché esse sono allora tanto più svincolate da tutte le forme esteriori e da tutto quanto non è veramente essenziale. Accade perciò questo, che può sembrare paradossale a prima vista, ma che è invece in fondo molto logico: l’impiego di “mezzi di riconoscimento” da parte di un’organizzazione è una conseguenza del suo carattere “chiuso”; ma, in quelle che sono precisamente le più “chiuse” di tutte, tali mezzi si riducono fino a scomparire talvolta intera­mente, poiché allora non ve n’è più bisogno, la loro utilità essendo direttamente legata a un certo grado d’“esteriorità” dell’organizzazione che vi ha ricorso, e raggiungendo in qualche modo il suo massimo quando quest’ultima rivesta un aspetto “semi-profano”, del quale la forma “societaria” è l’esempio più tipico, poiché è allora che le sue occasioni di contatto con il mondo esteriore sono le più estese e molteplici, e, di conseguenza, più le importa di distinguersi da questo con dei mezzi che siano anch’essi d’ordine esteriore.
L’esistenza di un tale segreto esteriore e secondario nelle organizzazioni iniziatiche più diffuse si giustifica peraltro ancora con altre ragioni: certuni gli attribuiscono soprattutto un ruolo “pedagogico”, se così è permesso esprimersi; in altri termini, la “disciplina del segreto” costituirebbe una sorta d’“allenamento” o d’esercizio che rientra nei metodi propri a queste organizzazioni; e, a questo proposito, in essa si potrebbe vedere in qualche modo come una forma attenuata e ridotta della “disciplina del silenzio” che era in uso in certe scuole esoteriche antiche, segnatamente presso i Pitagorici[3]. Questo punto di vista è sicuramente giusto, a condi­zione di non essere esclusivo; e va notato che, sotto questo rapporto, il valore del segreto è completamente indipendente da quello delle cose sulle quali verte; il segreto mantenuto sulle cose più insignificanti avrà, in quanto “disciplina”, esattamente la stessa efficacia di un segreto realmente importante di per se stesso. Questa dovrebbe essere una risposta sufficiente ai profani che, a tal proposito, accusano le organizzazioni iniziatiche di “puerilità”, non comprendendo peraltro che le parole o i segni sui quali il segreto è imposto hanno un proprio valore simbolico; se essi sono incapaci d’arrivare fino a considerazioni di quest’ultimo ordine, quella che abbiamo appena indicata è almeno alla loro portata e non richiede certo un grandissimo sforzo di comprensione.
Ma, vi è, in realtà, una ragione più profonda, basata precisamente su quel carattere simbolico che abbiamo appena menzionato, e che fa sì che quelli che si chiamano “mezzi di riconosci­mento” non siano solamente questo ma anche, allo stesso tempo, qualcosa di più: si tratta veramente di simboli come tutti gli altri, il cui significato dev’essere meditato e approfondito allo stesso titolo, e che fanno così parte integrante dell’insegnamento iniziatico. È così d’altron­de per tutte le forme impiegate dalle organizzazioni iniziatiche, e, più generalmente ancora, da tutte quelle che hanno un carattere tradizionale (ivi comprese le forme religiose): esse sono sempre, in fondo, altra cosa che quel che paiono dal di fuori, anzi è questo che le distingue essenzialmente dalle forme profane, in cui l’apparenza esteriore è tutto e non ricopre alcuna realtà d’altro ordine. Da questo punto di vista, il segreto di cui si tratta è esso stesso un simbolo, quello del vero segreto iniziatico, il che è evidentemente ben più di un semplice mezzo “pedagogico”[4]; ma, beninteso, qui come altrove, il simbolo non dev’essere in alcun modo confuso con ciò che è simboleggiato, ed è questa la confusione che commette l’ignoranza profana, poiché essa non sa vedere quel che v’è dietro l’apparenza, e non concepisce neppure che possa esservi qualcosa d’altro da quel che cade sotto i sensi, il che equivale praticamente alla negazione pura e semplice di ogni simbolismo.
Infine, indicheremo un’ultima considerazione che potrebbe dar luogo ad altri sviluppi anco­ra: il segreto d’ordine esteriore, nelle organizzazioni iniziatiche in cui esiste, fa propriamente parte del rituale, poiché quel che ne è l’oggetto è comunicato, sotto l’obbligo corrispondente del silenzio, nel corso stesso dell’iniziazione a ciascun grado o come conclusione di quest’ultima. Tale segreto costituisce perciò, non solamente un simbolo come abbiamo appena detto, ma anche un vero e proprio rito, con tutta la virtù propria che è inerente a questo come tale; e del resto, in verità, il rito e il simbolo sono, in tutti i casi, strettamente legati dalla loro stessa natura, come dovremo spiegare più diffusamente nel seguito.


* R. Guénon, Aperçus sur l’Initiation, Édition Traditionnelles, Paris, 1946, cap. XIII: Du secret initiatique.

[1] Vedere anche Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, cap. XII.
[2] Ciò che diciamo qui si applica al mondo profano ridotto a se stesso, se così ci si può esprimere; ma è opportuno aggiungere che in certi casi esso può anche servire come strumento incosciente per un’azione esercitata dai rappresentanti della “contro-iniziazione”.
[3] Disciplina secreti o disciplina arcani, si diceva anche nella Chiesa cristiana dei primi secoli, ciò che sembrano dimenticare certi nemici del “segreto”; ma occorre notare che, in latino, la parola disciplina ha il più delle volte il senso d’“insegnamento”, che è peraltro il senso etimologico, e anche, per derivazione, quello di “scienza” o di “dottrina”, mentre quel che in francese è chiamato “disciplina” non ha che un valore di mezzo preparatorio in vista di un fine che può essere di conoscenza come è qui il caso, ma che può anche essere di tutt’altro ordine, ad esempio semplicemente “morale”; è proprio in quest’ultimo modo che, di fatto, lo si intende più comunemente nel mondo profano.
[4] Si potrebbe, se si volesse entrare un poco nel dettaglio a tale proposito, notare ad esempio che le “parole sacre” che non devono mai essere pronunciate sono un simbolo particolarmente netto dell’“inef­fabile” o dell’“inesprimibile”; si sa d’altronde che qualcosa di simile si trova talvolta perfino nell’exote­rismo, ad esempio per il Tetragramma nella tradizione ebraica. Si potrebbe anche mostrare, nello stesso ordine d’idee, che certi segni sono in rapporto con la “localizzazione”, nell’essere umano, dei “centri” sottili il cui “risveglio” costituisce, secondo certi metodi (segnatamente i metodi “tantrici” nella tradizione indù), uno dei mezzi d’acquisizione della conoscenza iniziatica effettiva.

sabato 21 maggio 2016

La malattia dell’angoscia

In collaborazione con la rivista Lettera E Spirito: https://drive.google.com/file/d/0BwS7BAey84TnLU1hbGpEcmQ4b2s/view?pref=2&pli=1

di René Guénon *

Oggigiorno è di moda, in certi ambienti, parlare di “inquietudine metafisica”, e perfino di “angoscia metafisica”; queste espressioni, evidentemente assurde, sono ancora di quelle che tradiscono il disordine mentale della nostra epoca; ma, come sempre in casi simili, può essere interessante cercar di precisare che cosa vi sia sotto questi errori e che cosa implichino esattamente tali abusi di linguaggio. È ben chiaro che coloro che parlano in questo modo non hanno la benché minima nozione di che sia veramente la metafisica; ma ancora ci si può chiedere perché essi vogliano trasferire, nel concetto che si fanno di questo dominio loro sconosciuto, questi termini, d’inquietudine e d’angoscia, piuttosto che altri qualsiasi che vi sarebbero altrettanto fuori posto.
Forse occorre vederne la prima ragione, o la più immediata, nel fatto che tali parole rappresentano dei sentimenti che sono particolarmente caratteristici dell’epoca attuale; la predominanza che vi hanno acquisito è d’altronde abbastanza comprensibile, e potrebbe perfino esser considerata come legittima in un certo senso se si limitasse all’ordine delle contingenze, giacché essa è manifestamente fin troppo giustificata dallo stato di squilibrio e d’instabilità di tutte le cose, che va continuamente aggravandosi, e che non è sicuramente atto a dare un’impressione di sicurezza a coloro che vivono in un mondo così agitato. Se vi è in questi sentimenti qualcosa di morboso, gli è che lo stato da cui essi sono causati e mantenuti è anormale e disordinato di per sé; ma tutto ciò, che non è insomma che una semplice giustificazione di fatto, non rende sufficientemente conto dell’intrusione di questi stessi sentimenti nella sfera intellettuale, o almeno in quella che i nostri contemporanei ritengono tale; quest’intrusione dimostra che in realtà il male è più profondo, e che deve trattarsi di qualcosa che si riallaccia a tutto il complesso della deviazione mentale del mondo moderno.
A questo proposito, si può innanzitutto notare che la perpetua inquietudine dei moderni non è altro che una delle forme di quel bisogno d’agitazione da noi spesso denunciato, bisogno che, nella sfera mentale, si traduce nel gusto per la ricerca in se stessa, ossia per una ricerca che, invece di trovare il suo sbocco nella conoscenza come normalmente dovrebbe essere, prosegue indefinitamente senza condurre davvero a niente, e che è peraltro intrapresa senza alcuna intenzione di giungere a una verità cui tanti nostri contemporanei non credono nemmeno. Riconosciamo che una certa inquietudine può avere un posto legittimo al punto di partenza di ogni ricerca, come movente incitante a questa stessa ricerca, giacché è evidente che, se l’uomo fosse soddisfatto della sua condizione d’ignoranza, vi resterebbe indefinitamente e non cercherebbe in nessun modo di uscirne; addirittura sarebbe meglio dare un altro nome a questo genere d’inquietudine mentale: in realtà, essa non è altro che quella “curiosità” che, secondo Aristotele, è l’inizio della scienza e che, beninteso, non ha niente in comune con i bisogni puramente pratici cui gli “empiristi” e i “pragmatisti” vorrebbero attribuire l’origine di ogni conoscenza umana; ma in ogni caso, la si chiami inquietudine o curiosità, è qualcosa che non può più avere alcuna ragion d’essere né di sussistere in alcun modo una volta giunta al termine la ricerca, vale a dire una volta raggiunta la conoscenza, di qualsiasi ordine di conoscenza d’altronde si tratti; a maggior ragione essa deve necessariamente sparire, in modo completo e definitivo, quando si tratti della
conoscenza per eccellenza, che è quella del dominio metafisico. Nell’idea di un’inquietudine senza fine, e di conseguenza inservibile a trarre l’uomo dalla sua ignoranza, si potrebbe dunque vedere il marchio di una sorta di “agnosticismo”, che può essere più o meno incosciente in molti casi, ma che non per questo è meno reale: parlare di “inquietudine metafisica” equivale in fondo, lo si voglia o no, sia a negare la stessa conoscenza metafisica, sia perlomeno a dichiarare la propria impotenza a ottenerla, il che praticamente non fa grande differenza; e, quando questo “agnosticismo” è veramente incosciente, s’accompagna abitualmente a un’illusione che consiste nel prendere per metafisica ciò che non lo è affatto, e che non è neppure una conoscenza valevole ad alcun livello, foss’anche in un ordine relativo, vogliamo dire la “pseudo-metafisica” dei filosofi moderni, che è effettivamente incapace di dissipare la benché minima inquietudine, per la ragione che non è una vera conoscenza, e che, proprio al contrario, non può che accrescere il disordine intellettuale e la confusione delle idee di coloro che la prendono sul serio, e rendere la loro ignoranza tanto più incurabile; in questo come da qualsiasi altro punto di vista, la falsa conoscenza è certamente assai peggiore della pura e semplice ignoranza naturale. Certuni, come abbiamo detto, non si limitano a parlare di “inquietudine”, ma arrivano perfino a parlare di “angoscia”, il che è ancor più grave, ed esprime un’attitudine forse ancor più
nettamente antimetafisica se fosse possibile; i due sentimenti sono d’altronde più o meno connessi, in quanto entrambi hanno la loro comune radice nell’ignoranza. L’angoscia, in effetti, non è che una forma estrema e per così dire “cronica” della paura; ora l’uomo è naturalmente portato a provar paura di fronte a ciò che non conosce o non comprende, e questa stessa paura diviene un ostacolo che gli impedisce di vincere la sua ignoranza, giacché lo induce ad allontanarsi dall’oggetto alla cui presenza la prova e al quale ne attribuisce la causa, mentre in realtà questa causa non è tuttavia che in lui stesso; addirittura questa reazione negativa è spessissimo seguita da un vero e proprio odio nei confronti dell’ignoto, soprattutto se l’uomo ha più o meno confusamente l’impressione che si tratti di qualcosa che supera le sue attuali possibilità di comprensione.
Se però l’ignoranza può essere dissipata, perciostesso la paura ben presto si dissolverà, come nel ben conosciuto esempio della corda scambiata per un serpente; la paura, e di conseguenza l’angoscia che ne è un caso particolare, è perciò incompatibile con la conoscenza e, se arriva al punto d’essere davvero invincibile, la conoscenza diverrà impossibile, anche in assenza di qualsiasi altro impedimento inerente alla natura dell’individuo; in questo senso si potrebbe dunque parlare, non di una “angoscia metafisica”, ma al contrario di una “angoscia antimetafisica”, giuocante in certo qual modo il ruolo di un vero e proprio “guardiano della soglia”, secondo l’espressione degli ermetici, vietando all’uomo l’accesso al dominio della conoscenza metafisica.
Occorre ancora spiegare più completamente come la paura derivi dall’ignoranza, tanto più che a questo proposito abbiamo recentemente avuto modo di constatare un errore abbastanza sorprendente: abbiamo visto attribuire l’origine della paura a una sensazione d’isolamento, e questo in un’esposizione basata sulla dottrina vêdântica, mentre questa al contrario insegna espressamente che la paura è dovuta alla sensazione di una dualità; e infatti, se un essere fosse veramente solo, di che potrebbe aver paura? Si dirà forse che può aver paura di qualcosa che si trova in lui stesso; ma anche questo implica che, nella sua attuale condizione, vi siano in lui degli elementi che sfuggono alla sua comprensione, e di conseguenza una molteplicità non unificata; il fatto che sia isolato o meno non cambia d’altronde niente e non interviene in nessun modo in un caso simile. D’altra parte, non si può invocare validamente, a favore dell’isolamento come spiegazione, la paura istintiva avvertita nell’oscurità da molte persone, segnatamente dai bambini; questa paura è dovuta in realtà all’idea che nell’oscurità possano esservi delle cose che non si vedono, quindi che non si conoscono, e che per questa stessa ragione sono temibili; se al contrario l’oscurità fosse considerata come priva di qualsiasi presenza sconosciuta, la paura sarebbe senza oggetto e non si produrrebbe. È vero che l’essere che prova paura cerca d’isolarsi, ma appunto per sottrarvisi: egli assume un atteggiamento negativo e si “ritrae” come per evitare ogni possibile contatto con ciò che teme, e da ciò provengono senza dubbio la sensazione di freddo e gli altri sintomi fisiologici che accompagnano abitualmente la paura; ma questa specie di difesa irriflessiva è d’altronde inefficace, giacché è ben evidente che, qualunque cosa un essere faccia, non può isolarsi realmente dall’ambiente nel quale è posto dalle sue stesse condizioni d’esistenza contingente, e che, finché si considera come circondato da un “mondo esteriore”, gli è impossibile mettersi interamente al riparo dagli attacchi di quest’ultimo. La paura non può essere causata che dall’esistenza di altri esseri, che, in quanto sono altri, costituiscono tale “mondo esteriore”, oppure di elementi che, sebbene incorporati allo stesso essere, non sono meno estranei ed “esteriori” alla sua coscienza attuale; ma l’“altro”, come tale non esiste che per effetto dell’ignoranza, poiché ogni conoscenza implica essenzialmente un’identificazione; si può dunque dire che più un essere conosce, meno vi è per lui d’“altro” o d’“esteriore”, e che, nella stessa misura, la possibilità della paura, possibilità d’altronde tutta negativa, è per lui abolita; e, finalmente, lo stato di “solitudine” assoluta (kaivalyia), che è al di là di ogni contingenza, è uno stato di pura impassibilità. Notiamo incidentalmente, a questo proposito, che l’“atarassia” stoica non rappresenta che una concezione deformata di uno stato del genere, giacché pretende d’applicarsi a un essere che in realtà è ancora sottomesso alle contingenze, il che è contraddittorio; sforzarsi di considerare le cose esteriori come indifferenti, per quanto sia possibile nella condizione individuale, può costituire una sorta d’esercizio preparatorio in vista della “liberazione”, ma niente di più, giacché, per l’essere che è veramente “liberato”, non vi sono cose esteriori; un esercizio del genere potrebbe insomma essere considerato come un equivalente di quel che, nelle “prove” iniziatiche, esprime in una forma o nell’altra la necessità di superare innanzitutto la paura per giungere alla conoscenza, che in seguito renderà tale paura impossibile, poiché non vi sarà allora più nulla che possa aver presa sull’essere; ed è evidente come occorra assolutamente evitare di confondere i preliminari dell’iniziazione con il suo risultato finale.
Un’altra osservazione che, benché secondaria, non è priva d’interesse, è che la sensazione di freddo e i sintomi esteriori cui abbiamo fatto cenno poco fa si producono anche, senza che l’essere che li prova abbia coscientemente paura in senso proprio, nel caso in cui si manifestino influenze psichiche dell’ordine più basso, come per esempio nelle sedute spiritiche e nei fenomeni di “ossessione”; addirittura in questi casi, si tratta della stessa difesa sub-cosciente e quasi “organica”, al cospetto di qualcosa d’ostile e nello stesso tempo d’ignoto, almeno per l’uomo ordinario che non conosce effettivamente se non ciò che è suscettibile di cadere sotto i sensi, vale a dire le sole cose del dominio corporeo. I “timori panici”, che si producono senza alcuna causa apparente, sono anch’essi dovuti alla presenza di certe influenze non appartenenti all’ordine sensibile; essi sono peraltro spesso collettivi, il che va ancora contro la spiegazione della paura con l’isolamento; e non si tratta necessariamente, in questo caso, di influenze ostili o d’ordine inferiore, giacché può anche succedere che un’influenza spirituale, e non solamente un’influenza psichica, provochi un terrore di questo tipo presso dei “profani” che l’avvertono vagamente senza nulla conoscerne della sua natura; l’esame di questi fatti, che insomma non hanno niente d’anormale checché ne possa pensare l’opinione corrente, non fa che confermare ancora che la paura è realmente proprio causata dall’ignoranza, e per questa ragione abbiamo ritenuto opportuno segnalarli di sfuggita.
Per ritornare al punto essenziale, possiamo dire ora che coloro che parlano di “angoscia metafisica” dimostrano con ciò, innanzitutto, la loro totale ignoranza della metafisica; inoltre, la loro stessa attitudine rende invincibile quest’ignoranza, tanto più che l’angoscia non è una semplice passeggera sensazione di paura, ma una paura divenuta in qualche modo permanente, insediata nello “psichismo” stesso dell’essere, e per questo può esser considerata come una vera e propria “malattia”; finché non la si supera, costituisce propriamente, alla stessa stregua di altri gravi difetti d’ordine psichico, una “squalificazione” nei confronti della conoscenza metafisica.
D’altra parte, la conoscenza è il solo rimedio definitivo contro l’angoscia, come pure contro la paura sotto tutti le sue forme e contro la semplice inquietudine, poiché queste sensazioni non sono che delle conseguenze o dei prodotti dell’ignoranza, e pertanto la conoscenza, una volta raggiunta, le distrugge interamente nella loro stessa radice e le rende d’ora innanzi impossibili, mentre, senza di essa, anche se sono allontanate momentaneamente, possono sempre riapparire a seconda delle circostanze. Se si tratta della conoscenza per eccellenza, quest’effetto si ripercuoterà necessariamente in tutti i domini inferiori, e così queste stesse sensazioni svaniranno anche nei confronti delle cose più contingenti; infatti, come potrebbero colpire colui che, vedendo tutte le cose nel principio, sa che, quali che siano le apparenze, esse non sono in definitiva che degli elementi dell’ordine totale? Così accade per tutti i mali di cui soffre il mondo moderno: il vero rimedio non può venire che dall’alto, ossia da una restaurazione della pura intellettualità; fintantoché si cercherà di porvi rimedio dal basso, ossia accontentandosi d’opporre delle contingenze ad altre contingenze, tutto quel che si pretenderà di fare sarà vano e inefficace; ma chi potrà capirlo mentre è ancora in tempo?

* R. Guénon, Initiation et Réalisation spirituelle, Éditions Traditionnelles, Paris, 1952, cap. III: La maladie
de l’angoisse.

domenica 27 marzo 2016

Alcune considerazioni sulla fretta

 In collaborazione con la rivista Lettera E Spirito:

https://drive.google.com/file/d/0BwS7BAey84TnM2M1Nk8tcWxQQTQ/view

di Bruno Montolio

Alcune considerazioni sulla fretta
Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
che l’onestade ad ogn’atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta,
lo ’ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi ’l viso mio incontr’al poggio
che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga.

Dante, Divina Commedia, Purgatorio, III, 10-15

Dio ha fatto il tempo, ma l’uomo ha fatto la fretta
Chi fa in fretta fa due volte
Ciò che in fretta si fa, presto si rovina
Minore il tempo, maggiore la fretta
Guardati dai consigli frettolosi, perché la fretta è una cattiva consigliera
Si morde la lingua chi parla in fretta
Cosa non pensata, non vuol fretta

Proverbi popolari

La calma viene da Allah e la fretta da Satana
Hadîth trasmesso da Abdullah-Muhaimin bin ’Abbas bin Sahl bin Sa’d As-Saidi

La parola “fretta” deriva dal latino frictare, “fregare”. Giacché si ha frizione solamente tra elementi mobili discordanti, si può desumere come la radice della fretta sia la mancanza d’unitarietà dell’essere. Sinonimo di fretta è il termine “premura” (cfr. il francese être pressé), dal quale emerge come la fretta affligga coloro che sono schiacciati e oppressi dal tempo. «Talvolta si dice, forse senza comprenderne la vera ragione, che oggi gli uomini vivono più in fretta di una volta, e ciò è letteralmente vero; la fretta caratteristica che i moderni mettono in tutte le cose non è d’altronde, in fondo, che la conseguenza dell’impressione che ne provano confusamente»(1). «La fretta febbrile che i nostri contemporanei apportano a tutto ciò che fanno […] non può che produrre agitazione e disordine»(2). L’umanità è preda di tale malattia cosmica che la colpisce in modo generalizzato, e non casuale, bensì provocata da forze ostili rappresentate da Satana, l’Avversario, per loro natura portate a distogliere l’attenzione degli esseri dal proprio “centro”. Il detto “La calma viene da Allah e la fretta da Satana”(3) e i numerosi proverbi popolari sulla fretta contengono un avvertimento chiaro per chi voglia cercare di vincere questo grave vizio insito nella natura umana e che in questa fase di discesa ciclica impregna inevitabilmente tutti gli esseri dalla loro radice.
La fretta induce chi ne è afflitto a una sempre maggiore superficialità e approssimazione, portandolo a perdere gli aspetti qualitativi e profondi della realtà. Non bisogna tuttavia confondere la “calma” con la passività di chi non utilizza in modo corretto il proprio tempo4, che non domina ma dal quale è dominato(5).
«Il tempo è una spada, se non lo si taglia con la Verità (al-haqq), esso taglia con il falso (albâtil)! Tutti gli istanti sono stati impegnati per la loro ragione d’essere. Giacché gli istanti sono tre: “Il passato, ed è quello che hai vissuto; il presente, ed è quello che tu occupi con ciò che ti reclama; e l’avvenire: esso ti è nascosto, quindi non occupartene!”. Colui che s’assorbe nel passato e nell’avvenire perde il tempo del quale gli sarà chiesto conto, il presente, che non si rimpiazza(6). Se vuoi compiere più tardi ciò che per te è allora spirato, il momento che avrai scelto per adempierlo ti apostroferà dicendoti: “Io, non sono stato creato per niente. Cerca un altro momento libero. Se lo trovi, compi ciò che devi! Ma non lo troverai”. Perciò si dice: “Il tempo, è quello che tu vivi nel presente. Non è né passato né avvenire”»(7).
La fretta non permette d’attualizzare la vocazione dell’essere, giacché indebolisce il retto comportamento in ogni atto (“la fretta, | che l’onestade ad ogn’atto dismaga”)(8), sia esso esteriore o interiore, e ottenebra l’intelletto: solamente rinunciandovi e vincendola, la percezione del proprio orizzonte intellettuale può allargarsi e raggiungere i limiti massimi concessi dalla propria natura. Fretta e concentrazione sono dunque inconciliabili(9), la prima è dovuta alla dispersione, mentre la seconda induce l’azione precisa e sollecita(10), ossia la solerzia. Da ciò emerge come fretta e sollecitudine non siano affatto sinonimi(11): la prima tende verso l’esteriore, rende schiavi dell’illusione del “fare” e provoca soltanto agitazione e disordine, la seconda, orientata verso l’interiore, può generare concentrazione, base indispensabile per l’accesso a ogni conoscenza; la prima caratterizza l’individuo preso nell’impossibile compito d’esaurire le possibilità insite nell’ipotenusa del triangolo pitagorico(12), la seconda è propria dell’essere che tende al centro sul cateto(13).
Come l’idea precede necessariamente l’atto, la predisposizione dell’essere, ossia il suo corretto orientamento, è indispensabile affinché l’azione sia proficua14; solo così, nel suo agire, esso potrà tendere con la concentrazione al proprio centro. L’illusione che le cose possano essere fatte più velocemente senza mettersi prima nella condizione ideale per compierle porta alla fretta, che spinge l’essere ad agire senza riflettere su ciò che fa, mettendolo così in balia di chi ha gli strumenti per manipolarlo (e questo può farci intuire uno dei motivi per cui questa malattia cosmica è oggigiorno così diffusa).
In sintesi si può dire che la fretta è generata e alimentata da diversi vizi, cui ci si può opporre adeguatamente: alla quantità va opposta la qualità, alla velocità la calma, alla dispersione e agli attaccamenti all’ambiente la concentrazione e il ricordo del divino, all’angoscia la tranquillità, all’agitazione e alla mancanza di controllo la pazienza e la disciplina, al perdersi nel passato o in fantasmagoriche previsioni sul futuro la presenza ai propri atti, al disordine l’ordine che si fonda sul metodo e che permette di fare le cose al momento giusto; in quest’ottica sarebbe opportuno gerarchizzare le proprie attività in modo da concedere il legittimo spazio alle più importanti, eliminare quelle superflue(15) e ridurre quelle alle quali si concede colpevolmente troppo spazio(16).
La tensione dell’essere verso il proprio centro comincia dall’occuparsi solo di ciò che lo riguarda sfrondando il resto(17).
Questo lavoro di sgrossatura della pietra che porta a contrastare la fretta dovrebbe essere condotto senza cadere nello schematismo, ma cercando di essere ricettivi alle qualità del momento che si sta vivendo(18). Così come v’è un’orientazione spaziale che dirige verso il centro, ve n’è una temporale che coincide con una tensione verso l’eterno di cui la coscienza del presente è un riflesso. Per liberarsi dai nefasti influssi della fretta è necessaria una continua discriminazione, un lavoro “contro corrente” che deve costantemente essere rinnovato e che richiede attenzione e dedizione, vigilanza e perseveranza; tuttavia non ci sono alternative, è indispensabile farlo se si vuole uscire dalla follia organizzata che ci circonda e dirigersi verso la stabilità dell’Eterno(19).

1) R. Guénon, Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, Éditions Gallimard, Paris, 1945, cap. XXIII: Le temps changé en espace. Per comodità del lettore, riproduciamo per esteso il paragrafo che contiene il passo citato: «Il tempo consuma in un certo qual modo lo spazio, per un effetto della potenza di contrazione che rappresenta e che tende a ridurre sempre più l’espansione spaziale alla quale s’oppone; ma, in quest’azione contro il principio antagonista, il tempo stesso si svolge con una velocità sempre crescente, giacché, lungi dall’essere omogeneo come suppongono coloro che non lo considerano che dal solo punto di vista quantitativo, è al contrario “qualificato” in maniera differente a ogni istante dalle condizioni cicliche della manifestazione alla quale appartiene. Quest’accelerazione diviene più apparente che mai alla nostra epoca, poiché essa assume proporzioni esagerate negli ultimi periodi del ciclo, ma, in realtà, essa esiste costantemente dall’inizio alla fine di questo; si potrebbe dunque dire che il tempo non contrae solamente lo spazio, ma che contrae anche progressivamente se stesso; questa contrazione s’esprime con la proporzione decrescente dei quattro Yuga, con tutto ciò che implica, compresa la diminuzione corrispondente della durata della vita umana. cit. Al suo grado estremo, la contrazione del tempo arriverà a ridurlo finalmente a un unico istante, e allora la durata avrà veramente cessato d’esistere, giacché è evidente che, nell’istante, non può più esservi alcuna successione. È così che “il tempo divoratore finisce col divorare se stesso”, in modo che, alla “fine del mondo”, vale a dire al limite stesso della manifestazione ciclica, “non v’è più tempo”».
2) R. Guénon, Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, ibid., Avant-propos. «L’incremento della velocità degli avvenimenti, con l’avvicinarsi della fine del ciclo, può essere paragonato all’accelerazione che esiste nel movimento di caduta dei corpi pesanti; il cammino dell’attuale umanità assomiglia proprio a quella d’un mobile lanciato su una discesa tanto più velocemente quanto più s’avvicina al basso» (ibid., cap. V: Les déterminations qualitatives du temps).
3) Hadîth trasmesso da Abdullah-Muhaimin bin ’Abbas bin Sahl bin Sa’d As-Saidi che lo ha ricevuto da suo padre a cui è stato trasmesso da suo nonno (cfr. English traslation of Jâmi‘ At-Tirmidhî, Vol. 4, Chapters on Righteousness and Maintaining Good Relations with Relatives, Darussalam, Riyadh, 2007).
4) “La Regola v’insegni il corretto utilizzo del Tempo” ammonisce un rituale massonico.
5) Attitudine passiva che ricorda quella degli ignavi, incapaci di prendere partito e d’agire; Dante li presenta nel III canto dell’Inferno costretti in eterno a rincorrere un’insegna che gira in tondo senza senso:
E io, che riguardai, vidi una 'nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d'ogne posa mi parea indegna;

Non avendo fatto uso in vita del loro libero arbitrio, è come se questi dannati non fossero mai vissuti e
sono ora continuamente pungolati da mosconi e vespe:
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch'eran ivi
.
6) Chiaro l’invito a cogliere l’attimo fuggente nel quale gli aspetti qualitativi si manifestano. Per questo, e per non essere inesorabilmente sopraffatti e schiacciati dal tempo come detto nell’incipit di questo passo, è necessaria un’attitudine attiva e vigile (Shaikh ‘Ali al-Jamal scrive: «L’intuizione è molto sottile e fuggitiva; se l’uomo non sta in guardia, scapperà dalle sue mani senza che se ne accorga», cfr. Lettres d’un maître soufi: le Sheikh al-‘Arabî ad-Darqâwî, Lettera 22, Archè, Milano, 1978).
7) Shaikh Tadili, La vie traditionelle c’est la sincérité. Anche nella Bibbia viene evidenziato come ogni momento abbia una sua qualità propria: «Per tutto c’è un momento e un tempo per ogni azione sotto il sole. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sbarbare il piantato. C’è un tempo per uccidere e un tempo per curare, un tempo per demolire e un tempo per costrui re. C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare. C’è un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per separarsi. C’è un tempo per guadagnare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttare via. C’è un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. C’è un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace» (Ecclesiaste, 3, 1-8).
8) La vocazione è un richiamo del proprio principio interiore e la fretta, quale tendenza alla dispersione, è una sorta di rumore che ne distoglie l’ascolto; si ha fretta perché chiamati contemporaneamente da più parti, così il “lasciar la fretta” di Dante ben corrisponde alla tensione verso il silenzio interiore. Ecco cosa scriveva al proposito Albano Martín de la Scala nella nota 17 dell’articolo La Vocazione apparso nel no 34 di questa rivista: «In particolare, oggi più che nel passato, viviamo in un mondo pieno di rumori, frastuoni e richiami che si sovrappongono e a volte si mischiano in modo inestricabile e questo è vero per la condizione fisica, ma ancora di più per quella psichica. Il tendere verso il silenzio interiore è quindi un passo indispensabile per poter udire in modo sempre più chiaro la propria chiamata. Non a caso la disciplina del silenzio, anche esteriore, trova ampio spazio nelle più diverse forme tradizionali. Basti pensare al silenzio dell’apprendista in Massoneria o a quello praticato in diversi ordini monastici».
9) La fretta è strettamente legata alla forza centrifuga. La velocità di un corpo legato a una corda e fatto roteare è tanto maggiore quanto più lunga è la corda. Analogamente si comportano l’umanità e i singoli individui, che sono tanto più soggetti alla velocità quanto maggiore è la loro distanza dal centro. La corda
immaginaria di cui parliamo corrisponde al simbolico cateto di base del triangolo pitagorico che inizia ad allungarsi e ad allontanarsi dal cateto verticale, simbolo della Provvidenza, nel momento in cui l’essere, con un’affermazione della propria volontà individuale, gira le spalle al centro e si orienta verso l’esteriore.
10) “Sollecito” deriva dal latino sollìcitus composto da sòllus, tutto, intiero, e cìtus, pronto, p.p. di cìo, muovo. “Solerte”, da sòllus e ars, arte, per conseguenza “esperto”, dotato di attitudine.
11) E questo dovrebbe essere sufficiente a far comprendere come la lotta alla fretta non possa essere presa a scusa per giustificare quella che in realtà non è altro che pigrizia.
12) Ipotenusa che, da un altro punto di vista, può essere messa in relazione con la discesa ciclica e la sua continua accelerazione.
13) Per più ampi approfondimenti sull’argomento del triangolo pitagorico vedasi i ni 36 e 37 di questa rivista. Albano Martín de la Scala, nell’articolo Provvidenza, Volontà, Destino, scriveva: «La mentalità moderna, ignorando l’esistenza di un Ordine risultante dall’espressione nella manifestazione di un Principio Universale di carattere sovrumano, impegna la Volontà umana in un processo d’affermazione dell’individualità, unica realtà esistente secondo la sua percezione, alimentando l’ego in un processo propriamente indefinito. Ora, questa forza di Volontà può applicarsi ugualmente in senso contrario, quantunque per questo sia necessario riconoscere l’azione della Provvidenza».
14) La copertura del tempio, che precede l’inizio dei lavori massonici, è un rito che evidenzia come tradizionalmente sia necessario creare le condizioni ideali prima di compiere qualunque atto.
15) Generalmente il lavoro, il riposo e la ricreazione, le occupazioni familiari e l’attività rituale dovrebbero riempire la vita degli iniziati.
16) A questo proposito può essere interessante fare una riflessione su quale sia lo spazio che legittimamente può essere concesso al divertimento o alla ricreazione. Il verbo “divertire” deriva dal latino divèrtere, p.p. di divèrsus, composto dalla particella di(s), che indica allontanamento, e vèrtere, volgere. Il significato è quindi quello di volgere altrove, distogliere, distrarre, deviare. Un simile comportamento, essendo contrario e inconciliabile con la concentrazione e la rettitudine, non può che essere considerato illegittimo dal punto di vista tradizionale. Ben diversa la radice etimologica, e quindi il senso profondo, del verbo “ricreare”, dal latino recreàre, composto dall’iterativo re e creàre, creare, vivificare. Appare quindi evidente come la ricreazione, non solo sia legittima, ma rivesta pure un’importantissima funzione che si integra armoniosamente nell’attività tradizionale, permettendo a chi ne usufruisce di ritemprarsi in vista degli impegni che lo attendono; non a caso in Massoneria i lavori riprendono “Forza e Vigore” dopo la ricreazione. Quest’esempio è emblematico delle difficoltà che si possono incontrare nel giudicare dall’esterno certe situazioni e mostra come comportamenti apparentemente simili possano nascere da motivazioni differenti ed essere quindi intrinsecamente molto diversi tra loro. Come quasi sempre accade è l’intenzione o in altri termini l’orientazione a fare tutta la differenza.
17) Il Martello e lo Scalpello sono gli strumenti simbolici con cui l’Apprendista è chiamato a lavorare sulla Pietra Grezza per sgrossarla, con una continua e paziente opera di sottrazione.
18) Nel dominio dell’azione, la “puntualità” è il fare le cose nel punto temporale esatto in cui devono essere compiute (in Massoneria i lavori cominciano simbolicamente a mezzogiorno e terminano a mezzanotte “in punto”). La puntualità permette di fare le cose appuntino, con precisione e solerzia, senza dover rincorrere affannosamente il tempo perduto o attendere. Ricordiamo che il termine “punto” deriva dal latino punctum da pungere, penetrare; se ne può quindi forse dedurre che per essere penetranti e non restare alla superficie delle cose è necessario essere puntuali.
19) Il “luogo” sede di questa stabilità è il Centro del mondo («V’è ancora un’osservazione da fare sulla rappresentazione del centro spirituale come un’isola, che peraltro racchiude la “montagna sacra” […]. L’idea che evoca la rappresentazione di cui si tratta è essenzialmente quella di “stabilità”, che abbiamo precisamente indicato come caratteristica del Polo: l’isola rimane immutabile in mezzo all’agitazione incessante dei flutti, agitazione che è un’immagine di quella del mondo esterno; e bisogna aver attraversato il “mare delle passioni” per giungere alla “Montagna della Salvezza”, al “Santuario della Pace”», R. Guénon, Le Roi du Monde, Éditions Traditionnelles, Paris, 1950, cap. X, Noms et représentations symboliques des centres spirituels). «È in questo centro che “il tempo si cambia in spazio”, perché qui è, nel nostro stato d’esistenza, il riflesso diretto dell’eternità principiale, il che esclude ogni successione; così la morte non vi può colpire, ed è quindi propriamente il “soggiorno d’immortalità”; tutte le cose vi appaiono in perfetta simultaneità in un immutabile presente, grazie al potere del “terzo occhio”, col quale l’uomo ha riacquistato il “senso dell’eternità”». (R. Guénon, Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, ibid., cap. XXIII: Le temps changé en espace).

venerdì 28 agosto 2015

ESAME DEI VERSI D’ORO DI PITAGORA*

In collaborazione con la rivista Lettera E Spirito:

https://letteraespirito.wordpress.com/esame-dei-versi-doro-di-pitagora/

Antoine Fabre d’Olivet


(12) E quanto ai mali che comporta il Destino
Giudicali per quel che sono; sopportali; e cerca,
Per quanto lo potrai, di mitigarne i tratti.
Gli dei non hanno abbandonato i saggi ai più crudeli.

Ho detto che Pitagora ammetteva due agenti delle azioni umane, la potenza della Volontà e la necessità del Destino, e che li sottometteva l’uno e l’altro a una legge fondamentale chiamata la Provvidenza, dalla quale emanavano ugualmente. Il primo di questi agenti era libero, e il secondo costretto: di modo che l’uomo si trovava posto entro due nature opposte, ma non contrarie, indifferentemente buone o malvage, secondo l’uso che sapeva farne. La potenza della volontà s’esercitava sulle cose da fare o sull’avvenire; la necessità del destino, sulle cose fatte o sul passato: e l’una alimentava senza posa l’altra, lavorando sui materiale che si forniscono reciprocamente: giacché, secondo quest’ammirabile filosofo, è dal passato che nasce l’avvenire, dall’avvenire che si forma il passato, e dalla riunione dell’uno e dell’altro che si genera il presente sempre esistente, dal quale traggono ugualmente la loro origine: idea molto profonda, che gli stoici avevano adottata [1]. Così, secondo questa dottrina, la libertà regna nell’avvenire, la necessità nel passato, e la provvidenza sul presente. Niente di quel che esiste capita per caso, ma per l’unione della legge fondamentale e provvidenziale con la volontà umana che la segue o la trasgredisce, operando sulla necessità [2]. L’accordo della volontà e della provvidenza costituisce il Bene; il Male nasce dalla loro opposizione. L’uomo ha ricevuto, per condursi nel cammino che deve percorrere sulla terra, tre forze appropriate a ciascuna delle tre modificazioni del suo essere, e tutte tre concatenate alla sua volontà. La prima, legata al corpo, è l’istinto; la seconda, dedicata all’anima, è la virtù; la terza, appartenente all’intelligenza, è la scienza o la saggezza. Queste tre forze, indifferenti in se stesse, non prendono questo nome che per il buon uso che ne fa la volontà; giacché, nel cattivo uso, esse degenerano in abbruttimento, in vizio e in ignoranza. L’istinto percepisce il bene o il male fisico risultante dalla sensazione; la virtù conosce il bene e il male morali esistenti nel sentimento; la scienza giudica il bene o il male intelligibili che nascono dall’assentimento. Nella sensazione, il bene e il male si chiamano piacere o dolore; nel sentimento, amore o odio; nell’assentimento, verità o errore. La sensazione, il sentimento e l’assentimento, risiedendo nel corpo, nell’anima e nello spirito, formano un ternario che, sviluppandosi a favore di un’unità relativa, costituisce il quaternario umano, o l’Uomo considerato astrattamente. Le tre affezioni che compongono questo ternario agiscono e reagiscono le une sulle altre, e s’illuminano o s’oscurano mutualmente; e l’unità che le lega, vale a dire l’Uomo, si perfeziona o si deprava, a seconda che tenda a confondersi con l’Unità universale, o a distinguersene. Il mezzo che essa ha di confondervisi, di distinguersene, d’avvicinarvisi o di allontanarvisi, risiede tutta intera nella sua volontà, che, per l’uso che fa degli strumenti che le fornisce il corpo, l’anima e lo spirito, tende a divenire istintiva o s’abbruttisce, si rende virtuosa o viziosa, saggia o ignorante, e si mette nella condizione di percepire con maggior o minor energia, di conoscere e di giudicare con maggior o minor rettitudine quel che v’è di buono, di bello e di giusto nella sensazione, nel sentimento o nell’assentimento; di distinguere con maggior o minor forza e luminosità il bene e il male; e infine di non sbagliarsi affatto in quel che è realmente piacere o dolore, amore o odio, verità o errore.
Si coglie chiaramente che la dottrina metafisica che ho appena esposto brevemente, non si trova da nessuna parte così nettamente espressa, e così che non posso appoggiarla ad alcuna autorità diretta. Non è che partendo dai principi posti nei Versi d’Oro, e meditando lungamente su quel che è stato scritto di Pitagora, che se ne può concepire l’insieme. Essendo stati i discepoli di questo filosofo estremamente discreti, e sovente oscuri, non si può apprezzare bene le opinioni del loro maestro che chiarendole con quelle dei platonici e degli stoici, che le hanno adottate e diffuse senza tante riserve [3].
L’Uomo, quale vengo dal descrivere, secondo l’idea che Pitagora ne aveva concepito, posto sotto il dominio della Provvidenza, tra il passato e l’avvenire, dotato di una libera volontà per sua essenza, e volgendosi alla virtù o al vizio con proprio movimento, l’Uomo, dicevo, deve conoscere la fonte delle disgrazie che prova necessariamente; e lungi dall’accusarne questa stessa Provvidenza che dispensa i beni e i mali a ciascuno secondo il suo merito e le sue azioni anteriori, deve prendersela solo con se stesso se soffre, come conseguenza inevitabile dei suoi sbagli passati [4]. Giacché Pitagora ammetteva più esistenze successive [5], e sosteneva che il presente che ci colpisce, e l’avvenire che ci minaccia, non sono che l’espressione del passato che è stato opera nostra nei tempi anteriori. Diceva che la maggior parte degli uomini perdono, ritornando alla vita, il ricordo di queste esistenze passate; ma che, riferito a lui, doveva a un particolare favore degli Dei il conservarne la memoria [6]. Così, secondo la sua dottrina, questa Necessità fatale di cui l’uomo non cessa di lamentarsi, è lui stesso che l’ha creata con l’impiego della sua volontà; egli percorre, nella misura in cui avanza nel tempo, la ruota che lui stesso si è già tracciato; e, a seconda che la modifichi in bene o in male, che vi semini, per così dire, le sue virtù o i suoi vizi, la ritroverà più dolce o più faticosa, quando sarà venuto il tempo di ripercorrerla.
Ecco i dogmi a mezzo dei quali Pitagora stabiliva la necessità del Destino, senza nuocere alla potenza della Volontà, e lasciava alla Provvidenza il suo impero universale, senz’essere obbligato, o di attribuirle l’origine del male, come coloro che non ammettono che un principio delle cose, o di dare al Male un’esistenza assoluta, come coloro che ammettono due principi. In questo egli era d’accordo con la dottrina antica, seguita dagli oracoli degli Dei [7]. I pitagorici, del resto, non consideravano i dolori, vale a dire, tutto ciò che affligge il corpo nella sua vita mortale, come dei mali veri; non chiamavano veri mali che i peccati, i vizi, gli errori, nei quali si cade volontariamente. Secondo loro, i mali fisici e inevitabili essendo illustrati dalla presenza della virtù, potevano trasformarsi in beni, e divenire brillanti e degni di desiderio [8]. Sono questi ultimi mali, dipendenti dalla necessità, che Liside raccomandava di giudicare per quel che sono; vale a dire, di considerare come una conseguenza inevitabile di qualche sbaglio, come il castigo o il rimedio di qualche vizio; e conseguentemente di sopportarli, e, lungi dall’inasprirli ancora con l’impazienza e la collera, al contrario addolcirli, con la rassegnazione e l’acquiescenza della volontà al giudizio della Provvidenza. Non vietava affatto, come si vede nei versi citati, di alleviarli con mezzi leciti; al contrario voleva che il saggio si sforzasse di evitarli, se poteva, e di guarirli. Così questo filosofo non cadeva affatto nell’eccesso che s’è giustamente rimproverato agli stoici [9]. Giudicava il dolore cattivo, non perché fosse della stessa natura del vizio, ma perché la sua natura purgativa del vizio lo rendeva una conseguenza necessaria di questo. Platone adottò quest’idea, e ne evidenziò tutte le conseguenze con la sua abituale eloquenza [10].
Quanto a quel che dice Liside, sempre secondo Pitagora, che il saggio non era affatto esposto ai mali più crudeli, ciò si può intendere, come l’ha inteso Hierocles, in una maniera semplice e naturale, o in una maniera più misteriosa che dirò. Innanzi tutto è evidente, secondo le conseguenze dei principi che sono stati esposti, che, in effetti, il saggio non è affatto abbandonato ai mali più duri, poiché non inasprendo affatto con i suoi comportamenti quelli che la necessità del destino gli infligge, e sopportandoli con rassegnazione, egli li addolcisce; vivendo felice, anche in mezzo alla sfortuna, nella ferma speranza che questi mali non turberanno più i suoi giorni, e certo che i beni divini che sono riservati alla virtù, l’attendono in un’altra vita [11]. Hierocles, dopo aver esposto questa prima maniera di spiegare il verso di cui si tratta, tocca leggermente la seconda, dicendo che la Volontà dell’uomo può influire sulla Provvidenza, quando, agendo in un’anima forte, essa è assistita dal soccorso del Cielo e opera con lui [12]. Questa era una parte della dottrina insegnata nei misteri, e di cui si vietava la divulgazione ai profani. Secondo questa dottrina, di cui si possono riconoscere delle tracce abbastanza forti in Platone [13], la Volontà “rafforzata” [14] dalla fede, poteva soggiogare la stessa Necessità, comandare alla Natura, e operare dei miracoli. Essa era il principio sul quale riposava la magia dei discepoli di Zoroastro [15]. Gesù, dicendo in parabole, che a mezzo della fede si potevano scuotere le montagne [16], non faceva che seguire la tradizione teosofica, conosciuta da tutti i saggi. «La rettitudine del cuore e la fede trionfano su tutti gli ostacoli, diceva Confucio [17]; ogni uomo può rendersi uguale ai saggi e agli eroi di cui le nazioni onorano la memoria, diceva Mencio; non è mai il potere che manca, è la volontà; ammesso lo si voglia, si riesce [18]». Queste idee dei teosofi cinesi si ritrovano negli scritti degli Indiani [19], e anche in quelli di alcuni Europei che, come ho già fatto osservare, non avevano affatto abbastanza erudizione per essere degli imitatori. «Più la volontà è grande, dice Bœhme, più l’essere è grande, più è potentemente ispirato [20]». «La volontà e la libertà sono una stessa cosa[21]». «È la fonte della luce, la magia che di niente fa qualcosa [22]», «La volontà che va risolutamente avanti, è la fede; essa modella la propria forma in spirito, e si sottomette tutte le cose; con essa, un’anima riceve il potere d’influenzare un’altra anima, e di penetrarla nelle sue essenze più recondite. Quand’essa agisce con Dio, può rovesciare le montagne, frantumare le rocce, confondere i complotti degli empi, soffiare su di loro il disordine e lo spavento; può operare tutti i prodigi, comandare ai cieli, al mare, incatenare la stessa morte; tutto le è sottomesso. Non si può menzionare niente che essa non possa comandare nel nome dell’Eterno. L’anima che esegue queste grandi cose, non fa che imitare i profeti e i santi, Mosè, Gesù e gli apostoli. Tutti gli eletti hanno una potenza simile. Il male scompare davanti a loro. Niente potrebbe nuocere a colui in cui Dio dimora [23]».
È partendo da questa dottrina, insegnata, come ho detto, nei misteri, che alcuni gnostici della scuola d’Alessandria pretesero che i mali non cogliessero mai i saggi veri, ammesso di trovare degli uomini che in effetti lo fossero; giacché la Provvidenza, immagine della giustizia divina, non permetterebbe mai che l’innocente soffrisse e fosse punito. Basilide che era uno di coloro che sostennero quest’opinione platonica [24], ne fu vivamente rimproverato dai cristiani ortodossi, che lo trattarono da eretico, portandogli l’esempio dei martiri. Basilide rispose che i martiri non sono affatto interamente innocenti, poiché non vi è nessun uomo esente da colpe; che Dio punisce in loro, o dei desideri malvagi, dei peccati attuali e segreti, o dei peccati che l’anima aveva commesso in un’esistenza anteriore: e siccome non si mancava di opporgli ancora l’esempio di Gesù, che, quantunque pieno d’innocenza, aveva tuttavia sofferto il supplizio della croce, Basilide rispondeva senza tentennare che Dio era stato giusto nei suoi confronti, e che Gesù, essendo uomo, non era più di un altro esente da macchie [25].

* Estratto da A. Fabre d’Olivet, Les Vers dorés de Pythagore, expliqués. Paris, Treuttel e Würtz, 1813.

1. Seneca, De Senectute, L, VI, cap. 2.

2. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18.

3. Giamblico, De vita Pythagorica. Porfirio, De abstinentia; Vita Pythagoræ. Fozio, Codice 259. Diogene Laerzio, in Pythagoras, L. VIII. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm. Filostrato, in Vita Apollonii. Plutarco, De Placita philosophorum; De Animæ procreatione. Apuleio, Florida. Macrobio, Saturnalia; Somnius Scipionis. Clemente di Alessandria, Stromata.

4. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 14. Fozio, Codice 242 e 214.

5. Diogene Laerzio, in Pythagoras, L. VIII.

6. Diogene Laerzio, in Pythagoras, L. VIII, §. 4.

7. Massimo di Tiro aveva fatto una dissertazione sull’origine del Male, nella quale pretendeva che gli oracoli fatidici consultati a questo proposito, rispondessero con questi due versi d’Omero:
Noi accusiamo gli Dei dei nostri mali; e, noi stessi,
Con i nostri propri errori, li produciamo tutti.

8. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18.

9. Plutarco, De Stoicorum repugnantiis.

10. Platone, in Gorgia e Filebo.

11. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18.

12. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18, 49 e 62.

13. Platone, Fedone; Ipparco; Teeteto, La Repubblica, L. IV, ecc.

14. Il termine utilizzato da Fabre d’Olivet, “évertuée”, richiama l’idea di “dotare di virtù”.

15. Thomas Hyde, Historia religionis veterum Persarum, p. 298.

16. Matteo, XVII, v. 19.

17. Vie de Kong-Tzée (Confucius), p. 324, in Mémoires concernant l’histoire, les sciences, les arts, les mœurs, les usages, &c. des Chinois, Paris, vol. I, 1776.

18. Meng-Tzée, citato da Jean-Baptiste Du Halde, Description de l’empire de la Chine, tomo II, Parigi, 1735..

19. Bhagavat-Gita, lett. II.

20. Jakob Böhme, Quaranta Questioni sull’origine, l’essenza, l’essere, la natura e le proprietà dell’Anima (Viertzig Fragen von der Seelen Orstand, Essentz, Wesen, Natur und Eigenschafft, ecc. Amsterdam, 1682), quest. I.

21. Ibid.

22. Jakob Böhme, Nove Testi, test. 1 e 2.

23. Jakob Böhme, Quaranta Questioni, quest. 6.

24. Platone, in Teage.

25. Clemente di Alessandria, Stromata, L. IV, p. 506. Isaac de Beausobre, Histoire critique de Manichée et du Manichéisme, t. II, p. 28.