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lunedì 2 dicembre 2013

Alcuni cenni alla simbologia femminile del Graal

di Vito Foschi

Il Graal è un simbolo molteplice che racchiude vari significati. È un tramite per la divinità e rappresenta la molteplicità della potenza di Dio. Fra i suoi vari attributi c’è quello di rappresentare il principio creatore e in genere tutto quello che è legato alla vita: guarigione, nascita e rigenerazione. I suoi cantori gli hanno fatto assumere varie forme, calice, pietra, vassoio, ma le sue proprietà di rigenerazione sono costanti. La forma principale con cui è conosciuto il Graal è quello di un calice o in genere un contenitore. Ci soffermeremo su questa forma.



 Se esaminiamo il geroglifico egizio rappresentante la donna vedremo la presenza di un pozzo d’acqua. La donna, sorgente di vita, è legata all’acqua, sorgente di vita per eccellenza ma anche liquido amniotico. Il pozzo d’acqua come grembo materno. Nell’antico Egitto l’acqua assumeva un significato particolare. Le sue capacità agricole dipendevano dalla regolarità delle piene del Nilo. Tutto dipendeva dall’acqua. Non a caso tutte le grandi civiltà si sono sviluppate intorno a corsi d’acqua: il Nilo, il Tevere, il fiume Giallo, il Tigre e l’Eufrate, l’Indo. Nell’antica Mesopotamia una divinità dell’oltretomba chiamata Enki, riempiva di acqua le vasche dei primi templi. Poi semidei in forma di pesce la donavano agli uomini. I fedeli persiani la raccoglievano in anfore e versavano libagioni in coppe approntate dinanzi agli altari. In queste antiche cerimonie religiose, la vasca e il bacile, l’anfora e la coppa rappresentavano la creazione della vita.
Il Graal ha memoria di questi antichi miti. Forse un legame diretto non esiste, ma questi simboli sono universali e portano con sé memoria degli antichi significati. La potenza del simbolo è quella di rappresentare significati universali a tutti gli uomini e di passare indenne attraverso le generazioni umane assumendo nuovi significati ma conservando gli antichi.
Questa simbologia connessa all’origine della vita è indubbiamente legata alla donna e alla sua qualità di generatrice di vita. Il Graal contiene questa simbologia femminile, perché è un dispensatore di vita. In alcune leggende il Graal è legato alla Lancia sanguinante. Il sangue cola nel Calice e la lancia è simbolo maschile per eccellenza. Il Calice, la donna, la lancia, l’uomo, generano la vita e rappresentano l’atto creatore di Dio. Quale migliore rappresentazione della potenza creatrice divina del mistero della generazione di una vita dall’unione di un uomo e di una donna? E, di fatto, in passato quale altro simbolo si poteva utilizzare? Più tardi lo sviluppo della ceramica portò l’immagine di un Dio vasaio. Già nell’antico Egitto fu adottato il simbolo del vaso per significare il verbo creare.


 Il Graal essendo un contenitore possiede anche quest’immagine del vaso come simbolo della creazione divina. Anche il Dio cristiano che crea l’uomo dal fango riprende quella di un dio vasaio. Più tardi nel Medioevo Dio prende il compasso per creare. Il riferimento è all’architettura che allora sviluppava imponenti opere.
Il Graal rappresenta il tutto, perciò racchiude in sé il principio maschile e femminile. A volte reso più esplicito dalla presenza della Sacra Lancia. Simbolo maschile e quindi della guerra. Crea insieme al Graal-donna la vita, ma distrugge i nemici.
Nella tradizione cristiana un collegamento fra la donna e un contenitore esiste nella Litania Lauretana, la Vergine Maria viene descritta come: “Vas sprirituale, vas onorabile, vas insigne devotionis”, ovvero “vaso spirituale, vaso dell’onore, vaso pregiato di devozione”. La Vergine è descritta come un contenitore, il “contenitore” per eccellenza perché ha custodito il Figlio di Dio.
Un esempio di connessione fra il simbolo del vaso e la donna si ritrova nelle decorazioni della chiesa di S. Vitale a Ravenna in cui la regina Teodora viene accomunata ad un vaso. La metafora è sempre quella della donna come contenitore della vita.


Trattando di generazione, il ricordo di antichi culti legata alla Grande Madre, è evidente. La simbologia femminile del Graal è piuttosto forte a scapito di quella maschile, nonostante il tempo trascorso e l’avvento del cristianesimo e del Dio Padre. Anche per questo il simbolo del Graal, nonostante i tentativi di riportarlo all’ortodossia, rimane fondamentalmente un simbolo eteredosso.
Bibliografia
  • L’avventura del Graal di Andrew Sinclair
  • Il segreto dei geroglifici di Christian Jacq

sabato 22 giugno 2013

Brevi riflessioni sulla follia di Perceval

di Vito Foschi

Nel racconto di Chrétien de Troyes, all’inizio dell’avventura, il giovane Perceval è all’oscuro di tutto, vive in uno stato quasi selvaggio accudito dalla madre e dai servitori. È giovane, sta per entrare nell’età adulta ma è come se non fosse ancora nato, addirittura non viene chiamato con il suo nome… è il puro Folle. Puro perché non contaminato dal mondo, è vissuto nella foresta ed è come se avesse continuato a vivere nel grembo materno, folle perché ignorando totalmente le regole del vivere in società il suo comportamento ai più sembra dettato da follia. Nei primi passi del romanzo abbondano gli appellativi folle, stolto, giovane selvatico. Ma nonostante la Follia o proprio grazie ad essa decide di seguire la Luce, la luce portata nel suo mondo dal bagliore delle armature dei cavalieri che egli non a caso crede angeli.

Qui mi sovviene l’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam che indica nella Follia il motore della storia, per cui nascono e muoiono imperi, città, si formano famiglie, si intraprendono viaggi, attività economiche, ecc. Il saggio, prudente qual è, rimane in casa senza gettarsi in avventure e si accontenta del suo stato e non sogna. Il Folle sogna e qui mi sovviene Lwarence D’Arabia e il suo aforisma sugli uomini che sognano. Recito a memoria. “Esistono due tipi di uomini quelli che sognano quando dormono e quelli che lo fanno ad occhi aperti. Di queste specie di uomini la seconda è la più pericolosa perché lotta per realizzare i suoi sogni”. Non sono le parole esatte, ma il senso è quello. Perceval è della specie che sogna ad occhi aperti. Vede i cavalieri e decide di diventarlo, si arma e parte senza indugiare oltre abbandonando la madre che muore di crepacuore. La vede a terra, ma non si ferma, non indugia, sferza il cavallo e corre via lontano. Un comportamento non propriamente saggio. E quando vede le tre gocce di sangue sulla neve fresca e rimane lì imbalsamato nel dolce ricordo di Biancofiore, che cosa fa se non sognare ad occhi aperti? Addirittura non si accorge dei molti cavalieri che vengono ad interrogarlo su chi era e cosa voleva, che irritati lo caricano e vengono abbattuti puntualmente da Perceval che combatte come in sogno. Una volta “sveglio” raggiunge la corte di Re Artù e chiede del siniscalco Key, con cui aveva una contesa e gli dicono che è stato proprio lui ad abbatterlo e ferirlo ad un braccio. Non si era accorto di niente, il nostro sognatore. Nel saggio di Erasmo esaminata la follia di tutta l’attività umana si giunge alla conclusione che l’unica “follia giusta” è quella in Cristo, quella dei Santi, dei Martiri, ma anche del semplice credente che in Cristo solo può trovare risposta alla follia della vita. Questa è l’idea di Erasmo, che riprende in maniera satirica il concetto di follia come massima saggezza espresso da San Paolo nella lettera ai Corinzi, non a caso citato nell’Elogio, che nonostante la sua sostanziale ortodossia, verrà tacciato di eresia, probabilmente per il suo sarcasmo sui teologi cervellotici, le critiche alla chiesa e al potere costituito, anche se il suo intento era solo di ironizzare sulla società terrena per mettere in evidenza la Verità ultraterrena. E il buon Perceval cosa fa verso la fine del romanzo incompiuto di Chrétien? Dopo aver vissuto cinque anni lontano dalla chiesa, e quindi lontano dallo spirito, vivendo mille avventure senza ritrovare il Graal incoccia in una processione di Venerdì Santo e uno dei presenti lo rimprovera del suo andare armato. Perceval stupito chiede che giorno sia e, ottenuta la risposta sente la necessità di fare penitenza e gli viene indicato un eremita e lui ci se reca prontamente. Qui riceve la sua iniziazione spirituale, ma non ci soffermeremo su questo, ma sul fatto che il Puro Folle ritorna a Dio, la sua follia nel mondo si tramuta in follia in Cristo. Dopo cinque anni di avventure, di follia umana, scopre ciò che è veramente importante la Follia del Cristo che si fece uomo per riscattare i peccati degli uomini e Perceval capito ciò è pronto a riconquistare il Graal ed essere il Folle in Cristo capace dell’estremo sacrificio per mondare il mondo dal peccato e risorgere alla vita eterna.

Naturalmente questa è l’interpretazione cristiana del racconto di Chrétien, ma non è la sola possibile dato che nel cristianesimo persistono reminiscenze di antichi culti e l’evidente presenza nel racconto di elementi celtici posta in luce da molti studiosi.

venerdì 24 maggio 2013

Perceval, Re e Sacerdote


In Perceval è ravvisabile l’eterna figura del Re Pontefice, guida politica e spirituale dalla cui salute dipende il benessere del regno

di Vito Foschi

Introduzione


Nel Perceval, il romanzo di Chétien de Troyes, si racconta di come il giovane Perceval da selvaggio ed incolto si trasformi in un perfetto cavaliere affrontando varie avventure, tra cui alcune di natura fantastica. Ma dietro questo percorso è possibile scorgere una vera e propria iniziazione. Ad esempio l’avventura nel castello del Graal non trova facilmente spiegazione come semplice favola e molti autori hanno rilevato i riferimenti mitici sia celtici sia alla tradizione dei Re Taumaturghi. Come abbiamo scritto in altri lavori Perceval riceve due iniziazioni, la prima alla cavalleria profana o terrena ricevuta dal gentiluomo Gorneman di Gorhaut, e la seconda alla cavalleria spirituale o celeste dallo Zio Eremita che gli trasmette una preghiera segreta. Questo particolare non è facilmente riconducibile a un contesto cristiano o semplicemente favolistico. Rappresenta la trasmissione di un sapere iniziatico, segreto, che si trasmette da maestro ad allievo.
L’opera di Chrétien manca della fine, non si capisce se per volontà dell’artista o meno ed il suo successo è in parte dovuto alle diverse continuazioni scritte da altri autori. Il romanzo ha, inoltre, la particolarità si essere quasi diviso in due parti di cui una dedicata ad un altro protagonista: Galvano. Si può ben dire che si tratti di una opera molto particolare e nonostante o forse proprio per questo di ampia diffusione.

Il Castello del Graal


Perceval raggiunge il castello del Graal ma non ponendo la domanda su cosa sia ciò che vede fallisce la prova e si allontana non riuscendo a capire cosa sia successo. Il tutto gli viene spiegato da una sua cugina con una specie di interrogatorio. Anche qui le tracce di un rituale con delle domande prefissate e le risposte dell’adepto che non sa. E d’altronde cosa potrebbe sapere Perceval se è ancora un semplice cavaliere? Quando raggiunge il castello del Graal è stato appena iniziato cavaliere da Gorneman ed ha liberato Biancofiore dai suoi nemici. Quindi ha fatto solo esperienza di guerra e di cortesia e questa non è sufficiente a conquistare il Graal.
Nel racconto di Chrétien bisogna rivelare la presenza di uno schema: tentativo, fallimento, nuovo tentativo, successo. La prima volta che Perceval incontra una donna, la dama dell’Orgoglioso della Landa, segue i consigli della madre e combina un guaio. Non era ancora pronto. Incontra Gorneman che oltre ad insegnargli le regole della cavalleria gli insegna le regole della cortesia. E così la seconda volta con Biancofiore, essendo ormai un uomo e un gentiluomo riesce a conquistarla. Si noti lo schema: tentativo e fallimento con la dama dell’Orgoglioso, nuovo tentativo e successo con Biancofiore. Così succede con le donne, ma così appare lo schema della ricerca del Graal, solo che lo schema non si completa, perché il romanzo si interrompe. Il primo tentativo col Graal fallisce, perché l'eroe ha avuto solo l'iniziazione alla cavalleria terrestre e ciò non è sufficiente per recuperare il Graal. Sono i primi due passi dello schema. Verso la fine del romanzo, come accennato prima, riceve l'iniziazione Spirituale ed è pronto per ritentare l'impresa. Purtroppo il racconto si interrompe, ma si può ipotizzare con una certa sicurezza una conclusione positiva.

Un romanzo di formazione?


Alcuni autori hanno considerato l’opera solo come un romanzo di formazione con intenti didascalici senza vederne gli aspetti mitologici, ma anche questa interpretazione non fa che rafforzare l’ipotesi della conquista del Graal da parte di Perceval. Se il protagonista deve imparare certe cose per poter superare le prove della vita, si intuisce che alla fine del racconto dopo aver imparato ciò che serve ritroverà il castello del Graal e porrà la domanda e libererà il Re Magagnato dal suo dolore.
Quando Perceval raggiunge il castello del Graal la prima volta, è cavaliere ed ha appena lasciato il castello di Biancofiore, ha ricevuto l’iniziazione alla cavalleria terrena ed è ancora un semplice guerriero. È anche maturato da adolescente a uomo conoscendo l’amore terreno. Qui finirebbe il romanzo se si trattasse solo di un romanzo di formazione, come se in una società tradizionale possa aver senso parlare di formazione, o di passaggio dall’adolescenza all’età adulta senza un cerimonia iniziatica. Gli insegnamenti terreni non sono sufficienti a conquistare il Graal.

L’investitura del re sacerdote


Nella visita al castello del Graal, il Re Pescatore dona a Perceval una spada dicendogli che è fatta per lui. Ora il simbolo della spada è molto chiaro, oltre a simboleggiare le virtù guerriere rappresenta la Giustizia e la Regalità.  In Matteo 10, 34 “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada”. La spada è simbolo della giustizia e Gesù vuole intendere di essere venuto a portare la Giustizia, tra gli altri significati. Nel momento in cui riceve la spada viene riconosciuta a Perceval la sua qualità di guerriero e riceve l’investitura di re. Naturalmente il Graal è un dono spirituale e non può essere posseduto da un semplice re guerriero. Dopo questo episodio Perceval affronta varie avventure, ma si tiene lontano dalla chiesa: è un cavaliere in cerca di avventure. Un venerdì santo incontra una processione e viene rimproverato da uno degli astanti di andare in giro armato in tale giorno. Perceval non sa di che giorni si tratti, lo chiede e quando lo apprende sente la necessità di fare penitenza e saputo della presenza lì vicino di un eremita ci si avvia. Qui apprende che l’eremita è suo zio da parte di madre e i misteri del Graal. Il Graal serve l’ostia al padre del Re Pescatore che da 12 anni si nutre solo di quella. Infine l’Eremita gli insegna una preghiera segreta che «conteneva molti nomi del signore Iddio, i più potenti, che nessuna bocca umana deve pronunciare se non per paura della morte»; preghiera segreta, che rappresenta il filo ininterrotto della tradizione che lega i rappresentati nelle varie generazioni: riceve una definitiva iniziazione. In quest’ultima si può scorgere una iniziazione sacerdotale, e non a caso a impartire l’insegnamento è lo zio materno di Perceval. Ci piace ricordare la tradizione ebraica per cui la discendenza è da parte di madre ed erano i membri della tribù dei leviti a poter accedere alle cariche sacerdotali.

Il costruttore di ponti


Perceval è re sacerdote o per meglio dire re pontefice. Il Pontifex è letteralmente un «costruttore di ponti», qui inteso simbolicamente quale mediatore fra il nostro mondo e i mondi superiori. In effetti quando Perceval incontra la prima volta il Re Pescatore è alla ricerca di un guado dove attraversare un fiume; il Re è in barca intento a pescare e gli indica la strada, funzione di pontefice, per raggiungere il Castello del Graal dove avrebbe alloggiato quella notte per poi ripartire. Il Castello è un regno non terreno ed il Re Pescatore funge da intermediario fra il mondo terreno e il mondo superiore. Infatti il Castello appare a Perceval ad un tratto, quando disperava di trovarlo pensando di essere stato burlato dal pescatore, e nonostante lo abbia visitato, non sarà più in grado di ritornarvi a dimostrazione che la sua ubicazione non è di questo mondo.
Ricevuta l’iniziazione spirituale o sacerdotale, Perceval è in grado di liberare il Re Magagnato dal suo male o meglio di succedergli al trono e di essere lui il nuovo Re Pescatore che farà rifiorire la terra. Qui si intravede l’ombra di antichi rituali legati ai culti di fertilità e alla successione di un sovrano o di un capo che svolge funzioni sia guerriere che religiose.
La funzione di Perceval è restauratrice, ovvero di riportare ordine in una situazione degenerata. In Perceval riconosciamo la figura dell’eroe nel senso tradizionale del termine come spiegato da Julius Evola nel suo “Il mistero del Graal”. L’eroe a differenza dell’uomo primordiale completo in sé, deve riconquistare la sua pienezza perché non è per “natura” completo. Da “Il Mistero del Graal”: “Secondo Esiodo la «generazione degli eroi» fu creata da Zeus, cioè dal principio olimpico, con la possibilità di riconquistare lo stato primordiale e dar quindi vita a un nuovo ciclo «aureo»”.



Compito dell’«eroe» è quindi quella di far rinascere una nuova età dell’oro. In effetti nell’avventura di Perceval, osserviamo una situazione di disordine in cui è caduta la società umana a causa dell’infermità del Re Pescatore. Possiamo pensare che la malattia del Re Pescatore si ripercuota sul mondo perché come è raccontato da altri testi del ciclo arturiano, sia Merlino che Artù sono traditi da una donna, da intendersi anche qui in senso simbolico, generando il caos nel regno.
Accenniamo al fatto che nelle tre figure del re Pescatore, di Merlino e d’Artù possiamo vedere le “tre funzioni supreme” indicate da Guénon nel Re del mondo: “…il capo supremo dell’Agarttha porta il titolo Brahâtmâ (sarebbe più corretto scrivere Brahmâtmâ), «supporto delle anime nello spirito di Dio»; i suoi coadiutori sono il Mahâtmâ, «rappresentante dell’Anima universale» e il Mahângâ, «simbolo di tutta l’organizzazione materiale del Cosmo»: questa è la divisione gerarchica che le dottrine occidentali rappresentato mediante il ternario «spirito, anima e corpo»”.
Ora, Perceval secondo lo schema da noi individuato, guarisce il Re Pescatore e gli succede instaurando un nuovo regno e quindi una nuova era di pace e prosperità che potrebbe essere considerata come il ritorno all’età dell’oro primordiale.


Re Pescatore


L’aggettivo pescatore associato a re non è casuale e non riguarda semplicemente il passatempo del re malato ma ha un chiaro significato simbolico. Il Re Pescatore per eccellenza è Gesù, re perché discendente dalla stirpe davidica e pescatore perché pescatore d’anime. Nel vangelo sono ben noti i passi in cui dice a Pietro di gettare le reti (Luca 5, 4) e quando gli dice di lasciare le reti che lo avrebbe fatto pescatore di uomini (Luca 5, 10). Qui, è da citare il cosiddetto anello piscatorio indossato dal Papa che ha l’effige di Pietro che pesca con la rete. In questo oggetto è racchiusa una doppia simbologia regale e sacerdotale. L’anello sta spesso a denotare la nobiltà di chi lo indossa, mentre l’effige di S. Pietro che getta le reti è un esplicito simbolo della funzione sacerdotale della chiesa. Dobbiamo qui citare la diffusione nel medioevo di una leggenda di origine araba che racconta di come Re Salomone possedesse un anello magico capace di scacciare i demoni e perdendolo lo ritrovi dentro un pesce che aveva appena pescato e da cui l’appellativo re pescatore. Sottolineiamo l’esistenza di una leggenda simile che ha come protagonista Alessandro Magno, anch’egli simbolo di quella regalità sacerdotale, perché in un certo qual modo ne ha incarnato i principi nella storia.
A completamento dell’esame della simbologia, ricordiamo che il simbolo dei primi cristiani era il pesce dall’acronimo greco che indicava il nome di Gesù ed a volte erano chiamati loro stessi pesciolini perché, come i pesci erano scampati alla punizione divina del diluvio universale, così, essi grazie alla loro fede in Cristo avrebbero superati indenni il Giudizio Universale. Inoltre il pesce era un simbolo frequente dell’iconografia cristiana a ricordare il miracolo dei pani e dei pesci e da qui, spesso associato al banchetto dell’Ultima Cena.

Conclusioni


In questo simbolismo sembrano convergere tradizioni precristiane e cristiane, anche se è più corretto dire che ambedue si riferiscono ad un simbolismo tradizionale, esplicitandone ognuna, quella parte che in un dato momento e in un dato luogo, è più congeniale. La presenza di ambedue permette di chiarire meglio i principi sottesi depurandoli dalle incrostazioni delle contingenze storiche.
Non possiamo sapere se l’utilizzo di tale simbolismo da parte di Chrétien sia stato consapevole o meno, anche perché vivendo in un’epoca fortemente intrisa di sacro non poteva non riversare nella sua opera la simbologia cristiana. Sicuramente i riferimenti cristiani hanno permesso a Robert de Boron nelle sua successiva rielaborazione della leggenda del Graal, di rivestirla, con estrema facilità, di abiti cristiani. È da ribadire, però, che una lettura eminentemente cristiana del racconto del Graal non è possibile, stando un sostrato di miti non riconducibile a un alveo cristiano.

giovedì 25 ottobre 2012

IL GRAAL IN ABRUZZO

Con grande piacere comunichiamo la pubblicazione del libro "IL GRAAL IN ABRUZZO" di una nostra antica amica, Nicoletta Travaglini, che ha collaborato con il nostro sito prestandoci alcuni suoi lavori:

La presentazione tratta dal sito della casa editrice:
"
Il Graal in Abruzzo

     L’eterna e affascinante ricerca del Graal ha incantato gli studiosi di tutte le epoche e la nostra non fa eccezione.
     Nel mistero di un lunga inchiesta che si snoda attraverso i secoli, luoghi e personaggi oscuri paiono sul punto di svelare i loro arcani segreti; la storia di questa inafferrabile Reliquia si perde così nella leggenda celata ai nostri occhi dalle pesanti coltri delle sabbie del tempo.
     In un percorso suggestivo Nicoletta Camilla Travaglini ha raccolto le possibili tracce del Graal nelle terre degli Abruzzi dove, come emerge da questo affascinante reportage, esso sembra aver lasciato profondi segni del suo probabile passaggio tanto a livello antropologico che archeologico.
     Lanciano e i suoi Miracoli Eucaristici, le sue Chiese, la storia di Longino e della lancia del destino; Atessa, la processione del Graal e le inquietanti testimonianze simboliche che al Graal rimandano; San Giovanni in Venere, in cui potrebbero essere stati custoditi la Sacra Reliquia e i molti, terribili segreti legati all’ordine del Tempio; Vasto, la Spina della Corona di Gesù e la tradizione del Toson d’oro; Manoppelo e la Veronica; e poi ancora San Buono, Liscia, Pollutri… Luoghi, appunto, e personaggi, come Celestino V, la Famiglia di Sangro, i Del Balzo, gli Orsini, i De Ocre, i D’Avalos, solo per citarne alcuni, la cui natura enigmatica e contraddittoria rende spesso ancora più misteriosa ed eccentrica la soluzione dell’arcano.


[ISBN-978-88-7475-290-4]
Pagg. 120 - € 10,00

Link al sito della casa editrice

sabato 25 agosto 2012

VENEZIA: I MISTERI DELLA LAGUNA

Tra spettri, Graal e magi occultisti

di Andrea Romanazzi

Quando si parla di Venezia vengono subito in mente le immagini delle bellissime gondole che vagano per i canali e la dolce atmosfera romantica che la avvolge, ma tra i campi e i calli gremiti di turisti si nascondono antiche leggende, misteri insoluti, ombre di antichi personaggi che rendono la città fortemente inquietante in questa sua gotica disinvoltura. Sarà seguendo così le tracce di questi enigmi che si perdono nella notte dei tempi che riusciremo ad entrare in contatto con il genius urbis che come novello Virgilio ci porterà tra le pieghe del tempo al cospetto di tradizioni mai dimenticate come il Graal e Cagliostro, Casanova e l’Inquisizione che ci faranno cambiare idea sul comune soprannome di "Serenissima".



IL GRAAL E I MISTERI DI SAN MARCO

La città di Venezia è ricca di leggende su antiche reliquie cristiane dato anche gli stretti rapporti economici con il mondo orientale e così ovviamente non potevano mancare storie sui Templari e il mistico Graal, la coppa nella quale, secondo la leggenda, Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo.
La via che porta questa favolosa reliquia in città è quella che conduce a Costantinopoli, l’odierna Istambul, città conquistata dai Crociati e strettamente legata al capoluogo veneto. In particolare proprio durante la Quarta Crociata cavalieri e mercanti portarono in città cultura e tradizioni mediorientali oltre ai moltissimi tesori provenienti dalla città turca come i quattro cavalli in rame presenti sulla Basilica di San Marco e che tradizione vuole avessero al posto degli occhi degli splendidi rubini. Si sa ancora che da Costantinopoli sarebbe provenuta la Corona di Spine di Gesù che Luigi IX di Francia riuscì a sottrarre alla città per portarla in Francia, presso la Sainte Chapelle, dunque non sarebbe impensabile che, nel caso fosse davvero esistito, il Graal nel suo mistico cammino fosse davvero giunto nella città.
La tradizione lo vuole nascosto nel trono di San Pietro, il sedile ove si sarebbe davvero seduto l’Apostolo durante i suoi anni ad Antiochia costituito da una stele funeraria mussulmana e decorato con i versetti del Corano oggi presente nella chiesa di San Pietro in Castello. Si narra che questa poi sarebbe stata trasferita successivamente a Bari, città legata a quella veneta da interessanti tradizioni comuni come il santo Nicola le cui due città si spartiscono le sacre reliquie. Alcune tradizioni locali, poi, vogliono che nella chiesa di San Barnaba fosse stato seppellito il corpo mummificato di un cavaliere crociato francese dal nome di Nicodemè de Besant-Mesurier, legato alla vicenda della traslazione della mistica coppa ritrovato nella zona nel 1612. In realtà non sono mai stati trovati documenti che parlassero di questo cavaliere.

I misteri legati alla religione Cristiana non trattano solo di reliquie, ma diverse sono anche le tradizioni legate a l’Inquisizione e piazza San Marco, tracce di angusti ricordi sparsi in una delle più belle piazze d’Italia e spesso celati agli occhi del comune viaggiatore. All’angolo destro della Basilica, ad esempio, è presente un cippo che la tradizione vuole utilizzato per le esecuzioni, mentre guardando le colonne del primo loggiato del vicino Palazzo Ducale, ne possiamo scorgere due di colore differente dalle altre ove, secondo la tradizione, venivano lette le sentenze di morte poi eseguite nella piazzetta antistante o nel vicino Campanile. Ecco così che il meraviglioso Campanile che svetta nella piazza nasconde anch’esso macabri ricordi, infatti è legato alla tradizione del supplizio di cheba, una gabbia in ferro sospesa nel vuoto nella quale i condannati venivano esposti al pubblico ludibrio anche per lunghi periodi sfidando le intemperie e dunque la morte che presto sopraggiungeva quasi come liberazione. Sempre tra le colonne del Palazzo Ducale, poi, era offerta l’ultima speranza di salvezza, e infatti, sul lato della costruzione che si offre al mare era presente una colonna che ancora oggi appare con il basamento consumato. Ai condannati era offerta una ultima grazia: se fossero riusciti a girar intorno alla stessa senza cadere mai dallo strettissimo basamento sulla quale poggia, operazione davvero impossibile.

I PALAZZI STREGATI E LE CORRENTI TELLURICHE
Interessanti poi sono le tradizioni legate ai palazzi stregati come Ca’ Dario e Ca’ Mocenigo Vecchia.
La fama del primo sinistramente conosciuta da tutta la città, esso fu costruito dal mercante Giovanni Dario e dedicato al genio della città come testimonia l’iscrizione "Genio urbis Joannes Dario", scritta che, secondo alcuni studiosi, nasconderebbe, anagrammata, enigmatici quanto orribili segreti: "SUB RUINA INSIDIOSA GENERO" e cioè colui che abiterà sotto questa casa andrà in rovina. Per alcuni la costruzione sorgerebbe su un nodo di energie negative che si trasferirebbero all’intera dimora, quella che Fulcanelli definirebbe una vera e propria dimora filosofale. In realtà l’intera città sorgerebbe su una rete di correnti telluriche, positive e negative, che caratterizzerebbero così la sua urbanizzazione, lo stesso Canal Grande sarebbe la rappresentazione del temibile serpente, simbolo delle enigmatiche forze che in alcuni punti diventerebbero fortemente palesi. Del resto nel passato era normale che ci fossero luoghi benefici e malefici, in oriente ove si pratica il feng shui, cioè una disciplina che permette di costruire una casa recependo le onde benefiche del "grande drago" che dorme nel sottosuolo. Sarà proprio il drago a caratterizzare la città, infatti esaminiamo una qualunque cartina di Venezia vediamo il Canal Grande snodarsi come un serpente o un dragone, tagliando esattamente in due parti la città. Abbiamo così la testa, "caput draconis", ed una coda "cauda draconis".
Alla fine di quest’ultima troviamo l’isola di san Giorgio, con l’omonima chiesa, scelta non casuale se pensiamo che nella tradizione cristiana san Giorgio è il santo che uccide il drago, e quindi che esorcizza il serpente veneziano, mentre dalla parte opposta vi è la Basilica di San Marco, quasi un modo per esorcizzare queste energie.
E’ proprio posizionato nella "cauda" che troviamo Ca’ Dario, il misterioso palazzo la cui maledizione colpisce tutti i proprietari che sono morti suicidi o comunque di morte violenta, tra i quali ultimamente Raul Gardini e il tenore Mario del Monaco.
Per quanto riguarda invece la seconda costruzione, è silente testimone della visita del filosofo Giordano Bruno in città, ospite proprio della famiglia di Mongenigo che, dopo aver cercato di carpire le sue conoscenze alchemiche, lo denunciarono come stregone alle autorità veneziane costringendolo a riparare a Roma ove poi sarà giustiziato. Tradizione vuole che ancora in quell’edificio si manifesti il fantasma dell’eretico in cerca di giustizia.

ALCHIMIA VENEZIANA

Moltissimi sono stati i maghi, stregoni e alchimisti presenti nella laguna, tra i quali spiccano, oltre al già citato Giordano Bruno, Casanova e Cagliostro. Dati gli stretti rapporti con il Medioriente, Venezia è stata da sempre crogiuolo di culture, il toponimo del quartiere "Giudecca" sembrerebbe proprio segnalarci la presenza dei suoi primi abitanti, i giudei, da sempre maestri di alchimia e studiosi di Cabala. Moltissime sono così le leggende presenti nell’antico e nuovo ghetto che riguardano gli rabbini e i loro studi di alchimia.
Nella città, poi, sono presenti le conoscenze alchemiche degli arabi le cui tracce ritroviamo nel quadrante della torre dell’orologio ove, tra simboli astronomici e astrologici sono presenti raffigurazioni di mori. Più sconcertanti ed evidenti sono però le simbologie arabe presenti nelle vicinanze della porta della carta vicino la Basilica di San Marco. Qui sono rappresentati in un angolo i così detti "quattro mori", i tetrarchi Diocleziano, Galerio, Massimiliano e Costanzo.
In realtà la tradizione lega queste figure all’alchimia come testimoniato da un fregio alla base dello stesso raffigurante due putti e due draghi intrecciati che portano un cartiglio con la scritta in veneziano arcaico "uomo faccia e dica pure ciò che gli passa per la testa e veda ciò che po’ capitargli".
Sempre sullo stesso lato della Basilica sono presenti due colonne provenienti da Acri ove cultura cristiana e mora si mescolano in una mistica commistione di immagini tra le quali spiccano tre enigmatici criptogrammi per alcuni invocazioni al dio del mussulmani Allah.
Tra i personaggi più enigmatici, però, sicuramente spicca Casanova, mago e scrittore nato nella città il 2 Aprile 1725 e sepolto nella chiesa di San Barnaba anche se della sua tomba sono state perse le tracce. La sua storia "misteriosa" parte all’età di otto anni quando, per guarirlo da un male che gli costringeva a tenere sempre la bocca aperta, la zia lo portò da una strega guaritrice. Sarà da allora che lo scrittore iniziò ad interessarsi alle arti magiche che gli procurarono problemi con l’Inquisizione e che lo portarono ad esser imprigionato nei famosi "piombi" veneziani dai quale riuscì in una clamorosa fuga. Sicuramente egli ebbe contatti con la massoneria e con Amadeus Mozart per la realizzazione del suo "Don Giovanni" ispirato anche alla vita del veneziano e con il famoso Giuseppe Balsamo, noto come Conte di Cagliostro proveniente da Aix de Provence. Secondo la tradizione i due si incontrarono nella città nel 1769 per scambiarsi formule e magici rituali e le formule per l’elisir di eterna giovinezza.


giovedì 23 agosto 2012

Chrétien de Troyes

Chrétien de Troyes è autore di romanzi del ciclo arturiano tra cui Perceval o il racconteo del Graal, Tristano e Isotta, Lancilotto o il cavaliere della carretta.
Vi rimandiamo alla voce di Wikipedia su Chrétien de Troyes:


http://it.wikipedia.org/wiki/Chr%C3%A9tien_de_Troyes


venerdì 29 giugno 2012

I Miracoli Eucaristici di Lanciano

Di Nicoletta Camilla Travaglini

Nelle leggende fiorite intorno al Graal si parla di alcune sue peculiarità tra cui quella che, quando essa è presente sull’altare nel momento solenne della celebrazione dell’Eucarestia, potrebbe tramutare il vino in sangue e l’ostia in carne cosa che ricorda molto da vicino un famoso evento soprannaturale accaduto a Lanciano.  
Secondo un’antica leggenda,  Lanciano fu edificata da Solima compagno di Enea  e fondatore, tra le tante cose, anche di Sulmona, il quale impose a questo piccolo villaggio, il nome di suo fratello Anxa, disperso durante la fuga da Troia.
Anxa o Anxanon divenne in breve tempo la capitale dei Frentani, potente popolo italico, resa famosa anche, presso i romani  dai suoi mercati annuali.
Nel medioevo al nome Axanon venne aggiunto l’articolo così da diventare Lanxanon e quindi Lanciano.
Altre fonti sostengono che il toponimo Lanciano sia da ascrivere alla corruzione del nome del famosissimo centurione romano Cassio Longino, che ferì con la sua lancia il costato di Gesù morente. Egli fu citato per la prima volta, senza rivelarne il nome, però, nel Vangelo di San Giovanni; nei Vangeli Apogrifi, Nicodemo, invece, parla di un certo Longino, come uno dei tanti aguzzini del Nazzareno.
La vita di San Longino, comunque, è ancora avvolta nel mistero a cominciare dalla sua mitica lancia per finire ai Vasi Sacri,  enigmatiche reliquie , custodite a Mantova.
Questo personaggio dei Vangeli apocrifi,  è presente, tra gli altri in alcune leggende medioevali abruzzesi, nelle quali si afferma  che Cassio Longino era figlio di patrizi lancianesi e attendente di Ponzio Pilato, anche lui abruzzese, nonché  informatore del medesimo in  Palestina. 
Leggende che potrebbero avere riscontri archeologici se si presta fede ad alcune fonti nelle quali si dice che nelle vicinanze della chiesa di San Francesco, vi fosse una fontana pubblica pagata da un certo Cassio Longino, come recita l’epigrafe apposta su di essa : “Cassio Longino fecit”.  Secondo altri esso si ubicava lungo il tratturo l’Aquila-Foggia alle porte di Lanciano.
Durante l’iter processuale che portò alla condanna a morte del Nazzareno, Longino, il cui nome deriva dalla parola lancia e forse da qui l’associazione con l’arma più potente e ricercata della cristianità, ebbe l’incarico di seguire da vicino le sorti del Cristo.
Cassio fu molto scrupoloso nel suo lavoro, rimanendo accanto al prigioniero anche durante l’agonia della crocifissione e infliggendogli, forse, il colpo letale. Alcune gocce di sangue e d’acqua sgorgarono dalla ferita, il liquido vermiglio scivolò lungo la lancia fino a toccare le sue mani, che portò, inavvertitamente, sugli occhi che guarirono improvvisamente da una miopia degenerativa; passato il primo momento di stupore, egli raccolse una manciata di terra e sangue e la nascose. 
Questa forzata vicinanza con le dottrine  cristiane e il prodigio a di cui fu testimone lo portarono a convertirsi alla nuova religione e così, dopo la morte di Gesù, si congedò dal esercito, prese i suoi tesori: la lancia, la spugna imbevuta di aceto e, ovviamente, la terra contenete il sangue sacro e partì. Alcune fonti  dicono che si fermò a Mantova dove oggi si possono ammirare i cosiddetti “Vasi Sacri” contenenti il Sangue Sacro, altri affermano che fosse tornato alla sua natia Lanciano, pare senza i suoi tesori,  dove iniziò a fare proseliti. A Pilato e al Sinedrio la cosa non piacque e così fu emanato un mandato di cattura nei confronti di Longino che raggiunto da alcuni sicari, fu decapitato e la sua testa fu portata a Gerusalemme come monito.
Gli abitanti di Lanciano commossi dal sacrificio del soldato, eressero sul antico tempio di Marte una chiesa dedicata a San Longino, dove, essendone diventato il primo vescovo ed evangelizzatore, fu anche, forse tumulato qui, secondo quando si apprende da ritrovamenti recenti di mummie che potrebbero avvalorare tale tradizione. 
  Nel VIII secolo tra le sue mura si consumò  un evento sovrannaturale. Era il 750 d.C. circa, quando con l’acuirsi delle “guerra” delle icone e reliquie religiose, vi  fu, anche, un flusso migratorio  notevole di monaci greci verso l’Italia e un gruppo di questi, giunti a Lanciano come profughi, diventarono custodi del tempio di San Longino.
Il protagonista del prodigio fu, appunto, uno di essi, per la precisione un monaco dell’ordine di San Basilio; il quale non avendo una fede molto ferma, dubitava del mistero dell’Eucaristia; le sue incertezze diventavano ogni giorno più forti e così durante una  funzione, dopo aver fatto la doppia consacrazione, l’ostia che  aveva in mano si trasmutò in Carne  viva e il vino si raggrumò in cinque coaguli di sangue.
La leggenda vuole che due confratelli, sconvolti da tale evento e  vergognandosi della fede traballante del celebrante, rubarono il documento originale di cui non si ebbe più traccia. 
Questo “Miracolo”, come viene descritto da una lapide del 1636, ebbe da subito ampia risonanza presso i fedeli e non solo; in seguito a ciò, i basiliani dovettero cedere la chiesa ai più influenti benedettini dell’Abbazia di San Giovanni in Venere.
Era il 1252 quando il vescovo di Chieti, Landolfo Caracciolo, su suggerimento di  Papa Innocenzo IV, donò il tempio ai Frati Conventuali Minori dell’ ordine di San Francesco. 
Nel 1258 i nuovi custodi, iniziarono a costruire un nuovo complesso ecclesiastico sulle rovine di quello preesistente, dedicato a San Francesco d’Assisi fondatore dell’ordine.
Questo “Miracolo” fu posto in una scrigno di avorio argentato, conservato nel sacello di  destra dell’altare maggiore. Successivamente, per paura delle scorrerie pagane, i resti sacri  furono murati in una oscura e angusta cappella, di cui oggi rimane testimonianza nell’alta e stretta monofora gotica.
Riportate alla luce nel 1636, esse furono risposte per 266 anni circa, dietro una grata cubica, sigillata ulteriormente da due piccole porte di legno chiuse da quattro chiavi diverse, all’interno della Cappella della Famiglia Valsecca, dove ancora si può leggere l’epigrafe commemorativa, oltre che ammirare gli affreschi che decorano la navata destra dell’imponente edificio, raffiguranti Giuditta con la testa di Oloferne, Ester al cospetto di Assuero, Rachele al pozzo, Sant’ Antonio abate e San Giovanni Battista vestito di pelle e con un mantello rosso che sorregge con la mano sinistra una tavola sulla quale è incisa una scritta gotica che dice: E CCE AGNUS DEI E CCE QUITOL il resto è andato perso nei secoli.
Successivamente il sangue venne riposto in un’ampolla di cristallo e dal 1713 l’Ostia è custodita in un ostensorio argento a forma di raggira ed è in ostensione dal 1902  su un monumento marmoreo al centro dell’abside della chiesa barocca del complesso ecclesiastico di San Francesco.
Le reliquie, a distanza di più di dodici secoli, oggi si presentano così: l’Ostia ha la grandezza di un ostia “Magna” ed è leggermente scura ed ha un colorito della carne viva se lo si guarda in trasparenza; secondo analisi istologiche, essa è vera carne e presenta tracce di tessuto cardiaco; inoltre, pare che, ad un esame fatto al microscopio, si rilevano particelle di pane non trasmutate.
Il sangue  coagulato ha un colore terreo con sfumature  giallo-ocra; secondo la scienza esso è sangue appartenente al gruppo sanguineo AB, che pare sia lo stesso “dell’Uomo della Sindone” e del Volto Santo di  Manoppello.
Osservando il Miracolo Eucaristico di Lanciano, che è precedete a quello di Bolsena ed in seguito al quale la Santa Chiesa istituì la ricorrenza religiosa del “Corpus Domini”, ci si rende conto dell’ottimo stato di conservazione, nonostante esso sia stato, per un lunghissimo lasso di tempo, esposto all’azione di agenti atmosferici, fisici, biologici e, nei primi secoli, all’incuria dell’uomo.
Come abbiamo detto una delle caratteristiche attribuite al sacro calice meglio conosciuto come Graal è quella di trasmutare il vino in sangue e l’ostia in carne durante l’eucarestia, come potrebbe essere  documentata dal Miracolo Eucaristico di Lanciano che attesterebbe, così, la presenza o, perlomeno il suo passaggio in  questo luogo.
Tale evento, che come abbiamo detto ebbe ampia eco in tutto il mondo allora conosciuto, poiché Lanciano all’epoca dei fatti era una cittadina molto nota, si potrebbe supporre che tale evento sovrannaturale stia alla base del ciclo graaliano e, addirittura, ne sia l’artefice, poiché esso è precedente alla nascita di tale topos mitopoietico.  
Parlando del Graal a Lanciano, presso il Museo Diocesano, vi è un piatto d’oro, su i cui bordi vi sono incisi delle lettere in una lingua sconosciuta.
Nello stemma comunale di Lanciano vi è raffigurata una lancia dorata che è forse ispirata alla sacra lancia di Longino, reliquia  che, secondo la tradizione, accompagnerebbe il Graal e che sarebbe stata data in dono ai lancianesi da Carlo Martello in ricompensa per l’appoggio offertogli contro i Longobardi teatini.
Come abbiamo accennato a Lanciano vi furono non uno bensì due miracoli eucaristici!
Durante il  XIV  una donna maltrattata, umiliata e tradita dal marito, ebbe come ultima razio quella di ricorrere alla magia per far cessare questo stato di cose!
Così dopo aver preso consiglio presso una fattucchiera la donna andò in chiesa e fingendosi di comunicarsi, rubò un ostia consacrata per poter mettere in atto il suo piano diabolico.
Tornata a casa con la particola la donna e la fattucchiera presero un mattone incandescente e vi buttarono sopra l’ostia che…iniziò a sanguinare. La donna spaventata cerco di pulire ma… fu tutto inutile. Così presa la particola sanguinolenta e il mattone, avvoltili in una tovaglia li seppellì nella stalla.
Il marito alla fine della sua giornata di lavoro come mulattiere, nel momento in cui faceva ritentare gli animali nella stalla, questi si rifiutarono anche dopo che l’uomo li picchiò.
 Dopo vari tentativi anche violenti, gli animali entrarono e una volta entrati questi si inginocchiarono nel punto in cui la donna aveva seppellito l’ostia miracolosa.
 L’uomo incuriosito ed impaurito scavò nel punto dove si erano chinati gli animali e trovò il fagotto, che dopo averlo aperto chiese spiegazioni a sua moglie, la quale, il giorno seguente andò a confessarsi dal priore del convento di Sant’Agostino,che era marchigiano, il quale prese in consegna il sacro involucro e durante la notte fuggì verso Offida, il suo paese d’origine portandosi dietro anche le reliquie che ancora oggi sono conservate lì!

mercoledì 20 giugno 2012

L’enigma dell’abbazia di San Giovanni in Venere, la probabile custode del Graal?

di Nicoletta Travaglini

 E’ notorio che l’Abruzzo, per la sua particolare geomorfologia, ha dato ricetto a Santi, Eremi e Briganti, i quali, nel bene, o nel male, hanno lasciato una loro indelebile impronta, modificandone, di fatto, la morfologia. Per esempio, nel territorio di Fossacesia, in provincia di Chieti, si colloca l’incantevole ed imponente abbazia di San Giovanni in Venere. Essa è stata eretta, sulla sommità di una boscosa collinetta, ricoperta da piante di ulivo come quella millenaria, posta ai piedi dell’abbazia, per ricordarne la fondazione.
L’abbazia di San Giovanni e Santa Maria, venne costruita in posizione predominante e solitaria, a circa un paio di chilometri dal centro abitato,  a picco sul quell’insenatura conosciuto come  “Golfo di Venere”, nelle vicinanze della foce del fiume Sangro, ove essa si specchia sulle morbide e trasparenti acque del  mare Adriatico.
Tradizione vuole che, ovviamente supportata anche da ritrovamenti archeologici, tale luogo sacro si erga sui ruderi di un preesistente tempio pagano dedicato Venere Conciliatrice, culto risalente IV secolo a.C., fatto rimarcato anche nel toponimo Portus Veneris, che indicava un porto posto alla foce del fiume Sangro durante la dominazione bizantina, vicino ad un nucleo abitato chiamato Vico Veneriis lungo  la via Traiana.
Con l’avvento del cristianesimo, questo luogo fu abitato da eremiti e uomini pii, e secondo un antica leggenda pare che alcuni monaci greco-ortodossi, durante la guerra iconoclastica nel VII secolo, emigrarono in maniera massiccia fino a giungere sulle coste di Fossacesia; tra loro vi erano anche i monaci basiliani, gli stessi che fondarono la chiesa di San Longino a Lanciano poi divenuta la chiesa del Miracolo Eucaristico, che presero possesso di quello che restava dell’antico tempio di Venere, facendolo diventare un luogo di culto cristiano dedicato alla Madonna.
Un'altra leggenda sostiene che il primo nucleo di questo luogo di culto fosse costituito da piccolo ricovero per frati benedettini, provvisto di una cappella, fatto innalzare da frate Martino intorno 540 dopo aver fatto abbattere il tempio di Venere, che versava in avanzato stato di abbandono per costruirvi una piccola cappella intitolata a San Giovanni e la Vergine Maria.
Nel 973 il conte di Teate, Trasmondo I, dispose che il monastero ricevesse delle cospicue rendite tali da trasformarlo, così, da un piccolo ricovero in un potente ed opulento monastero.
Anche se questo illuminato conte fece in modo che da una semplice e povera “cella”, essa si trasformasse in un monastero, la sua fondazione e come la sua opulenza vanno attribuiti al conte teatino Trasmondo II che agli inizi dell’anno Mille, dopo sostanziose prebende, rese possibile la formazione di un solida struttura religiosa, economica, autonoma governata da abati. Come segno di gratitudine nei confronti del conte i monaci, alla sua morte, sopravvenuta nel 1025, lo seppellirono nella cripta dove tuttora riposa. 
Se risulta un pochino complicato possedere dati certi sulla sua fondazione e sulla sue prime fasi della sua esistenza, vi sono precisi riferimenti storici relativi alle sue fasi costruttive che vanno dal 973 fino al 1204 circa, dove raggiunse il suo culmine con l’abate Oderisi II il Grande.
I secoli tra il X e l’XI furono molto importanti per la crescita religiosa, culturale ed economica dell’abbazia la quale divenne in breve tempo uno dei più fiorenti luoghi di culto centro-meridionali annoverando tra i suoi possedimenti oltre duecento feudi sparsi in diverse zone d’Italia e fuori dal nostro territorio nazionale come ad esempio in Dalmazia. 
Nel periodo in cui essa stava consolidando il suo potere e la sua fama, nella seconda metà dell’anno Mille circa, il terzo abate Monastico, Oderisio I, appartenete alla famiglia degli Pagliara, ramo secondario dei Conti dei Marsi, i quali a loro volta rappresentavano un ramo cadetto della più gloriosa e prestigiosa famiglia dei Di Sangro, aveva già fatto allestire una fiorente e ricca biblioteca, una ottima scuola retta dai confratelli; fortificò, attraverso fossati, torri e mura la chiesa, costruì ospedali ed officine, ma soprattutto, fondò la cittadina di Rocca San Giovanni, che  divenne, in breve tempo il più fiorente ed opulento possedimento della badia ed oggi nella chiesa madre di Rocca San Giovanni vi sono molte reliquie e volumi che facevano parte del ricco tesoro dell’abbazia di San Giovanni in Venere.
La famiglia di Sangro a cui apparteneva, come abbiamo detto, anche Oderisio I, discendeva direttamente da Carlo Magno e che annoverò nel loro albero genealogico anche Papi e Santi.
Questa potente ed antichissima casata discende dai duchi di Borgogna che a loro volta erano di stirpe carolingia, longobarda e, naturalmente, normanna. Questi nobili, ovviante, furono legati da vincoli strettissi alla Chiesa e in special modo al potente, ricco e stimato ordine Benedettino.
Nel IX secolo essi, vennero in Italia e si stabilirono maggiormente negli Abruzzi, ove riuscirono a conquistare e, quindi, a governare diversi feudi e contee, prendendo il titolo di “Conti dei Marsi”.
I nomi dei conti dei Marsi erano Bernardo, Oderigi, Teodino, Trasmondo che si posso incontrare in molti documenti del XI e del XII secolo.
In un atto notarile del agosto del 981, conservato a Montecassino, Teodino ed i suoi fratelli Rainaldo e Oderisio risultano i conti di Marsia ; si divisero i loro territori nel seguente ordine : Teodino divenne conte di Rieti e Amiterno, Rainaldo conte della Marsia e Oderisio Conte di Valva.
Oderisio diede origine a tre grandi rami: una discendenza si stanziò nella zona del Sangro con la linea Borrello, la più grande, che si diffuse in tutto l’Abruzzo Centrale dando vita a Prezza e a Raiano, alle linee separate di Gentile; un secondo ramo si trasferì in quello che oggi è la provincia di Teramo; conosciuti come i conti di Palearia o Pagliara,, annoveravano tra i membri della loro famiglia Berardo, vescovo di Teramo e Oderisio di Palearia che alla metà del sec. XIII fu nominato dal Re “Giustiziere d’Abruzzo”. Il terzo ramo si stabilì a Valva vicino Sulmona.
Nel 1250 pochi erano i sopravissuti di questa discendenza, così la famiglia d’Ocre vide distrutto il suo antico castello come fu in precedenza per i Barili, i quali insieme ai succitati d’Ocre si rifugiarono all’Aquila. Gli altri rami della famiglia come i Borello e di Sangro si ritirarono in Sicilia.
Trasmondo, vescovo di Valva e Abate di San Clemente a Casauria era figlio di Oderisio conte de’Marsi e fratello di Oderisio abate di Montecassino e di Attone, vescovo di Chieti. L’Abbazia di San Giovanni in Venere annovera due membri di questa famiglia, oltreché la permanenza del Vescovo di Teramo Berardo.  
All’inizio del 1500 essi ottennero il titolo di marchesi, alla fine dello stesso secolo divennero Duchi e pochi anni dopo questo titolo acquisirono, anche, quello di Principi, governando, il loro vastissimo impero in maniera tirannica, dispotica e violenta!
Nel loro albero genealogico, vi sono presenti anche figure di spicco come Oderisio, San Bernardo di Chiaravalle fondatore dei Templari, Santa Rosalia, Innocenzo III, Gregorio III, ideatore e iniziatore della Santa Inquisizione, Paolo IV Carafa,  che contrastò in tutte le maniere l’Ufficio della Santa Inquisizione, Benedetto XIII
Sempre della stessa famiglia dei di Sangro, come si è potuto ampiamente vedere, Oderisio II “il Grande”, portò enorme lustro all’abbazia attraverso mezzo secolo circa di conduzione del luogo sacro, incrementando le opere degli abati precedenti ed iniziando i lavori di ampliamento conferendogli la struttura architettonica attuale e per tali meriti sono ricordati in un epigrafe posta sulla facciata principale della badia.
  Durante il dominio normanno, essa fu coinvolta in giochi politici poco chiari che la portarono, suo malgrado,  a subire diversi saccheggi. Da qui inizia un periodo di inesorabile e lenta decadenza fatta anche di devastazioni e violenze come quella perpetrata dai Veneziani nella prima metà del 1200, poi da parte degli avventurieri di Ugone Orsini, quindi fu la volta dei di Carrara; i corsari di Pialy Pascià, che rasero al suolo Santo Stefano Riva Maris ed altri luoghi sacri si accanirono anche contro San Giovanni in Venere, come non fu risparmiata neanche da un orda di briganti che nel 1600 infestavano quei luoghi.
Anche Madre Natura volle lasciare tangibili segni del suo passaggio attraverso un terribile sisma che 1456 provocò gravi danni all’abbazia già provata da un periodo non molto florido, cosa che si ripete nel 1627 con un altro terremoto che squassò l’Italia centro-meridionale; ed infine la piccola nobiltà locale fece razzia dei suoi beni. In piena decadenza, intorno alla fine del 1500, passò nelle mani della confraternita di San Filippo Neri. Allo stato di ulteriore deterioramento, verso la fine del ‘700, passo nelle mani del regio demanio. Distrutta ulteriormente durante la Seconda Guerra Mondiale fu ristrutturata dalle amorevoli cure dei Padri Passionisti attuali custodi di questo immenso bene.
Questa badia  ha visto passare re e papi come Pietro da Morrone, futuro Celestino V che, secondo alcune fonti,  prese i voti in questo luogo, per poi tornarvi, al fine di cercare proventi durante la costruzione della chiesa di Santa Maria di Collemaggio. Accanto a queste supposizioni vi sono fonti che attestano che Pietro Angelerio, dopo aver iniziato i lavori della costruzione del luogo di culto, e senza aver acquistato il terreno circostante, parte alla volta dell’abbazia di San Giovanni in Venere e dopo alcuni anni egli torna con il danaro sufficiente a poter compare il terreno dove oggi sorge la basilica di Collemaggio! Secondo alcuni, Pietro da Morrone per comprarsi questi terreni, abbia chiesto sovvenzioni, forse alla potente abbazia di San Giovanni in Venere, in cambio di qualcosa di prezioso che potrebbe essere il Santo Graal, in quanto egli, incontrando i templari in Francia, pare che questi gli abbiano dato qualcosa di prezioso da custodire, e se egli non aveva denaro per comperare i terreni della futura abbazia, costruita dopo il suo ritorno dal viaggio succitato, per poter essere finanziato aveva bisogno di dare in garanzia qualcosa ai suoi finanziatori!
  Durante il periodo del suo soggiorno a Fossacesia, nominò cardinale il suo vice Tommaso di Ocre, che nel giro di poco tempo, divenne, per volere del successore di Celestino V, Bonifacio VIII, il primo abate Commentario della badia di San Giovanni in Venere ed ebbe il compito di occuparsi delle esequie del Papa Celestino V.
Ma che cos’è il Graal?
In origine, secondo alcune versioni, il Graal, era la pietra, uno smeraldo, più preziosa e lucente del diadema di Lucifero, l’Angelo più bello del Creato. Esso cadde sulla Terra quando questi ingaggio battaglia con gli Angeli e fu raccolto dagli uomini che lo usarono per fini non sempre nobili.
Altre versioni sostengono che quando Seth, il figlio di Adamo ed Eva, cercò di salvare suo padre da una letale malattia, tornando nell’Eden, egli non trovò nessuna cura specifica per lui, ma una cura per tutti i mali del mondo, insieme a una promessa che Dio non avrebbe mai abbandonato il genere umano e pare che questo fosse il Graal.
Questo sacro oggetto smette di essere qualcosa di metafisico per entrare nella realtà percepibile, quando Giuseppe D’Arimatea, un ricco ebreo forse parente di Gesù, raccoglie il Sangue del Cristo proprio nella coppa che poi verrà definita Santo Graal.
Dopo la crocifissione, il corpo di Gesù , fu dato in consegna a Giuseppe D’Arimtea e gli fu dato anche la coppa dell’Ultima Cena, con la quale il maestro celebrò questo rito. L’ebreo lavò il Corpo del Defunto, ma mentre faceva questo dalle ferite uscì del sangue che Giuseppe raccolse nella coppa, quindi il Corpo fu avvolto in un sudario e fu messo nel sepolcro, ove dopo tre giorni Resuscitò.
Dopo la Resurrezione Giuseppe fu imprigionate dai romani con l’accusa di sottrazione di cadavere e privato del cibo, fu lasciato languire in un umida cella, dove un giorno gli apparve Gesù risorto ammantato di luce che gli consegnò la coppa rivelandone, anche le virtù della medesima; Giuseppe fu tenuto in vita grazie a una colomba che portava tutti i giorni un’ostia nella coppa.
Era il 70 d. C. quando Giuseppe D’Arimatea fu scarcerato, insieme a sua sorella e a suo cognato Bros. Questi scelsero, per causa di forza maggiore, l’esilio e partirono su una nave che li portò oltreoceano , verso un’isola sconosciuta dove, perpetrarono le loro tradizioni. Qui costruirono una tavola come quella usata per l’Ultima Cena dove presero posto dodici commensali, mentre il tredicesimo fu lasciato vuoto, perché era quello che avrebbe dovuto essere occupato da Gesù o da Guida. Se questa sedia veniva inavvertitamente occupata essa eliminava all’istante il commensale, per questo esso ebbe il nome di “Seggio Periglioso” e la tavola fu chiamata “Prima Tavola del Graal”.
Passarono alcuni anni in questa terra sconosciuta e Giuseppe sentì il bisogno e  la voglia di andare via e durante uno dei suoi tanti peregrinaggi per le vie del mondo, si fermò in Bretagna precisamente a Glastonbury, dove fondò la prima comunità cristiana che doveva soppiantare l’antica religione dei Druidi. Il primo tempio cristiano, qui fondato fu dedicato alla Madonna o, secondo alcune versioni  a Maria Maddalena e in questo luogo che rimase il Graal che veniva utilizzato durante la funzione religiosa.
Alla morte di Giuseppe il Graal fu custodito da suo cognato che grazie alla coppa riuscì a sfamare tutti i suoi seguaci. Dopo Bron il Graal passò nelle mani di un nuovo custode che conservò la sacra reliquia in un castello sulla Montagna della Salvezza di cui ignoriamo l’ubicazione. Nacque in quegli anni anche un ordine cavalleresco che, venne denominato come l’Ordine  dei Cavalieri del Graal, con il compito di proteggere questa coppa; essi si nutrivano delle ostie che la reliquia dispensava e il loro capo e custode  del divino recipiente ricopriva la carica di Re Sacerdote.
Uno di questi custodi fu ferito, secondo alcune versioni, dalla lancia di Longino e divenne sterile come la terra nella quale era ubicato il castello che custodiva la divina coppa.
Molti hanno visto un parallelo tra il Re Ferito, come venne denominato da allora in poi il custode del Graal, e la figura di San Rocco che in molte immagini viene raffigurato con una ferita alla  gamba.
Il Re Ferito trovava sollievo solo pescando e così fu definito anche come Re Pescatore ed egli sarebbe stato salvato da una domanda ben precisa fatta da un cavaliere puro di cuore; da qui che inizia la saga di Re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda di cui parleremo in seguito.
Tornando alla lancia di  Longino, essa è l’arma con cui il centurione romano trafisse il costato di Gesù crocifisso, pare che  avesse, come il Graal, delle doti magiche molto forti, perciò fu custodita insieme ad altre reliquie come: ad una spada e al piatto che resse la testa di Giovanni Battista, all’interno del castello del  Monte della Salvezza.
Questi quattro oggetti magici hanno influenzato la nostra cultura italiano poiché sono riprodotti nei semi delle carte da gioco.
Questa tradizione degli oggetti magici ha radici molto antiche e profonde presenti in culture millenarie come quelle asiatiche nelle quali si raccontano leggende secondo cui degli angeli sarebbero scesi dal cielo e si sarebbero stabiliti nel deserto dove avrebbero rivelato agli uomini la loro cultura superiore.
Prima di scomparire per sempre questi dei avrebbero lasciato quattro potentissimi talismani in grado di conferire poteri simili ai loro dei: una pietra, una spada, un calderone e una lancia.  Questi oggetti  sono presenti in quasi tutte le tradizioni. La pietra, ad esempio, potrebbe essere quella nera della Ka’ba, la spada potrebbe essere quella nella roccia, la coppa il Graal e la lancia forse quella di Longino. 
Alla morte di Erode, Israele, fu divisa in un mosaico di staterelli, che solo nel 6 d. C. divennero Provincia romana, con tutti gli onori e oneri che ciò comportava.
Gli ebrei insofferenti all’allora stato di cose, insorsero, dapprima con piccole sommosse culminati, poi, in vere e proprie rivolte. Mentre la Galilea bruciava, Roma, inviò un poderoso esercito per domare questi fuochi atti a spezzare il giogo degli invasori; paese dopo paese, città dopo città la zona settentrionale della Galilea si arrese e l’esercito giunse fino alle mura di Gerusalemme dove, forse corrotto dagli insorti,  esso si fermò. Nonostante  queste vittorie, gli ebrei continuarono a lottare e così nel 66 d. C. il generale Vespasiano, futuro imperatore, fu incaricato di riportare la pace nella provincia. Era il 68 quando le truppe del futuro imperatore si fermarono a causa della morte dell’imperatore  Nerone e tornarono a Roma. Nei diciotto mesi di tregua, gli ebrei non riuscirono a riorganizzare una resistenza duratura e così mentre Vespasiano fu incoronato imperatore suo figlio Tito partiva alla volta di Gerusalemme per riconquistarla.
L’assedio fu lungo e sanguinoso ma alla fine i romani ebbero ragione degli assediati e così entrarono trionfalmente in città dove si abbandonarono a ogni genere di violenza. Molti furono crocifissi sulle mura della città, le strade pullulavano di cadaveri appesi alle croci, il tempio fu profanato, derubato bruciato e infine raso al suolo, sulla cui terra fu buttato il sale.
Alcuni gruppi di persone appartenenti alla casta degli Zeloti si arroccarono nell’antica fortezza di Masada, essi resistettero per lungo tempo, finché, come narra una leggenda, una ragazza si innamorò di un soldato; essa, per amore, rivelò all’uomo dove erano i pozzi che alimentavano la città, i romani, allora, chiusero i pozzi e gli assediati furono costretti a arrendersi, ma per non subire l’onta della sconfitta si uccisero  tutti. I romani penetrarono nella cittadella e trovarono solo tanti cadaveri sparsi per la città.
Dopo aver domato la rivolta Tito fece erigere delle mura intorno al monte Golgotha e vi mise della terra intorno, quindi, lo fece spianare fino a trasformarlo in un pianoro, che conteneva al suo interno il Sepolcro con le spoglie mortali del Cristo. Non contento di ciò proibì il culto del cristianesimo e gli ebrei furono costretti a disperdersi per i quattro angoli del mondo.
Furono anni difficile per i cristiani e le loro tradizioni, queste infatti, furono affidate a sette segrete con a capo un vescovo di nome Marco.
Con l’avvento di Costantino sul trono, le cose cambiarono radicalmente; i cristiani uscirono dalla clandestinità e quando nel 314 divenne signore anche delle terre d’oriente, lui e sua madre Elena, rimasero affascinate dalle leggende che aleggiavano intorno al Santo Sepolcro. Così in breve tempo si iniziarono gli scavi per riportare alla luce questi tesori; si narra, che durante questi lavori, Elena avesse trovato un oggetto, forse una coppa, dove si raccolse il Sangue di Gesù.
A questo punto la storia del Graal si fa sempre più confusa e lacunosa; secondo alcune fonti esso finì in Bretannia, dopo che Roma fu depredata dai Visigoti nel 400 d. C. e pare che questa reliquia giaccia in fondo a un pozzo a pochi passi  dalla presunta tomba di un nobile cavaliere, forse re Artù.
Altre testimonianza parlano di un imperatore bizantino che nel I secolo d. C., dopo aver sottratto ai persiani alcune reliquie, forse anche il Santo Calice, esse siano state portate a Costantinopoli.
Alcune leggende affermano che a Costantinopoli vi fossero confluite tantissime reliquie sacre tra cui la Sindone, i Chiodi con cui Gesù fu crocifisso, alcune spine della Corona, di cui una oggi è a Vasto e naturalmente il Graal, che pare contenesse  la Sindone medesima.
Sembra che questi due oggetti abbiano seguito lo stesso cammino, ma queste sono solo supposizione; comunque il Santo Sudario, nel 1204, durante il sacco di Costantinopoli, da parte dei Templari, era qui e fu portata poi a Lirey in Francia e da qui a Torino.
Come abbiamo potuto vedere questa eterna ricerca forse di una chimera chiama in causa un ordine cavalleresco fatto da monaci guerrieri i Templari, appunto, che come sappiamo erano i difensori del Santo Sepolcro e dei luoghi sacri alla Cristianità e per far questo intentarono una guerra che chiamiate le Crociate. Alcune fonti sostengono che all’apice del suo splendore e durante l’era del abate Oderiso II il grande, essa fu in grado di finanziare addirittura la quarta Crociata, voluta da Papa Innocenzo III nel 1198, secondo tali fonti, questi uomini, dimenticando l’abito che indossavano e la loro missione, si abbandonarono ai più efferati atti di violenza, come si può leggere in una invettiva scritta da un monaco della chiesa di Santo Steafano Riva Maris, che racconta di come le milizie di Enrico di Svevia accampati tra le  foci del Sangro e quelle del Trigno, si diedero ai peggiori saccheggi, brutalità e violenze, risparmiando, però, l’abbazia di San Giovanni in Venere.
Questa chiesa fortificata romanica con forti influenze borgognone e di chiara impostazione cassinese, è a pianta rettangolare divisa in tre navate aventi lo stesso numero absidi su cui spicca il presbiterio che si ubica in posizione dominante rispetto al resto dell’edificio, in quanto sotto di essa si posiziona la cripta nella quale vi sono colonne e capitelli provenienti dal antico tempio pagano su cui poi venne edificato l’attuale chiesa. Nella cripta risaltano cinque meravigliosi affreschi raffiguranti di epoche diverse di cui il più antico posizionato sull’abside centrale.
Questi pregevoli e policromi affreschi rappresentano il Cristo sorretta da due angeli nell’atto di benedire con una mano mentre con l’altra sorregge un Vangelo. In un altro dipinto posto sul lato sinistro della finestra si può ammirare il Battista insieme a San Benedetto e vicino a questi beati vi è raffigurato un monaco inginocchiato che rappresenterebbe, secondo alcune fonti, il committente dell’opera. Un altro prezioso  affresco, posizionato sulla destra dell’abside, rappresenta la Vergine in trono con il Bambino ai cui lati spiccano le figure dell’Arcangelo Gabriele, come si legge dall’iscrizione posta sul suo capo,  e San Nicola di Bari. Ai lati delle absidi si possono ammirare l’immagine di Cristo in trono posta tra San Vito e San Filippo, in un altro dipinto sempre il Cristo in trono appare posizionato tra il Battista, l’Evangelista ed i santi Pietro e Paolo.
Le tre navate della chiesa sono costituite da archi a sesto acuto e dall’ interno delle chiesa tramite una porticina sormontata da una lunetta nella quale si può vedere un fregio raffigurante una svastica,simbolo di prosperità e pace, si accede al chiostro. Edificato da Oderisio II venne seriamente danneggiata dal sisma del 1456; questo luogo di silenzio e meditazione è ornato da decine e decine di trifore e capitelli; lungo i percorsi vi sono reperti archeologici provenienti da siti limitrofi come anche il sarcofago ospitato sotto l’arcata del campanile.
La facciata esterna che prima del violento sisma che del 1456, era costruita in pietra e in candido marmo, fu restaurata con mattoni nella parte lesionata. Questo ingresso conosciuto come portale della luna, così chiamato per la sua foggia ad arco, realizzato da Giacomo del Vasto per commissione dell’Abate  Rainaldo intorno ai primo trentennio del 1200. Sulla lunetta si possono ammirare il Cristo nell’atto di benedire, mentre ai suoi lati si posizionano la Madonna implorante ed il Battista con la testa rivolta verso il basso. Nella parte sottostante vi sono le figure di San Benedetto e del monaco committente o per lo meno di ciò che ne rimane. Sulla stele posizionata a destra del portale vi sono chiari riferimenti alla sua origine pagana con una decorazione che rimanda al culto di Venere in cui si vedono due amorini scoccare frecce contro una colomba, animale consacrato alla dea.
Spostandoci più giù sono rappresentate una serie di episodi biblici riferiti al Battista ed infine un enigmatico fregio che racconta la storia di Daniele nella fossa dei leoni mentre viene nutrito dal profeta Abacuc sorretto da un angelo.
Nella stele di sinistra in alto si possono vedere dei pavoni che si dissetano in una coppa, chiaro riferimento ad elementi pagani, poiché questi animali erano consacrati a Giunone. Scorrendo questa colonna, si possono notare scene della vita del Battista e l’annunciazione, in basso si vedono scene di caccia tra uomini ed animali fantastici, forniti di code di serpenti.

giovedì 10 maggio 2012

IL GRANDE LIBRO DEI MISTERI




Dalla mitica Atlantide al calendario Maya: i più sconvolgenti e dibattuti enigmi della storia umana in attesa di una soddisfacente soluzione.


I megaliti di Stonehenge, la Piramide di Giza, le linee di Nazca: che cosa volevano dirci gli antichi?

Rennes le Chateau e la Cappella Rosslyn: i Templari e il Santo Graal.

Da Tunguska agli odierni avvistamenti Ufo: misteriosi segnali dal cielo.

Fantasmi, telepatia, medianità ed esperienze di pre morte: la scienza si interroga sul paranormale.

Un viaggio lungo un sentiero nel quale si muovono non soltanto le teorie di confine ma anche le ipotesi scientifiche, in un serrato confronto dal quale si auspica possano un giorno nascere risposte certe. Un libro affascinante che permette al lettore di immergersi in una realtà parallela ma non per questo del tutto irreale, alla scoperta di luoghi, fatti, personaggi e storie spesso difficilmente reperibili nella letteratura del mistero.

IL GRANDE LIBRO DEI MISTERI
Roberto La Paglia
Prefazione di Paola Giovetti
Edizioni Xenia

martedì 8 maggio 2012

Il Cavaliere Vermiglio

di Vito Foschi

La scelta del colore vermiglio per le armi di Perceval sembra non causale, data la ricchezza simbolica del colore rosso “Ogni elemento ha un suo colore: la terra è azzurra, l’acqua è verde, l’aria gialla, il fuoco rosso; poi vi sono altri colori casuali e commisti, appena riconoscibili. Ma tu bada con cura al colore elementare che predomina, e giudica secondo quello” Paracelso Introduzione In questo articolo ci proponiamo di offrire un’interpretazione simbolica di uno dei primi episodi del Perceval di Chrétien de Troyes, in cui il giovane eroe uccide il Cavaliere Vermiglio e ne prende le armi assumendone il nome. Il racconto Perceval abbandonata la Guasta Foresta dove ha vissuto la sua infanzia si dirige verso la corte di Re Artù con l’intento di diventare cavaliere. Arrivato alla corte di Re Artù ne vede venire fuori il Cavaliere Vermiglio con in mano una coppa d’oro rubata al re. Il cavaliere cerca di parlare a Perceval, ma questi inebriato dell’idea di diventare cavaliere non lo ascolta e procede nel castello presentandosi nella sala del banchetto in sella al cavallo. Non ha ancora imparato le regole minime del vivere civile. Qui chiede brutalmente di essere fatto cavaliere e Keu, il siniscalco, lo apostrofa dicendogli che se vuole le armi le andasse a chiedere al Cavaliere Vermiglio. Lo sciocco mette in atto la folle idea e si reca dal cavaliere con cui ha una colluttazione, non un vero e proprio duello, e lo ammazza con un giavellotto. Ne indossa le armi e per il resto del racconto di Chrétien, sarà il Cavaliere Vermiglio. La regalità Il colore Vermiglio non è casuale, il rosso o meglio il colore porpora, è sempre stato legato alla dignità regale e ne è simbolo. Non a caso i cardinali indossano una tunica di colore rosso, che non solo ricorda il sangue dei martiri della chiesa, ma anche la loro regalità, tant’è vero che vengono chiamati principi della chiesa. In passato lo stesso Papa indossava abiti di colore rosso, poi abbandonati per il bianco a cominciare da Papa San Pio V, che provenendo dall’ordine domenicano volle indossare la bianca divisa dell’ordine anche da papa, uso poi conservato dai suoi successori. Il Cavaliere Vermiglio che si allontana dalla corte di Re Artù ha in mano un coppa d’oro altro elemento che rimanda alla regalità: l’oro è altro simbolo di re. La coppa ha un suo simbolismo politico perché era uso nell’antica Grecia nel rituale del simposio bere per sigillare gli accordi, usanza presente anche nelle popolazioni germaniche che invasero l’Impero Romano. Il cavaliere ha rubato la coppa al re rovesciandone il contenuto addosso alla regina rivendicando delle terre e sfidando il re a difendere il suo diritto. Il Cavaliere Vermiglio ha la figura dell’usurpatore e rivendica una regalità sfidando Re Artù. Perceval lo sfida e lo uccide assumendone l’identità. Perceval non conosce le regole della cavalleria e ammazza il Cavaliere Vermiglio con un giavellotto in maniera non proprio canonica per un cavaliere. È ancora il ragazzo impetuoso totalmente ignorante delle regole comunitarie. Il fatto di riuscire comunque ad ammazzare il cavaliere in un certo qual modo ne individua una sorta di predestinazione a quel ruolo. Perceval vendica l’affronto fatto al re e indossa le armi dell’usurpatore legittimamente: ha ancora molte cose da imparare, ma da questo punto del racconto in poi sarà l’unico Cavaliere Vermiglio. Perceval tramite un cavaliere della corte restituisce la coppa d’oro al re, ovvero, simbolicamente, restituisce la regalità ad Artù ripristinando l’ordine delle cose. Proseguendo il suo itinerare incontra un gentiluomo che indossa una “veste porporina” e che “per contegno teneva in mano una bacchetta” e con accanto due valletti. Dalla descrizione capiamo che ci troviamo di fronte ad una persona di alto lignaggio. La bacchetta sta a posto dello scettro, altro simbolo regale che qui troviamo associata alla veste porpora ad ulteriore testimonianza del significato regale del colore rosso. Dal gentiluomo, Gorneman di Gorhaut, Perceval riceve gli insegnamenti della cavalleria e della cortesia ed infine viene investito cavaliere con la cerimonia dello sperone. Il simbolismo del colore rosso Il rosso è il colore per eccellenza e si oppone sia al bianco che al nero che sono considerati nella loro accezione di luce e tenebra e con cui ha formato una triade simbolica nel medioevo. Il simbolo del colore rosso come tutti i simboli ha valenze sia positive che negative. Da un lato il rosso è il colore dell’amore, sia terreno che spirituale, basti pensare al Sacro Cuore di Gesù, della passione, dell’attività, delle emozioni, del sentimento, dell’espansività, della vivacità, del sangue inteso come vita, dall’altro è il colore dell’ira, della violenza, dell’aggressività, dello spargimento di sangue. Nelle avventure di Perceval si hanno tutti questi aspetti, però con un preciso ordine che va dal negativo al positivo. All’inizio il giovane è impetuoso, coraggioso non conosce le regole né della cavalleria né della cortesia o comunque del vivere civile e quindi possiede i caratteri negativi del colore rosso. Uccide il Cavaliere Vermiglio in modo, come già detto, non ortodossa. Quando, invece, ha appreso le regole della cavalleria da Gorneman i suoi duelli saranno meno cruenti, e spesso risparmierà la vita degli sconfitti e soprattutto i duelli avranno lo scopo di sanare le ingiustizie. Lo spargimento di sangue si è trasformato nel sangue della vita. Il rosso è il colore dell’amore e Perceval dimostra di possederlo sia nell’amore filiale che lo lega alla madre, nonostante l’avventatezza della sua partenza quando vedendola cadere non la soccorre e va via, sia come amante appassionato della bella Biancofiore che libera dai suoi nemici riportando la pace nel regno. Anche in questa occasione si evidenzia la funzione di ripristinare l’ordine, tipica dell’eroe. Verso la fine del racconto Perceval incontra lo zio Eremita che lo inizia alla cavalleria celeste e qui l’eroe subisce un’ulteriore evoluzione e l’amore terreno che ha provato per Biancofiore si sublima nell’Amore celeste per Dio. Anche qui il simbolismo del colore rosso subisce un’evoluzione dagli aspetti più terreni a quelli più spirituali: dal rosso dell’amore terreno al rosso dell’Amore divino. La guerra Altri significati che assume il colore rosso sono quelli legati al fatto di essere il colore del fuoco e quindi può rappresentare il fuoco, il calore, l’energia e la luce. E visto che durante la luce del giorno si svolge l’azione umana va a rappresentare anche l’azione in genere. Il bianco è il colore che rappresenta per eccellenza la luce, ma non va a simboleggiare l’azione, perché legato all’idea della luce naturale del sole non controllata dall’uomo, al contrario della luce del fuoco che quindi meglio rappresenta la volontà dell’uomo ad agire. È curioso notare che nell’immagine del Sacro Cuore di Gesù ritroviamo i simboli dei raggi per suggerire la luce e le fiamme per suggerire il calore, significati del colore rosso con cui è colorato il cuore. Il colore rosso simboleggia l’azione dell’attacco e della conquista ed è complementare al verde che rappresenta il colore della conservazione e della difesa. Perceval oltre ad avere funzione regale ha anche una funzione di conquista o meglio di riconquistare uno stato edenico per il regno di Artù. L’affronto del Cavaliere Vermiglio originario nei confronti di re Artù va inteso nel senso di un indebolimento dell’autorità, ben diversa dal potere, del re, situazione che Perceval deve sanare. Il dio Marte La simbologia del rosso nel suo aspetto negativo, come già detto, è legata alla violenza e allo spargimento di sangue legandola al mito di Marte, il dio della guerra. La scelta di identificare il pianeta Marte con l’omonimo dio è dettato dal colore prevalente del pianeta che è il rosso dovuto agli ossidi di ferro prevalenti sulla sua superficie. Un altro motivo che lega il rosso alla guerra è il rosso fuoco del metallo nella fornace. Un simbolo del dio Marte è il giavellotto, arma usata da Perceval nella sua infanzia nella Guasta Foresta per cacciare e poi utilizzata per uccidere il Cavaliere Vermiglio di cui assume nome e funzioni. In questa ottica Perceval può essere considerato un eroe solare con le funzioni tipiche dell’eroe di sanare le ingiustizie instaurando una nuova era di pace, come meglio spiegato nel nostro lavoro “Perceval re sacerdote”. Simbolismo alchemico e conclusioni Un breve cenno lo dedichiamo al simbolismo alchemico. Il colore rosso oltre a costituire una delle fasi del processo alchemico, la rubedo, rappresenta lo zolfo, e insieme al colore bianco, che simboleggia il mercurio, forma una coppia di opposti la cui unione viene denominata nozze alchemiche. Perceval, il Cavaliere Vermiglio, si unisce a Biancofiore: rosso e bianco, i due opposti che si uniscono. Il testo di Chrétien de Troyes nella sua apparente linearità, presenta in realtà una ricca e variegata simbologia che svelata apre scenari complessi ed inediti.