tratto da "il Giornale" di Sab, 16/09/2017
di Claudio Risé
Il senso più profondo e nascosto degli antichi riti iniziatici è l'avvicinamento della dimensione umana a quella divina
Educare non significa trasmettere meccanicamente ai giovani nozioni e discorsi, come fanno i sedicenti filosofi. Nell'educazione è necessario invece risvegliare in loro una vista interiore, un occhio spirituale, attraverso un'autentica conversione psicologica.
A sostenerlo è Socrate, quando illustra il suo famoso mito della caverna, ne La Repubblica di Platone. Davide Susanetti, giovane e generosamente impegnato professore di letteratura greca all'Università di Padova, riporta ampiamente la testimonianza socratica, illustrando la funzione dei misteri e riti iniziatici dell'antica Grecia nel suo ultimo lavoro: La via degli dei. Sapienza greca, misteri antichi e percorsi di iniziazione (Carocci, pagg. 264, euro 24). Un libro che unisce una scrittura catturante all'attenzione per l'aspetto pratico e psicodinamico delle questioni trattate, decisive anche oggi nella vita quotidiana dell'uomo.
Distogliere - come insegna a fare Socrate - lo sguardo dall'attenzione ipnotica per movimenti di fantasmi inconsistenti, illuminati dai nascosti poteri che in continuazione li muovono, e scoprire invece la realtà, è una vera e propria «tecnica della conversione» che ci consente di vedere ciò che è, ma è rimasto per noi finora nell'oscurità, dietro le nostre spalle. Apprenderla fa parte di quelle «tecnologie del sé» con le quali Michel Foucault verso la fine del secolo scorso aveva conquistato la Sorbona.
A questo svelamento delle verità profonde dell'esistenza erano appunto dedicati i misteri, riti iniziatici volti nella Grecia classica a formare i giovani prescelti preparandoli alla guida della città, la polis, attraverso la conoscenza e la trasformazione di sé. Un'operazione che sarebbe indispensabile anche oggi, come nell'Atene classica, per educare un'autentica élite dirigente. Che viene invece a mancare quando questa formazione, estremamente seria nella sua apparente stravaganza (come del resto appariva Socrate), viene abbandonata per inseguire le vanità, le paure e le cupidigie più basse, sostituite alla familiarità con i saperi elevati, di cui ci parlano appunto gli dei nei loro misteri.
Certo, gli dei non raccontano storielle leggere. Anche perché l'obiettivo dei riti iniziatici è proprio quello di farci diventare come loro, gli dei. Di aiutarci a riconoscere la nostra parte divina. Per questo è necessario fare nei misteri esperienza della realtà profonda, uscendo da quella vita umana, convenzionale ma in fondo irreale, nella quale rimane la grande maggioranza delle persone. I misteri, fin dagli antichi maestri Orfeo e Pitagora, furono il modo di trasmettere agli iniziati accuratamente selezionati il sapere esoterico sottostante alla civiltà greca, e le sue segrete regole e discipline. Un controcanto sotterraneo alla rappresentazione della religione olimpica ufficiale e alle istituzioni greche (fondative dell'Occidente), che in questo modo le ha comunque profondamente impregnate con le proprie immagini e rappresentazioni.
Il tratto comune ai misteri è quello che riguarda la morte, in essi sempre presente e invece non particolarmente approfondita nella religione olimpica, dove i morti erano spettri, ombre senza direzione, «teste senza forza» come in Omero. Nella rappresentazione misterica la morte è invece un evento centrale: lo stesso iniziato partecipandovi abbandona, «muore» al precedente stato di coscienza e di vita per rinascere con un'altra visione del mondo. Ma soprattutto grazie a questo terribile percorso, «non morrà». «Per gli iniziati, e solo per loro, vi è vita dopo la morte», spiega Susanetti. Come racconta l'iscrizione su un'orfica laminetta aurea: «O felice, o beato, sarai un dio anziché un mortale». «Ed io, come un capretto, mi tuffai nel latte». La morte fisica non è dunque per l'iniziato un passaggio al «regno delle ombre», ma l'ingresso in una condizione luminosa e serena. Sugli iniziati di Eleusi splende «la sacra luce del sole». E quelli che hanno partecipato al mistero diffuso nelle terre a nord ovest della Britannia, raccontato da Plutarco ne Il volto della luna (Adelphi) e qui riportato, entreranno dopo morti nel «prato di Ade... la zona più mite e serena dell'aria, dove le anime tornano a respirare e si purificano da ogni vapore e da ogni malsana esalazione della materia».
La purificazione e respirazione dello Spirito è appunto lo scopo dei misteri iniziatici greci, le prime forme di quel processo di trasformazione psicologica e spirituale che da Pitagora e dai suoi discepoli attraversa gran parte della visione del mondo classico, per arrivare al pensiero stoico greco e romano. E compare poi tra le sue ultime forme, con non molte variazioni, nel «processo di individuazione» proposto nel secolo scorso da Carl Gustav Jung con la sua psicologia analitica. Un percorso, quest'ultimo, che, pur senza entrare nelle credenze religiose, incontra spesso nel lavoro con l'analizzando l'altro grande mistero di morte e di rinascita che nei due millenni trascorsi ha conquistato nel mondo le anime di molti uomini. Quello che racconta della nascita, vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo. In analisi l'incontro con questo mistero avviene spesso sincronicamente al transito dai territori psicologici dell'Anima, terra di mezzo tra psiche e spirito, a quelli già vicini al Sé, spesso espressione dell'immagine divina.
«Un rito - dice Susanetti parlando dei misteri greci - che conduce alla vita portando la vita al di là di se stessa». In tutte queste esperienze spirituali, fisiche e psicologiche, è infatti descritto un andare al di là, un oltrepassare soglie di coscienza comuni, che consente di costituirne di nuove, dando spazio agli aspetti superiori della vita umana attraverso un nuovo, completo rapporto con la realtà. Che nelle drammatiche esperienze misteriche viene vista e attraversata integralmente, non più solo parzialmente nei suoi aspetti convenzionali e a-problematici, ma nella sua tragica interezza. Così, nei misteri di Eleusi, mentre la tenera vergine Persefone, figlia della potente Demetra, Dea madre della terra, gioca con le amiche raccogliendo narcisi sul prato primaverile, la terra si apre davanti a lei e ne esce con un tuono il carro di Ade, il dio del sottosuolo, degli inferi, della morte e del passato, trasportandola sotto terra, per farne la sua sposa. Demetra, disperata, minaccia di interrompere i cicli della terra e delle messi, e solo la mostra dei genitali di una vecchia donna, Baubo, riuscirà a farla tornare a ridere. Aprendo così la strada al difficile accordo che lascerà Persefone per sei mesi sulla terra e tre nel sottosuolo, come sposa di Ade.
Con contenuti diversi, gli altri Misteri, quelli orfici e dionisiaci, sono tutti però diretti a unificare gli opposti, alto e basso, femminile e maschile, vita e morte, umano e animale, nobile e osceno, intero e frammentato, integrandone le rispettive energie in una nuova sintesi, più realistica e dunque anche più autenticamente spirituale. Riti e percorsi di formazione e rinascita della persona e del mondo in cui si trova che interpellano insistentemente anche il mondo di oggi.
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sabato 23 settembre 2017
Così i misteri greci hanno sfidato (e sconfitto) la morte
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venerdì 28 agosto 2015
ESAME DEI VERSI D’ORO DI PITAGORA*
In collaborazione con la rivista Lettera E Spirito:
https://letteraespirito.wordpress.com/esame-dei-versi-doro-di-pitagora/
Antoine Fabre d’Olivet
(12) E quanto ai mali che comporta il Destino
Giudicali per quel che sono; sopportali; e cerca,
Per quanto lo potrai, di mitigarne i tratti.
Gli dei non hanno abbandonato i saggi ai più crudeli.
Ho detto che Pitagora ammetteva due agenti delle azioni umane, la potenza della Volontà e la necessità del Destino, e che li sottometteva l’uno e l’altro a una legge fondamentale chiamata la Provvidenza, dalla quale emanavano ugualmente. Il primo di questi agenti era libero, e il secondo costretto: di modo che l’uomo si trovava posto entro due nature opposte, ma non contrarie, indifferentemente buone o malvage, secondo l’uso che sapeva farne. La potenza della volontà s’esercitava sulle cose da fare o sull’avvenire; la necessità del destino, sulle cose fatte o sul passato: e l’una alimentava senza posa l’altra, lavorando sui materiale che si forniscono reciprocamente: giacché, secondo quest’ammirabile filosofo, è dal passato che nasce l’avvenire, dall’avvenire che si forma il passato, e dalla riunione dell’uno e dell’altro che si genera il presente sempre esistente, dal quale traggono ugualmente la loro origine: idea molto profonda, che gli stoici avevano adottata [1]. Così, secondo questa dottrina, la libertà regna nell’avvenire, la necessità nel passato, e la provvidenza sul presente. Niente di quel che esiste capita per caso, ma per l’unione della legge fondamentale e provvidenziale con la volontà umana che la segue o la trasgredisce, operando sulla necessità [2]. L’accordo della volontà e della provvidenza costituisce il Bene; il Male nasce dalla loro opposizione. L’uomo ha ricevuto, per condursi nel cammino che deve percorrere sulla terra, tre forze appropriate a ciascuna delle tre modificazioni del suo essere, e tutte tre concatenate alla sua volontà. La prima, legata al corpo, è l’istinto; la seconda, dedicata all’anima, è la virtù; la terza, appartenente all’intelligenza, è la scienza o la saggezza. Queste tre forze, indifferenti in se stesse, non prendono questo nome che per il buon uso che ne fa la volontà; giacché, nel cattivo uso, esse degenerano in abbruttimento, in vizio e in ignoranza. L’istinto percepisce il bene o il male fisico risultante dalla sensazione; la virtù conosce il bene e il male morali esistenti nel sentimento; la scienza giudica il bene o il male intelligibili che nascono dall’assentimento. Nella sensazione, il bene e il male si chiamano piacere o dolore; nel sentimento, amore o odio; nell’assentimento, verità o errore. La sensazione, il sentimento e l’assentimento, risiedendo nel corpo, nell’anima e nello spirito, formano un ternario che, sviluppandosi a favore di un’unità relativa, costituisce il quaternario umano, o l’Uomo considerato astrattamente. Le tre affezioni che compongono questo ternario agiscono e reagiscono le une sulle altre, e s’illuminano o s’oscurano mutualmente; e l’unità che le lega, vale a dire l’Uomo, si perfeziona o si deprava, a seconda che tenda a confondersi con l’Unità universale, o a distinguersene. Il mezzo che essa ha di confondervisi, di distinguersene, d’avvicinarvisi o di allontanarvisi, risiede tutta intera nella sua volontà, che, per l’uso che fa degli strumenti che le fornisce il corpo, l’anima e lo spirito, tende a divenire istintiva o s’abbruttisce, si rende virtuosa o viziosa, saggia o ignorante, e si mette nella condizione di percepire con maggior o minor energia, di conoscere e di giudicare con maggior o minor rettitudine quel che v’è di buono, di bello e di giusto nella sensazione, nel sentimento o nell’assentimento; di distinguere con maggior o minor forza e luminosità il bene e il male; e infine di non sbagliarsi affatto in quel che è realmente piacere o dolore, amore o odio, verità o errore.
Si coglie chiaramente che la dottrina metafisica che ho appena esposto brevemente, non si trova da nessuna parte così nettamente espressa, e così che non posso appoggiarla ad alcuna autorità diretta. Non è che partendo dai principi posti nei Versi d’Oro, e meditando lungamente su quel che è stato scritto di Pitagora, che se ne può concepire l’insieme. Essendo stati i discepoli di questo filosofo estremamente discreti, e sovente oscuri, non si può apprezzare bene le opinioni del loro maestro che chiarendole con quelle dei platonici e degli stoici, che le hanno adottate e diffuse senza tante riserve [3].
L’Uomo, quale vengo dal descrivere, secondo l’idea che Pitagora ne aveva concepito, posto sotto il dominio della Provvidenza, tra il passato e l’avvenire, dotato di una libera volontà per sua essenza, e volgendosi alla virtù o al vizio con proprio movimento, l’Uomo, dicevo, deve conoscere la fonte delle disgrazie che prova necessariamente; e lungi dall’accusarne questa stessa Provvidenza che dispensa i beni e i mali a ciascuno secondo il suo merito e le sue azioni anteriori, deve prendersela solo con se stesso se soffre, come conseguenza inevitabile dei suoi sbagli passati [4]. Giacché Pitagora ammetteva più esistenze successive [5], e sosteneva che il presente che ci colpisce, e l’avvenire che ci minaccia, non sono che l’espressione del passato che è stato opera nostra nei tempi anteriori. Diceva che la maggior parte degli uomini perdono, ritornando alla vita, il ricordo di queste esistenze passate; ma che, riferito a lui, doveva a un particolare favore degli Dei il conservarne la memoria [6]. Così, secondo la sua dottrina, questa Necessità fatale di cui l’uomo non cessa di lamentarsi, è lui stesso che l’ha creata con l’impiego della sua volontà; egli percorre, nella misura in cui avanza nel tempo, la ruota che lui stesso si è già tracciato; e, a seconda che la modifichi in bene o in male, che vi semini, per così dire, le sue virtù o i suoi vizi, la ritroverà più dolce o più faticosa, quando sarà venuto il tempo di ripercorrerla.
Ecco i dogmi a mezzo dei quali Pitagora stabiliva la necessità del Destino, senza nuocere alla potenza della Volontà, e lasciava alla Provvidenza il suo impero universale, senz’essere obbligato, o di attribuirle l’origine del male, come coloro che non ammettono che un principio delle cose, o di dare al Male un’esistenza assoluta, come coloro che ammettono due principi. In questo egli era d’accordo con la dottrina antica, seguita dagli oracoli degli Dei [7]. I pitagorici, del resto, non consideravano i dolori, vale a dire, tutto ciò che affligge il corpo nella sua vita mortale, come dei mali veri; non chiamavano veri mali che i peccati, i vizi, gli errori, nei quali si cade volontariamente. Secondo loro, i mali fisici e inevitabili essendo illustrati dalla presenza della virtù, potevano trasformarsi in beni, e divenire brillanti e degni di desiderio [8]. Sono questi ultimi mali, dipendenti dalla necessità, che Liside raccomandava di giudicare per quel che sono; vale a dire, di considerare come una conseguenza inevitabile di qualche sbaglio, come il castigo o il rimedio di qualche vizio; e conseguentemente di sopportarli, e, lungi dall’inasprirli ancora con l’impazienza e la collera, al contrario addolcirli, con la rassegnazione e l’acquiescenza della volontà al giudizio della Provvidenza. Non vietava affatto, come si vede nei versi citati, di alleviarli con mezzi leciti; al contrario voleva che il saggio si sforzasse di evitarli, se poteva, e di guarirli. Così questo filosofo non cadeva affatto nell’eccesso che s’è giustamente rimproverato agli stoici [9]. Giudicava il dolore cattivo, non perché fosse della stessa natura del vizio, ma perché la sua natura purgativa del vizio lo rendeva una conseguenza necessaria di questo. Platone adottò quest’idea, e ne evidenziò tutte le conseguenze con la sua abituale eloquenza [10].
Quanto a quel che dice Liside, sempre secondo Pitagora, che il saggio non era affatto esposto ai mali più crudeli, ciò si può intendere, come l’ha inteso Hierocles, in una maniera semplice e naturale, o in una maniera più misteriosa che dirò. Innanzi tutto è evidente, secondo le conseguenze dei principi che sono stati esposti, che, in effetti, il saggio non è affatto abbandonato ai mali più duri, poiché non inasprendo affatto con i suoi comportamenti quelli che la necessità del destino gli infligge, e sopportandoli con rassegnazione, egli li addolcisce; vivendo felice, anche in mezzo alla sfortuna, nella ferma speranza che questi mali non turberanno più i suoi giorni, e certo che i beni divini che sono riservati alla virtù, l’attendono in un’altra vita [11]. Hierocles, dopo aver esposto questa prima maniera di spiegare il verso di cui si tratta, tocca leggermente la seconda, dicendo che la Volontà dell’uomo può influire sulla Provvidenza, quando, agendo in un’anima forte, essa è assistita dal soccorso del Cielo e opera con lui [12]. Questa era una parte della dottrina insegnata nei misteri, e di cui si vietava la divulgazione ai profani. Secondo questa dottrina, di cui si possono riconoscere delle tracce abbastanza forti in Platone [13], la Volontà “rafforzata” [14] dalla fede, poteva soggiogare la stessa Necessità, comandare alla Natura, e operare dei miracoli. Essa era il principio sul quale riposava la magia dei discepoli di Zoroastro [15]. Gesù, dicendo in parabole, che a mezzo della fede si potevano scuotere le montagne [16], non faceva che seguire la tradizione teosofica, conosciuta da tutti i saggi. «La rettitudine del cuore e la fede trionfano su tutti gli ostacoli, diceva Confucio [17]; ogni uomo può rendersi uguale ai saggi e agli eroi di cui le nazioni onorano la memoria, diceva Mencio; non è mai il potere che manca, è la volontà; ammesso lo si voglia, si riesce [18]». Queste idee dei teosofi cinesi si ritrovano negli scritti degli Indiani [19], e anche in quelli di alcuni Europei che, come ho già fatto osservare, non avevano affatto abbastanza erudizione per essere degli imitatori. «Più la volontà è grande, dice Bœhme, più l’essere è grande, più è potentemente ispirato [20]». «La volontà e la libertà sono una stessa cosa[21]». «È la fonte della luce, la magia che di niente fa qualcosa [22]», «La volontà che va risolutamente avanti, è la fede; essa modella la propria forma in spirito, e si sottomette tutte le cose; con essa, un’anima riceve il potere d’influenzare un’altra anima, e di penetrarla nelle sue essenze più recondite. Quand’essa agisce con Dio, può rovesciare le montagne, frantumare le rocce, confondere i complotti degli empi, soffiare su di loro il disordine e lo spavento; può operare tutti i prodigi, comandare ai cieli, al mare, incatenare la stessa morte; tutto le è sottomesso. Non si può menzionare niente che essa non possa comandare nel nome dell’Eterno. L’anima che esegue queste grandi cose, non fa che imitare i profeti e i santi, Mosè, Gesù e gli apostoli. Tutti gli eletti hanno una potenza simile. Il male scompare davanti a loro. Niente potrebbe nuocere a colui in cui Dio dimora [23]».
È partendo da questa dottrina, insegnata, come ho detto, nei misteri, che alcuni gnostici della scuola d’Alessandria pretesero che i mali non cogliessero mai i saggi veri, ammesso di trovare degli uomini che in effetti lo fossero; giacché la Provvidenza, immagine della giustizia divina, non permetterebbe mai che l’innocente soffrisse e fosse punito. Basilide che era uno di coloro che sostennero quest’opinione platonica [24], ne fu vivamente rimproverato dai cristiani ortodossi, che lo trattarono da eretico, portandogli l’esempio dei martiri. Basilide rispose che i martiri non sono affatto interamente innocenti, poiché non vi è nessun uomo esente da colpe; che Dio punisce in loro, o dei desideri malvagi, dei peccati attuali e segreti, o dei peccati che l’anima aveva commesso in un’esistenza anteriore: e siccome non si mancava di opporgli ancora l’esempio di Gesù, che, quantunque pieno d’innocenza, aveva tuttavia sofferto il supplizio della croce, Basilide rispondeva senza tentennare che Dio era stato giusto nei suoi confronti, e che Gesù, essendo uomo, non era più di un altro esente da macchie [25].
* Estratto da A. Fabre d’Olivet, Les Vers dorés de Pythagore, expliqués. Paris, Treuttel e Würtz, 1813.
1. Seneca, De Senectute, L, VI, cap. 2.
2. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18.
3. Giamblico, De vita Pythagorica. Porfirio, De abstinentia; Vita Pythagoræ. Fozio, Codice 259. Diogene Laerzio, in Pythagoras, L. VIII. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm. Filostrato, in Vita Apollonii. Plutarco, De Placita philosophorum; De Animæ procreatione. Apuleio, Florida. Macrobio, Saturnalia; Somnius Scipionis. Clemente di Alessandria, Stromata.
4. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 14. Fozio, Codice 242 e 214.
5. Diogene Laerzio, in Pythagoras, L. VIII.
6. Diogene Laerzio, in Pythagoras, L. VIII, §. 4.
7. Massimo di Tiro aveva fatto una dissertazione sull’origine del Male, nella quale pretendeva che gli oracoli fatidici consultati a questo proposito, rispondessero con questi due versi d’Omero:
Noi accusiamo gli Dei dei nostri mali; e, noi stessi,
Con i nostri propri errori, li produciamo tutti.
8. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18.
9. Plutarco, De Stoicorum repugnantiis.
10. Platone, in Gorgia e Filebo.
11. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18.
12. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18, 49 e 62.
13. Platone, Fedone; Ipparco; Teeteto, La Repubblica, L. IV, ecc.
14. Il termine utilizzato da Fabre d’Olivet, “évertuée”, richiama l’idea di “dotare di virtù”.
15. Thomas Hyde, Historia religionis veterum Persarum, p. 298.
16. Matteo, XVII, v. 19.
17. Vie de Kong-Tzée (Confucius), p. 324, in Mémoires concernant l’histoire, les sciences, les arts, les mœurs, les usages, &c. des Chinois, Paris, vol. I, 1776.
18. Meng-Tzée, citato da Jean-Baptiste Du Halde, Description de l’empire de la Chine, tomo II, Parigi, 1735..
19. Bhagavat-Gita, lett. II.
20. Jakob Böhme, Quaranta Questioni sull’origine, l’essenza, l’essere, la natura e le proprietà dell’Anima (Viertzig Fragen von der Seelen Orstand, Essentz, Wesen, Natur und Eigenschafft, ecc. Amsterdam, 1682), quest. I.
21. Ibid.
22. Jakob Böhme, Nove Testi, test. 1 e 2.
23. Jakob Böhme, Quaranta Questioni, quest. 6.
24. Platone, in Teage.
25. Clemente di Alessandria, Stromata, L. IV, p. 506. Isaac de Beausobre, Histoire critique de Manichée et du Manichéisme, t. II, p. 28.
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Antoine Fabre d’Olivet
(12) E quanto ai mali che comporta il Destino
Giudicali per quel che sono; sopportali; e cerca,
Per quanto lo potrai, di mitigarne i tratti.
Gli dei non hanno abbandonato i saggi ai più crudeli.
Ho detto che Pitagora ammetteva due agenti delle azioni umane, la potenza della Volontà e la necessità del Destino, e che li sottometteva l’uno e l’altro a una legge fondamentale chiamata la Provvidenza, dalla quale emanavano ugualmente. Il primo di questi agenti era libero, e il secondo costretto: di modo che l’uomo si trovava posto entro due nature opposte, ma non contrarie, indifferentemente buone o malvage, secondo l’uso che sapeva farne. La potenza della volontà s’esercitava sulle cose da fare o sull’avvenire; la necessità del destino, sulle cose fatte o sul passato: e l’una alimentava senza posa l’altra, lavorando sui materiale che si forniscono reciprocamente: giacché, secondo quest’ammirabile filosofo, è dal passato che nasce l’avvenire, dall’avvenire che si forma il passato, e dalla riunione dell’uno e dell’altro che si genera il presente sempre esistente, dal quale traggono ugualmente la loro origine: idea molto profonda, che gli stoici avevano adottata [1]. Così, secondo questa dottrina, la libertà regna nell’avvenire, la necessità nel passato, e la provvidenza sul presente. Niente di quel che esiste capita per caso, ma per l’unione della legge fondamentale e provvidenziale con la volontà umana che la segue o la trasgredisce, operando sulla necessità [2]. L’accordo della volontà e della provvidenza costituisce il Bene; il Male nasce dalla loro opposizione. L’uomo ha ricevuto, per condursi nel cammino che deve percorrere sulla terra, tre forze appropriate a ciascuna delle tre modificazioni del suo essere, e tutte tre concatenate alla sua volontà. La prima, legata al corpo, è l’istinto; la seconda, dedicata all’anima, è la virtù; la terza, appartenente all’intelligenza, è la scienza o la saggezza. Queste tre forze, indifferenti in se stesse, non prendono questo nome che per il buon uso che ne fa la volontà; giacché, nel cattivo uso, esse degenerano in abbruttimento, in vizio e in ignoranza. L’istinto percepisce il bene o il male fisico risultante dalla sensazione; la virtù conosce il bene e il male morali esistenti nel sentimento; la scienza giudica il bene o il male intelligibili che nascono dall’assentimento. Nella sensazione, il bene e il male si chiamano piacere o dolore; nel sentimento, amore o odio; nell’assentimento, verità o errore. La sensazione, il sentimento e l’assentimento, risiedendo nel corpo, nell’anima e nello spirito, formano un ternario che, sviluppandosi a favore di un’unità relativa, costituisce il quaternario umano, o l’Uomo considerato astrattamente. Le tre affezioni che compongono questo ternario agiscono e reagiscono le une sulle altre, e s’illuminano o s’oscurano mutualmente; e l’unità che le lega, vale a dire l’Uomo, si perfeziona o si deprava, a seconda che tenda a confondersi con l’Unità universale, o a distinguersene. Il mezzo che essa ha di confondervisi, di distinguersene, d’avvicinarvisi o di allontanarvisi, risiede tutta intera nella sua volontà, che, per l’uso che fa degli strumenti che le fornisce il corpo, l’anima e lo spirito, tende a divenire istintiva o s’abbruttisce, si rende virtuosa o viziosa, saggia o ignorante, e si mette nella condizione di percepire con maggior o minor energia, di conoscere e di giudicare con maggior o minor rettitudine quel che v’è di buono, di bello e di giusto nella sensazione, nel sentimento o nell’assentimento; di distinguere con maggior o minor forza e luminosità il bene e il male; e infine di non sbagliarsi affatto in quel che è realmente piacere o dolore, amore o odio, verità o errore.
Si coglie chiaramente che la dottrina metafisica che ho appena esposto brevemente, non si trova da nessuna parte così nettamente espressa, e così che non posso appoggiarla ad alcuna autorità diretta. Non è che partendo dai principi posti nei Versi d’Oro, e meditando lungamente su quel che è stato scritto di Pitagora, che se ne può concepire l’insieme. Essendo stati i discepoli di questo filosofo estremamente discreti, e sovente oscuri, non si può apprezzare bene le opinioni del loro maestro che chiarendole con quelle dei platonici e degli stoici, che le hanno adottate e diffuse senza tante riserve [3].
L’Uomo, quale vengo dal descrivere, secondo l’idea che Pitagora ne aveva concepito, posto sotto il dominio della Provvidenza, tra il passato e l’avvenire, dotato di una libera volontà per sua essenza, e volgendosi alla virtù o al vizio con proprio movimento, l’Uomo, dicevo, deve conoscere la fonte delle disgrazie che prova necessariamente; e lungi dall’accusarne questa stessa Provvidenza che dispensa i beni e i mali a ciascuno secondo il suo merito e le sue azioni anteriori, deve prendersela solo con se stesso se soffre, come conseguenza inevitabile dei suoi sbagli passati [4]. Giacché Pitagora ammetteva più esistenze successive [5], e sosteneva che il presente che ci colpisce, e l’avvenire che ci minaccia, non sono che l’espressione del passato che è stato opera nostra nei tempi anteriori. Diceva che la maggior parte degli uomini perdono, ritornando alla vita, il ricordo di queste esistenze passate; ma che, riferito a lui, doveva a un particolare favore degli Dei il conservarne la memoria [6]. Così, secondo la sua dottrina, questa Necessità fatale di cui l’uomo non cessa di lamentarsi, è lui stesso che l’ha creata con l’impiego della sua volontà; egli percorre, nella misura in cui avanza nel tempo, la ruota che lui stesso si è già tracciato; e, a seconda che la modifichi in bene o in male, che vi semini, per così dire, le sue virtù o i suoi vizi, la ritroverà più dolce o più faticosa, quando sarà venuto il tempo di ripercorrerla.
Ecco i dogmi a mezzo dei quali Pitagora stabiliva la necessità del Destino, senza nuocere alla potenza della Volontà, e lasciava alla Provvidenza il suo impero universale, senz’essere obbligato, o di attribuirle l’origine del male, come coloro che non ammettono che un principio delle cose, o di dare al Male un’esistenza assoluta, come coloro che ammettono due principi. In questo egli era d’accordo con la dottrina antica, seguita dagli oracoli degli Dei [7]. I pitagorici, del resto, non consideravano i dolori, vale a dire, tutto ciò che affligge il corpo nella sua vita mortale, come dei mali veri; non chiamavano veri mali che i peccati, i vizi, gli errori, nei quali si cade volontariamente. Secondo loro, i mali fisici e inevitabili essendo illustrati dalla presenza della virtù, potevano trasformarsi in beni, e divenire brillanti e degni di desiderio [8]. Sono questi ultimi mali, dipendenti dalla necessità, che Liside raccomandava di giudicare per quel che sono; vale a dire, di considerare come una conseguenza inevitabile di qualche sbaglio, come il castigo o il rimedio di qualche vizio; e conseguentemente di sopportarli, e, lungi dall’inasprirli ancora con l’impazienza e la collera, al contrario addolcirli, con la rassegnazione e l’acquiescenza della volontà al giudizio della Provvidenza. Non vietava affatto, come si vede nei versi citati, di alleviarli con mezzi leciti; al contrario voleva che il saggio si sforzasse di evitarli, se poteva, e di guarirli. Così questo filosofo non cadeva affatto nell’eccesso che s’è giustamente rimproverato agli stoici [9]. Giudicava il dolore cattivo, non perché fosse della stessa natura del vizio, ma perché la sua natura purgativa del vizio lo rendeva una conseguenza necessaria di questo. Platone adottò quest’idea, e ne evidenziò tutte le conseguenze con la sua abituale eloquenza [10].
Quanto a quel che dice Liside, sempre secondo Pitagora, che il saggio non era affatto esposto ai mali più crudeli, ciò si può intendere, come l’ha inteso Hierocles, in una maniera semplice e naturale, o in una maniera più misteriosa che dirò. Innanzi tutto è evidente, secondo le conseguenze dei principi che sono stati esposti, che, in effetti, il saggio non è affatto abbandonato ai mali più duri, poiché non inasprendo affatto con i suoi comportamenti quelli che la necessità del destino gli infligge, e sopportandoli con rassegnazione, egli li addolcisce; vivendo felice, anche in mezzo alla sfortuna, nella ferma speranza che questi mali non turberanno più i suoi giorni, e certo che i beni divini che sono riservati alla virtù, l’attendono in un’altra vita [11]. Hierocles, dopo aver esposto questa prima maniera di spiegare il verso di cui si tratta, tocca leggermente la seconda, dicendo che la Volontà dell’uomo può influire sulla Provvidenza, quando, agendo in un’anima forte, essa è assistita dal soccorso del Cielo e opera con lui [12]. Questa era una parte della dottrina insegnata nei misteri, e di cui si vietava la divulgazione ai profani. Secondo questa dottrina, di cui si possono riconoscere delle tracce abbastanza forti in Platone [13], la Volontà “rafforzata” [14] dalla fede, poteva soggiogare la stessa Necessità, comandare alla Natura, e operare dei miracoli. Essa era il principio sul quale riposava la magia dei discepoli di Zoroastro [15]. Gesù, dicendo in parabole, che a mezzo della fede si potevano scuotere le montagne [16], non faceva che seguire la tradizione teosofica, conosciuta da tutti i saggi. «La rettitudine del cuore e la fede trionfano su tutti gli ostacoli, diceva Confucio [17]; ogni uomo può rendersi uguale ai saggi e agli eroi di cui le nazioni onorano la memoria, diceva Mencio; non è mai il potere che manca, è la volontà; ammesso lo si voglia, si riesce [18]». Queste idee dei teosofi cinesi si ritrovano negli scritti degli Indiani [19], e anche in quelli di alcuni Europei che, come ho già fatto osservare, non avevano affatto abbastanza erudizione per essere degli imitatori. «Più la volontà è grande, dice Bœhme, più l’essere è grande, più è potentemente ispirato [20]». «La volontà e la libertà sono una stessa cosa[21]». «È la fonte della luce, la magia che di niente fa qualcosa [22]», «La volontà che va risolutamente avanti, è la fede; essa modella la propria forma in spirito, e si sottomette tutte le cose; con essa, un’anima riceve il potere d’influenzare un’altra anima, e di penetrarla nelle sue essenze più recondite. Quand’essa agisce con Dio, può rovesciare le montagne, frantumare le rocce, confondere i complotti degli empi, soffiare su di loro il disordine e lo spavento; può operare tutti i prodigi, comandare ai cieli, al mare, incatenare la stessa morte; tutto le è sottomesso. Non si può menzionare niente che essa non possa comandare nel nome dell’Eterno. L’anima che esegue queste grandi cose, non fa che imitare i profeti e i santi, Mosè, Gesù e gli apostoli. Tutti gli eletti hanno una potenza simile. Il male scompare davanti a loro. Niente potrebbe nuocere a colui in cui Dio dimora [23]».
È partendo da questa dottrina, insegnata, come ho detto, nei misteri, che alcuni gnostici della scuola d’Alessandria pretesero che i mali non cogliessero mai i saggi veri, ammesso di trovare degli uomini che in effetti lo fossero; giacché la Provvidenza, immagine della giustizia divina, non permetterebbe mai che l’innocente soffrisse e fosse punito. Basilide che era uno di coloro che sostennero quest’opinione platonica [24], ne fu vivamente rimproverato dai cristiani ortodossi, che lo trattarono da eretico, portandogli l’esempio dei martiri. Basilide rispose che i martiri non sono affatto interamente innocenti, poiché non vi è nessun uomo esente da colpe; che Dio punisce in loro, o dei desideri malvagi, dei peccati attuali e segreti, o dei peccati che l’anima aveva commesso in un’esistenza anteriore: e siccome non si mancava di opporgli ancora l’esempio di Gesù, che, quantunque pieno d’innocenza, aveva tuttavia sofferto il supplizio della croce, Basilide rispondeva senza tentennare che Dio era stato giusto nei suoi confronti, e che Gesù, essendo uomo, non era più di un altro esente da macchie [25].
* Estratto da A. Fabre d’Olivet, Les Vers dorés de Pythagore, expliqués. Paris, Treuttel e Würtz, 1813.
1. Seneca, De Senectute, L, VI, cap. 2.
2. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18.
3. Giamblico, De vita Pythagorica. Porfirio, De abstinentia; Vita Pythagoræ. Fozio, Codice 259. Diogene Laerzio, in Pythagoras, L. VIII. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm. Filostrato, in Vita Apollonii. Plutarco, De Placita philosophorum; De Animæ procreatione. Apuleio, Florida. Macrobio, Saturnalia; Somnius Scipionis. Clemente di Alessandria, Stromata.
4. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 14. Fozio, Codice 242 e 214.
5. Diogene Laerzio, in Pythagoras, L. VIII.
6. Diogene Laerzio, in Pythagoras, L. VIII, §. 4.
7. Massimo di Tiro aveva fatto una dissertazione sull’origine del Male, nella quale pretendeva che gli oracoli fatidici consultati a questo proposito, rispondessero con questi due versi d’Omero:
Noi accusiamo gli Dei dei nostri mali; e, noi stessi,
Con i nostri propri errori, li produciamo tutti.
8. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18.
9. Plutarco, De Stoicorum repugnantiis.
10. Platone, in Gorgia e Filebo.
11. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18.
12. Hierocles, Comm. in aura Pythaoræ carm., v. 18, 49 e 62.
13. Platone, Fedone; Ipparco; Teeteto, La Repubblica, L. IV, ecc.
14. Il termine utilizzato da Fabre d’Olivet, “évertuée”, richiama l’idea di “dotare di virtù”.
15. Thomas Hyde, Historia religionis veterum Persarum, p. 298.
16. Matteo, XVII, v. 19.
17. Vie de Kong-Tzée (Confucius), p. 324, in Mémoires concernant l’histoire, les sciences, les arts, les mœurs, les usages, &c. des Chinois, Paris, vol. I, 1776.
18. Meng-Tzée, citato da Jean-Baptiste Du Halde, Description de l’empire de la Chine, tomo II, Parigi, 1735..
19. Bhagavat-Gita, lett. II.
20. Jakob Böhme, Quaranta Questioni sull’origine, l’essenza, l’essere, la natura e le proprietà dell’Anima (Viertzig Fragen von der Seelen Orstand, Essentz, Wesen, Natur und Eigenschafft, ecc. Amsterdam, 1682), quest. I.
21. Ibid.
22. Jakob Böhme, Nove Testi, test. 1 e 2.
23. Jakob Böhme, Quaranta Questioni, quest. 6.
24. Platone, in Teage.
25. Clemente di Alessandria, Stromata, L. IV, p. 506. Isaac de Beausobre, Histoire critique de Manichée et du Manichéisme, t. II, p. 28.
mercoledì 9 luglio 2014
La corta memoria della scienza (4 di 4)
di Vito Foschi
Bibliografia:
Comunicazione e metodologia della trasmissione del sapere
Un altro fattore da non trascurare è la metodologia della
trasmissione del sapere. Anche oggi in un mondo in cui l’informazione sembra a
portata di mano esistono zone oscure in cui è impedito l’accesso. Basti pensare
a quanta tecnologia militare è chiusa in sicuri bunker inaccessibili ai più. O
un esempio, più banale, ma forse più emblematico, la formula della Coca Cola,
uno dei segreti meglio custoditi del mondo. Anche in passato la trasmissione
del sapere è stata soggetta a questi vincoli. E così l’artigiano trasmetteva le
sue scoperte ai suoi allievi, che avrebbero fatto lo stesso, mantenendo un
vincolo di segretezza. Le corporazione medievali ne sono una chiara
testimonianza. Un altro esempio è l’arte della metallurgia ammantata da oscuri
simbolismi dai sacerdoti egizi per mantenere il loro segreto e il loro potere.
Naturalmente questa segretezza ha permesso ad alcune
conoscenze di attraversare i secoli sottraendosi all’occhio di severi censori
che accendevano falò su cui bruciare i libri, ma aumentando anche il rischio di
vedere dimenticate certe conoscenze.
Effetto collaterale: esoterizzazione della cultura moderna
Come accennato prima per la scienza, che subisce un processo
di esoterizzazione, sta avvenendo per la cultura in genere. Ormai si è creata
una sovrastruttura informativa formata dai media quali stampa, radio, TV ed
Internet che invece di facilitare l’accesso alla conoscenza finisce per
occultarla in un bombardamento continuo di notizie e informazioni che finiscono
per occupare tutto lo spazio mentale rendendo impossibile un pensiero ed una
rielaborazione critica.
Un’altra sovrastruttura che apparentemente dovrebbe
facilitare ma che in realtà nasconde è il commento dei testi classici. Con la
scusa di renderli leggibili per i lettori moderni, si finisce di infarcirli
tanto con introduzioni, note, commenti, glosse da nascondere l’opera. Inoltre,
il numero di pagine di questi “aiuti alla lettura”, a volte, supera
abbondantemente quelle dell’opera stessa, con il risultato finale di libri di
centinaia di pagine che scoraggiano alla lettura, quando in realtà, l’opera
originale è di poche pagine. E poi, perché è necessario il commento? Perché la
cultura ha subito una destrutturazione ed una specializzazione. Prima
esistevano le materie del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del
quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica) e la loro conoscenza era
sufficiente ad accedere a tutto il sapere. Ora questa struttura non esiste più,
esistono le specializzazioni, che rendono sì possibile dei risultati, ma al costo
di vivere nella propria gabbia specialistica e di non riuscire più ad accedere
alle diverse branche del sapere.
Un altro fattore che rende difficile la lettura di testi
antichi è la cancellazione della religione dalle materie d’insegnamento. Sarà
stata una conquista dello stato laico, ma, di fatto, impedisce l’accesso alla
cultura antica tutta impregnata di religione e misticismo.
Come ho detto prima, viviamo in una continua rincorsa per
stare a passo coi tempi imparando cose inutili e dimenticando spesso conoscenze
utili. Gli esempi li viviamo noi stessi. Vi chiedo: sapreste riconoscere un
santo che vedete raffigurato in una chiesa? Credo che la maggior parte di noi
eccetto per i santi più noti avrebbe delle difficoltà. Sembra una sciocchezza,
ma questo è un esempio concreto a noi vicino della distruzione della conoscenza
del passato. E non crediate che sia un problema di poco conto. Quanti studiosi
stanno lì a lambiccarsi il cervello per interpretare una raffigurazione
religiosa cercando di capire che santi sono rappresentati? La cosa
demoralizzante è, che un qualsiasi nonno, anche un po’ svanito, sarebbe in
grado di riconoscerli, perché venendo da una società in cui la scrittura non
era ancora dominante, al catechismo gli hanno insegnato a riconoscere i santi
dai particolari della loro rappresentazione. San Rocco dalla piaga alla gamba e
dal cane, per farvi un esempio concreto a me noto.
Conclusioni
Possiamo ben dire come afferma Hancock nel suo libro “Le
impronte degli dei”, di essere una specie affetta da amnesia e, aggiungiamo,
che i moderni sistemi di comunicazione e memorizzazione delle informazioni non
rendono più facile il compito di ricordare; anzi, sono loro la causa principale
della crescita esponenziale della produzione di documenti, spesso privi di
qualsiasi utilità, che essendo più veloce della capacità di immagazzinamento,
lo rendono più difficile. Senza contare, che anche se si riuscisse ad
immagazzinare tutto, rimarrebbe il problema di come accedere a tale sconfinata
massa di informazioni e se qualcosa rimane inaccessibile è come non averla
affatto.
Questo in termini generali, ma è ancor più necessario un
ripensamento di tutto il processo scientifico, affinché la scienza non diventi
un’inutile fatica di Sisifo, impegnata a scoprire per poi dimenticare più e più
volte. Sarebbe necessario, forse, che gli stessi scienziati dedicassero parte
del loro tempo a ricerche d’archivio, esercizio che permetterebbe loro di aver
un’apertura mentale ed una flessibilità di pensiero più ampia ed, a volte, di
evitare l’inutile sforzo di riscoprire cose già note. Questo permetterebbe di
risparmiare risorse da impegnare in “vere” nuove scoperte.
Note:
1) Salvatore
Settis, Le officine di Archimede, Il Sole 24 Ore del 18 gennaio 2004;
2) Rick
Sanders, “ll”, Graal n.8, marzo-aprile 2004, Hera Edizioni;
3) Articolo
riportato parzialmente sul libro di Jean-Marc Lévy-Leblond, “La Pietra di Paragone La
scienza alla prova”, CUEN 1998;
4) Giorgio
Nebbia, “Innovazione in Italia? Si provveda di ufficio”, “La Gazzetta del Mezzogiorno”
del 12/3/2000.
5) Jean-Marc
Lévy-Leblond, “La Pietra
di Paragone La scienza alla prova”, CUEN 1998, pag. 94;
6) Per
chi volesse avere qualche informazione in più può leggere l’articolo “Albert
Einstein e Olinto De Pretto: un dimenticato precursore italiano
dell’equivalenza tra massa ed energia” di U.
Bartocci, M. Mamone Capria, reperibile in Internet all’indirizzo: http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/depre.html.
Bibliografia:
Jean-Marc Lévy-Leblond, “La Pietra di Paragone La
scienza alla prova”, CUEN 1998;
AA. VV. Episteme, Physis e Sophia
nel III millennio, Perugia, n. 1 – 6, 2000 – 2002;
Paolo Rossi, “Origini di una
favola clericale”, IlSole-24ore di domenica 6 giugno 2004.
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martedì 8 luglio 2014
La corta memoria della scienza (3 di 4)
di Vito Foschi
Un altro esempio ci viene dalla zoologia. Esistono degli
elenchi delle specie in pericolo di estinzione dando così per scontato che le
specie non in elenco non corrono pericolo. Ma è proprio così? Purtroppo no. In
realtà di molte specie non si sa più nulla perché dopo la loro scoperta e
classificazione avvenuta anche più di un secolo fa, non sono state più fatte
ricerche. Nel diciannovesimo secolo è stato fatto un enorme sforzo di scoperta
e classificazione e numerosissime specie si conoscono solo grazie alle
pubblicazioni di allora. Nel curriculum dei biologi di oggi alla zoologia è
riservato ben poco spazio. Quando qualche spedizione ritorna ad esplorare i
luoghi di avvistamento di alcune specie, spesso non le ritrova, perché ormai
estinte.
Un altro esempio dal libro di Lévy-Leblond:«Da qualche anno,
non è raro veder citare, in articoli di ricerca “di punta”, come riferimento
tecnico immediato, dei lavori del matematico Henri Poincaré che risalgono a più
tre quarti di secolo e che non erano più stati menzionati per diversi decenni.
[…] L’irruzione della fisica detta moderna, teorie quantistiche, relatività,
aveva all’inizio del secolo relegato – così sembrava – quella fisica negli
scaffali di un classicismo polveroso». Più avanti:«Si è dovuta operare una vera
riconquista e, attraverso i campi fino a poco tempo fa riconosciuti e coltivati
ma abbandonati e ridivenuti incolti, ritrovare sentieri dimenticati. Così
l’ingenua fede in una modernità irreversibile e la sottovalutazione presuntuosa
di un’antica disciplina hanno impedito e ritardato uno sviluppo scientifico
maggiore».
Da un articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno:
«Alcune innovazioni sono già state fatte decenni fa e alcuni insuccessi erano
già prevedibili: la pericolosità e la tossicità del piombo tetraetile –
l’antidetonante delle benzine ormai quasi definitivamente eliminato dalle
benzine in commercio, quelle che si chiamano “con piombo” – erano ben
conosciute da chi aveva scoperto la nuova sostanza negli anni venti del
Novecento. Alcuni processi per diminuire l’inquinamento atmosferico erano già
stati inventati nella metà dell’Ottocento e poi accantonati. Gli attuali
processi di riciclo dei rottami metallici sono stati inventati un secolo e
mezzo fa.»(4)
Da un articolo de “Il Sole-24 Ore” del 22 febbraio 2004 di
Cristina Marcuzzo: «La teoria economica, nella sua storia, non segue un
tracciato regolare, né si presenta come un accumulo di verità acquisite una
volta per tutte. I “ritorni” a idee del passato sono frequenti, come sono
ripetuti gli abbandoni di alcune concezioni, quando non reggono al confronto
con la teoria ritenuta al momento più “vera”». Abbiamo visto che non è una
caratteristica tipica dell’economia, ma è comune a tutte le scienze. Dallo
stesso articolo: «Rivisitare le idee del passato può significare rafforzare le
convinzioni del presente, oppure ricercare percorsi che non si sono imboccati o
che sembrava portassero, in un particolare momento storico, a un vicolo cieco.
Qualunque sia il fine dell’esercizio, interrogare la storia, sia dei fatti che
delle idee, è la condizione della crescita della conoscenza, intesa non come
progresso lineare dall’errore alla verità, ma come consapevolezza dei suoi
limiti e della sua circonstanzialità».
Ed ancora: «Ormai una componente regolare delle riviste
scientifiche generiche, come “Nature” o “Science”, è la messa in rilievo di
lavori dimenticati che anticipano di parecchi decenni delle (ri)scoperte
recenti presentate come originali.»(5)
Altri
esempi li possiamo trovare nella rubrica Reprints della rivista “Episteme” del
prof. Umberto Bartocci reperibile anche in Internet. In tale rubrica sono
pubblicati o vecchi lavori ormai dimenticati o teorie recenti ma controverse.
Ad esempio nel numero 2 troviamo il discorso tenuto dal prof. Quirino Majorana,
zio del più noto Ettore Majorana, all’Accademia delle Scienze dell’Istituto di
Bologna in occasione della inaugurazione dell’Anno Accademico in data 9
Dicembre 1951, in
cui lo scienziato contesta la teoria della relatività di Einstein
evidenziandone le contraddizioni.
Un articolo interessante è “Low Energy Nuclear Reactions” con sottotitolo “The revival of alchemy” di
Roberto A. Monti presente nel numero 4 di Episteme. Vi riporto la traduzione
dell’abstract:
«Nel 1959
C.L. Kervran mostrò l’evidenza sperimentale delle
Trasmutazioni a bassa Energia, ma i fisici contemporanei rifiutarono di credere
nell’evidenza sperimentale di fronte a loro perché avrebbe messo in questione
gli interessi, molto ben stabiliti, della Fisica delle Alta Energia. Nel 1989
Fleishmann e Pons fecero un’altra Trasmutazione a bassa Energia, erroneamente
chiamata “Fusione Fredda”, il quale attirò grande attenzione. I fisici dell’Alta
Energia iniziarono una fortissima campagna per invalidare la “Fusione Fredda”
di fronte al pubblico. Nel 1996 “Lo Sviluppo delle Tecnologie delle
Trasmutazioni” diventa il problema fondamentale della Seconda Conferenza delle
Reazione delle Basse Energie (College Station, TX). Nel 1998, ICCF-7
(Vancouver) e nel 2000, ICCF-8 (Lerici, Italia) mostra l’evidenza conclusiva
dei Fenomeni di Trasmutazione a Bassa Energia. Le allusioni alchemiche
risultano essere sempre corrette, provando che l’alchimia è una scienza
sperimentale. La fisica del XXI secolo sarà caratterizzata dalle Reazione
Nucleari a bassa energia: il risveglio dell’alchimia.»
Il prof. Roberto Monti è anche un forte critico della teoria
della relatività di Einstein. L’esistenza di critiche alle teorie einsteiniane
è cosa pochissimo nota e comunemente si pensa che tali teorie siano verità
incontestabili o per lo meno così viene fatto credere, ma come visto non è
affatto così.
Un caso sbalorditivo, perfetto esempio dell’amnesia
programmata della scienza, è quello che riguarda un possibile antesignano della
famosa formula E=mc2 di
Einstein; nel 1904 un certo Olinto De Pretto, agronomo vicentino, pubblica
“Ipotesi dell’etere nella vita dell’universo” negli Atti del Reale Istituto
Veneto di Scienze con prefazione del famoso astronomo Schiaparelli. La frase
che sembrerebbe anticipare la teoria della relatività è la seguente:
«La materia di un
corpo qualunque, contiene in se stessa una somma di energia rappresentata
dall'intera massa del corpo, che si muovesse tutta unita ed in blocco nello
spazio, colla medesima velocità delle singole particelle. [...] La formula mv²
ci dà la forza viva e la formula mv²/8338 ci dà, espressa in calorie, tale
energia. Dato adunque m=1 e v uguale a 300 milioni di metri, che sarebbe la
velocità della luce, ammessa anche per l'etere, ciascuno potrà vedere che si
ottiene una quantità di calorie rappresentata da 10794 seguito da 9 zeri e cioè
oltre dieci milioni di milioni».
Come vedete, eccetto
il riferimento all’etere, la formula E=mc2 è chiaramente formulata.
I legami con l’Italia del giovane Einstein erano piuttosto forti considerato
che la sua famiglia vi si
trasferì definitivamente nel 1894. Inoltre, conosceva l’italiano tanto bene da
tenere delle conferenze nella nostra lingua e la formulazione che Einstein fa
della formula è meno generale di quella di De Pretto riferendosi al caso specifico di un corpo
radiante. Purtroppo non è facilmente dimostrabile che lo scienziato fosse a
conoscenza del lavoro di De Pretto.
Della questione ne parla diffusamente il su citato prof.
Bartocci nel suo libro “Albert Einstein e Olinto De Pretto: La vera storia
della formula più famosa del mondo” (Bologna, Andromeda, 1999), opera quasi
introvabile anche perché nessun grande editore rischierebbe su un libro del
genere: Albert Einstein è per il momento intoccabile.
In ogni caso è regola
ricordare il primo che ha concepito una idea e non i suoi successori. La teoria
di De Pretto contiene ancora il riferimento all’etere e conterrà altri errori però
sarebbe giusto riconoscerli la paternità della formula più famosa del mondo.(6)
Come si evince da quanto detto la scienza ha la spiccata
tendenza a dimenticare se stessa, cancellando di fatto la sua storia rendendo
difficile se non impossibile recuperare idee accantonate, ma che in un secondo
momento potrebbero ritornare utili.
Altra conseguenza è la sempre maggiore difficoltà della
scienza di spiegare se stessa. Se scompaiono i sentieri che hanno condotto ad
una scoperta, come sarà possibile spiegarla ai non specialisti? Se gli stessi
addetti ai lavori non controllano il loro sapere, sempre più parcellizzato,
come posso pretenderlo di divulgarlo? Si assiste ad un processo che potremmo
chiamare “esoterizzazione”, nel senso di rendere difficile l’accesso a
qualcosa, senza nessun riferimento al sapere iniziatico, della scienza. Una
delle accuse mosse alla magia da parte della scienza, sta diventando sua
componente fondante.
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lunedì 7 luglio 2014
La corta memoria della scienza (2 di 4)
di Vito Foschi
L’amnesia del presente
L’uomo ha la strana tendenza a dimenticare e non è
un'esclusiva dei nostri avi come si potrebbe pensare, anzi si può dire che
questo processo nella nostra epoca “scientifica” stia subendo un’accelerazione.
La continua produzione di nuovi saperi costringe l’uomo ad una continua
rincorsa del presente dimenticando tutto quello che ha imparato per poter
essere “al passo con il tempo”. Ma fra le tante cose che si dimenticano non ci
sarà qualcosa di utile? Ma poi, tutta la rincorsa ad essere aggiornati coi
tempi è veramente importante? Non sarebbe necessaria una rielaborazione critica
di tutta la messe di informazioni prodotta per discernere l’utilità o meno? Mi
interessa veramente sapere come funziona l’ultimo modello di telefonino che non
comprerò mai, perché ora non ho i soldi e fra un mese quando li avrò, sarà già
uscito il modello successivo? O ancora, perché affannarsi con gli aggiornamenti
del sistema operativo del computer o del programma di videoscrittura, giusto
per non fare nomi, quando per il mio uso corrente quello che ho, è già ottimo?
E il risultato qual è? Che perderò tempo a leggere il nuovo manuale del
programma di videoscrittura, invece che a leggere il tal libro che mi serve per
scrivere un articolo. Questo a livello individuale, mente a livello collettivo
si avrà una distruzione sistematica del sapere che diventa veramente “passato”!
Si vendono manuali sulle nuove versioni dei programmi a scapito di opere che
meriterebbero di essere lette con una graduale sostituzione dei libri buoni con
i libri cattivi utilizzando una metafora economica sulla moneta che recita che
la moneta cattiva scaccia quella buona. Con una differenza: la moneta buona
viene tesaurizzata, mentre i buoni libri finiscono al macero.
I nostri progenitori avevano una cultura orale che si
trasmetteva da padre in figlio. Questo ci fa pensare che fosse una cultura che
tendesse a dimenticare se stessa. Ma ne siamo proprio sicuri? Gilgamesh non
esiste tuttora? E i Veda? E i miti egizi? Quelli greci o romani? E perfino
quelli celtici sono sopravvissuti alla sistematica persecuzione dei druidi da
parte degli antichi romani!
In passato il mito riusciva a passare indenne attraverso le
generazioni, forse modificandosi ma mantenendo intatto il nucleo centrale. Oggi
tutto questo non esiste. Esistono le varie soap-opera, telenovelas, telefims che dopo successi
strepitosi svaniscono come neve al solito come se non fossero mai esistiti. Chi
si ricorda più di programmi degli inizi degli anni ottanta? Del nome di attori
che all’epoca sembravano tenere il mondo in una mano?
Certo delle perdite ci sono state, ma purtroppo ci saranno
sempre. Anche nel nostro mondo industrializzato in cui scienza e tecnica sono
padrone c’è una spiccata tendenza ad obliare il passato. Quante opere del
cinema mute sono andate perse? E quante si sono riuscite a salvare solo con
costosi restauri? Per fare un esempio nel campo artistico, ma questo succede ed
è ancora più grave perché implica i suoi stessi processi di produzione, nella
scienza. Abbiamo accennato alla parentesi medievale in cui il sapere umano ha
subito una distruzione sistematica e questo è sicuramente successo in passato
in altre civiltà. Basti pensare che ancora non si è grado di capire come sono
state costruite opere megalitiche con la semplice forza umana e animale.
L’amnesia
programmata della scienza: il processo scientifico si basa sulla distruzione
del saper precedente ed alcune scoperte l’uomo le ha dovuto fare più volte
La
scienza è un continuo processo di affinamento della conoscenza e questo implica
la necessità di cancellare gli errori del passato per far spazio agli ultimi risultati
ritenuti più corretti. «L’oblio è costitutivo della scienza. Impossibile per
lei conservare la memoria di tutti i suoi errori, la traccia di tutte le sue
erranze. La pretesa di dire il vero costringe a dimenticare il falso». Dal
libro di Lévy-Leblond.
Banalmente
la teoria eliocentrica ha cancellato la teoria tolemaica ormai dimenticata.
Questo processo è giusto e necessario, ma comporta dei rischi. Abbiamo visto
come in passato la scienza è dovuta ritornare sui suoi passi per riscoprire ciò
che si sapeva secoli prima, ma questo accade tutt’ora. È insito nell’attività
scientifica la distruzione delle vecchie ricerche per far posto alle nuove. Ma
in tutto questo scarto non ci sarà qualcosa che meritava di essere salvato?
Sono molteplici gli esempi di ricerche non proseguite perché le necessità o le
mode del momento, perché anche nella scienza esistono le mode, hanno spostato
l’attenzione su altri settori e poi sono state riprese decenni dopo. Questo
potrebbe sembrare un problema da poco, ma oggi la produzione scientifica è su
una scala molto vasta e lo scarto è a sua volta su una scala altrettanto vasta.
Non esistono più i pochi studiosi che si conoscevano tutti quanti e che si
incontravano in qualche congresso mondiale, ormai a livello mondiale possiamo
parlare di milioni di persone impegnate nella ricerca. Basti pensare al
moltiplicarsi delle università italiane e della conseguente moltiplicazione dei
professori, che volenti o nolenti per esigenze di sopravvivenza devono produrre
o almeno dimostrare di fare ricerca pubblicando articoli su apposite riviste.
Anzi, il loro avanzamento di carriera è anche ancorato al numero di articoli
pubblicati con tutte le conseguenze del caso sull’inflazione produttiva di
articoli. Alcuni vengono scritti solo per allungare un curriculum senza
contenere nulla di interessante sul piano scientifico.
L’accumularsi
di tutta questa produzione pone problemi di spazio alle biblioteche che tendono
ad accumulare in modo disordinato le riviste scientifiche, strumento principe
dell’attività scientifica, e recuperare ricerche del passato è a volte quasi
impossibile. Oltre a questo problema logistico, esiste il ben più grave
problema culturale, che chi ha condotto studi specialistici, trova difficoltà a
prendere in mano nuovi saperi in branche completamente nuove: di fatto è
impreparato! Il lavoro scientifico si basa su una specie di allenamento fatto
di letture di articoli di settore, nel padroneggiare certi procedimenti
matematici e determinati strumenti, se tutto questo manca è come ritrovarsi a
leggere un libro in un’altra lingua. Si è grado di leggere, cioè si hanno le
conoscenze scientifiche di base, ma non si conosce la lingua cioè gli strumenti
specifici di quella particolare materia. Non è un lavoro da poco. Ne ho fatto
esperienza personale con la mia tesi. Ho dovuto passare mesi per familiarizzare
con l’argomento e padroneggiare un programma di simulazione matematica per
poter incominciare a lavorarci. Immaginate la difficoltà a riprendere studi di
decenni fa, che trattano di teorie completamente diverse e dimenticate. Ancora
Lévy-Leblond:
«…i meccanismi di
rimozione e occultamento, costitutivi del funzionamento della ricerca,
conducano ormai a degli effetti perversi o, se non altro, controproducenti. […]
Il fatto è che l’eliminazione delle foglie morte della scienza, il rigetto dei
suoi rifiuti opera ormai sulla stessa scala industriale della sua produzione.
[…] Più precisamente, come esser certi che, in quelli che consideriamo oggi
lavori secondari o senza sbocchi, abbozzi o doppioni, non giacciono, invisibili
nel contesto attuale, un punto di vista, un metodo, un risultato ricchi di
implicazioni future?».
Ecco
alcuni esempi di scoperte dimenticate e poi ritrovate.
La
malattia dell’olmo che ha portato alla distruzione di milioni di piante è stata
affrontata coi metodi della biologia moderna senza alcun risultato, mentre
nell’ottocento si sapeva come affrontarla. Ci si era dimenticati degli studi
condotti dal 1843 al 1859 di un certo Eugène Robert che permisero all’epoca di
fermare l’epidemia! Vi riporto una frase dell’articolo di Didier Fleury che ha
riscoperto il metodo:«Avendo a disposizione mezzi di indagine di una potenza
senza uguali nel passato, la biologia ha tendenza a vedere questioni nuove
laddove di fatto c’è ben poco di nuovo!»(3)
Per
anni si è pensato che lo stomaco non potesse ospitare batteri patogeni cronici
non riuscendo a capire l’origine dell’ulcera gastrica. Invece da pochi anni si
è “scoperto” che la causa è proprio un batterio, l’Helicobacter pilori. Di
fatto si sono trascurate osservazioni di un secolo fa che affermavano la
presenza di batteri nello stomaco.
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domenica 6 luglio 2014
La corta memoria della scienza (1 di 4)
pubblicato su Mystero n. 56, gennaio 2005 (rivista edita da Luigi Cozzi)
di Vito Foschi
Introduzione
Noi viviamo in un mondo tecnologico, in cui tecnica e
scienza sono dominanti ed anche in un paese poco attento a tali tematiche com'è
l’Italia, siamo indotti a pensare di vivere in un mondo lineare in cui il
progresso scientifico sia un processo chiaro e lineare, in cui le scoperte
dell’oggi migliorano le nostre conoscenze in un continuo affinamento tendente
al raggiungimento della verità. Ma è proprio cosi? Né dubitiamo…
Se volessimo descrivere il progresso scientifico con una
metafora non è certamente possibile usare né una linea retta né una linea di
trend, tipo l’indice di borsa con locali discese e salite ma con una tendenza
di lungo periodo al rialzo. È più corretto usare l’immagine usata da
Lèvy-Leblond nel suo libro “La
Pietra di Paragone, la scienza alla prova…”: «Alla visione
tradizionale di un sapere scientifico stabile, che cresce per estensione
sistematica e concentrica, deve allora sostituirsi l’immagine frattale di un
ambito parcellizzato, costituito da saperi differenziati, pseudopodi in
perpetua ramificazione, che lasciano negli interstizi golfi di ignoranza e al
loro interno vacuoli di dubbio».
Ci capita di pensare al passato immaginando un’epoca barbara
in cui dominava la superstizione e l’ignoranza. Ma ancora una volta: è proprio
così? Noi abbiamo effettivamente più conoscenze dei nostri antenati? O più
precisamente: ogni generazione aumenta la conoscenza della generazione
precedente? O, accanto a nuove scoperte, distrugge parte della conoscenza
acquisita dai propri avi? È vera l’immagine di Lévy-Leblond di un sapere
parcellizzato incuneato di profonde sacche di ignoranza?
L’amnesia del passato
La parte di passato che conosciamo con una certa accuratezza
coincide sostanzialmente con l’inizio della produzione di testi scritti, mentre
del periodo precedente, chiamato preistoria, abbiamo solo conoscenze indiziarie
e congetture basate sul lavoro degli archeologi. È da notare però, che questo
schema è vero in parte, perché in realtà la nostra conoscenza del passato parte
da un periodo all’incirca coincidente con la nascita di Roma; del periodo
antecedente si posseggono comunque documenti scritti come le scritture egizie e
le tavolette d’argilla mesopotamiche, però spesso non sono considerate
attendibili ma riferentesi ad eventi mitici. L’assurdo si ha con alcuni
documenti, che sono considerati esatti
quando si riferiscono ad eventi recenti ed inattendibili quando si riferiscono
ad eventi più remoti. Ma si tratta dello stesso documento! Questo è un altro
argomento, però già da questo si incomincia ad intuire che l’uomo ha la
tendenza a dimenticare il proprio passato.
Anche di un’epoca recente come quella greca e romana ci
rimane poco ed anche opere di autori come Aristotele sono andate perdute. Di
altri abbiamo solo frammenti sopravissuti come citazioni di altri autori, come
è accaduto per esempio, ad Eraclito. In epoca medievale si è assistito ad una
ampia distruzione del sapere classico, salvatosi in parte, grazie alla civiltà
araba allora fiorente e ai monaci, anche se la stessa Chiesa ha, a volte,
contribuito alla scomparsa di alcune conoscenze che riteneva pagane.
La distruzione medievale è stata molto più grave di quanto
si creda. Semplificando il discorso, la tecnica romana era all’incirca
equivalente a quella rinascimentale. Tanto è vero, che alcuni autori hanno
potuto affermare che gli uomini del rinascimento hanno semplicemente copiato da
antichi trattati greco-romano. Un brano da un articolo de “Il Sole 24 Ore” del
25 gennaio 2004 che recensisce una nuova edizione di un manuale di metallurgia
rinascimentale: «All’autore che è medico e filosofo, che nutre una forte
passione per lo studio dei minerali, delle miniere, delle tecniche d’estrazione
e lavorazione dei metalli, sia le cose sia i nomi appaiono collocati in una
sorta d’indistinto caos. Molti minerali, già nel mondo antico, sono stati
utilizzati come farmaci, ma l’oblio della lingua greca, la confusione derivante
dalle traduzioni dal greco e dal siriano in arabo e dall’arabo al latino, hanno
come oscurato le conoscenze, hanno distrutto, accanto alla nomenclatura, anche
una traduzione di sapere e una continuità di pratiche. Va fatto il tentativo di
introdurre ordine e chiarezza, bisogna classificare e descrivere sia ciò che era
noto e mal definito, sia ciò che è nuovo».
Ma questi episodi sono meno eclatanti. Ad esempio tutti
pensano che la macchina a vapore sia un’invenzione del ‘700 per opera di Thomas
Newcomen e migliorata da James Watt. E si sbagliano. Una macchina che funzionava
grazie al vapore esisteva già all’epoca dei romani, la famosa eolipila di Erone
di Alessandria, uno dei più grandi ingegneri di tutti i tempi. Una sfera veniva
riempita d’acqua che riscaldata produceva il vapore che attraverso due tubi
piegati ad angolo retto e diametralmente opposti metteva in moto la sfera
libera di girare su un perno.
«Egli [P.M. Schul] ha notato che Erone descrive
accuratamente non solo l’eolipila (una piccola macchina a vapore che produce il
moto circolare di una sfera), ma anche una versione dell’hodometron da
applicarsi alle navi per misurare le distanze percorse mediante una ruota a
pale parzialmente sommersa in acqua. Come osserva Schuhl, sarebbe bastato che
il meccanismo dell’eolipila di Erone fosse applicato a una o più pale come
quello dell’odometro descritto dallo stesso Erone, perché la navigazione a
vapore fosse inventata con molti secoli di anticipo»(1). Esistono molti
studiosi che si chiedono come mai non ci sia stata la rivoluzione industriale
ai tempi dell’impero romano, dato che già esistevano tutte le conoscenze
tecniche perché ciò avvenisse ed hanno pensato di trovare la causa di questa
mancata rivoluzione nel sistema sociale ed economico dell’epoca con un’economia
basata sul lavoro degli schiavi. È emblematico, il titolo “La rivoluzione
dimenticata”, che lo studioso Lucio Russo ha voluto dare al suo libro che si
occupa della scienza in epoca classica.
Una cosa semplice come la rotondità della terra, i più
pensano che sia stata una scoperta moderna e confermata dal viaggio di
Cristoforo Colombo. Niente di più sbagliato. La rotondità della terra era stata
già ipotizzata ai tempi dell’antica Grecia, da Pitagora nel VI secolo a.C., da
Aristotele, Euclide e così via e, se si va ai Fori Imperiali a Roma e si
raggiunge il Tempio di Vesta ci si troverà un cartello affisso che recita:
«sembra che Numa Pompilio re dei romani abbia costruito il tempio di Vesta
rotondo avendo creduto che della stessa forma fosse la terra, da cui dipende la
vita degli uomini». Questo semplice esempio dimostra che i nostri antenati non
erano così ingenui come li dipingiamo.
D’altro canto, lo stesso Colombo non ha affrontato il
viaggio verso le Americhe così alla cieca come a volte si lascia intendere,
seguendo una sua brillante intuizione. Sicuramente era conoscenza di queste
antiche teorie e si è servito sì del suo intelletto, ma per verificarne la
fondatezza e non per inventarsele. Il suo viaggio è stato accuratamente
preparato e sicuramente si è documentato su antichi testi dei vari astronomi e geografi
dell’antichità.
Rick Sanders, un ricercatore straniero, in un suo lavoro(2)
dimostra, che già gli antichi egizi erano in grado di affrontare viaggi intorno
al globo, grazie ad uno strumento in grado di calcolare la longitudine, simile
al torquetum usato a fine ‘400. In particolare si occupa della spedizione di
Rata e Maui, promossa dallo scienziato Erastotene, direttore della Biblioteca
di Alessandria nel III secolo a.C., forse allo scopo di dimostrare la sua
teoria sulla rotondità della Terra. Si Ricordi, inoltre, che ci sono stati vari
studiosi che hanno riprodotto antiche imbarcazioni ed hanno attraversato gli
oceani dimostrando la fattività di simili imprese nel passato.
Le stesse idee di Leonardo da Vinci sono state trascurate
per cinque secoli, quando un loro attento studio avrebbe potuto aiutare ad
arrivare prima a certi risultati. In una puntata di Stargate-Linea di confine,
si è visto costruire uno scafandro basato sui disegni di Leonardo dimostrandone
la fattività già nel cinquecento, mentre i primi scafandri sono stati costruiti
solo nel secolo scorso!
Possiamo affermare che l’uomo ha difficoltà a conservare
memoria delle sue scoperte.
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lunedì 24 settembre 2012
La caccia al numero perfetto per trovare il senso della vita
Tratto da "Il Giornale" del 31 dicembre 2010
di Matteo Sacchi
Milano - Armonia, proporzione. Quel qualcosa che consente a
una forma, a un oggetto o ad un essere vivente, di espletare al meglio le sue
funzioni e, perché no, di avvicinarsi il più possibile all’ideale della
bellezza. Quella bellezza che l’occhio percepisce istintivamente e il cervello
fa così fatica a trasformare in concetto razionale e replicabile.
Ecco quello che gli uomini, in qualità di artefici, cercano
da sempre e che la natura, ed eventualmente il suo Grande architetto, portano
nascosto dentro di sé. E così per secoli, anzi per millenni, si è scatenata la
caccia alla formula, al numero perfetto che spiegasse il meccanismo del creato,
la sua «divina proporzione». Un numero che, una volta scoperto, avrebbe
consentito di fare propria la logica creatrice che sovrintende al mondo come lo
conosciamo.
Così gli antichi pitagorici si misero a studiare le
proprietà del cinque e del pentagono. Così i cabalisti, prima, e gli alchimisti,
poi, si misero a studiare il rapporto tra testo sacro e numeri (in ebraico ogni
lettera equivale anche a una cifra). Senza contare i pittori-filosofi
dell’umanesimo che cercarono di trasformare un preciso rapporto numerico
conosciuto come «sezione aurea» e corrispondente a 1,618 in una sorta di metro
del mondo.
Tutte semplici leggende? Tentativi rudimentali, ben diversi
dalla scienza sperimentale contemporanea, di trovare una regola occulta in un
caotico mondo dove regola non c’è?
No. È di questi giorni la notizia che una serissima
università austriaca ha compiuto uno studio che dimostrerebbe che vive molto più
a lungo chi ha un rapporto tra pressione minima e massima pari a 1,618 (insomma
per intenderci sta gran bene chi fa 74 di minima e 120 di massima oppure chi fa
77 di minima e 125 di massima). Guarda caso proprio quel numerino che
corrisponde alle proporzioni dell’uomo leonardesco e alle ricerche che, dai
pitagorici in poi, hanno portato sino alla dottrina degli gnostici del
rinascimento. Non solo: il magico 1,618 compare nei rapporti che determinano la
struttura di molti altri esseri viventi. Tanto per dire detta la regola
logaritmica che spiega la crescita del guscio dei molluschi o delle chiocciole o
anche il modo in cui le piante «scelgono» quanti petali avere.
Abbastanza da far spalancare, metaforicamente, la bocca a
Vittorio Messori che ne ha dato notizia sul Corriere della sera, e abbastanza
per chiedersi se quel numero non sia l’impronta digitale del Deus Absconditus
che da sempre un po’ si nega un po’ si rivela all’uomo (divertendosi a lasciarlo
lì, indeciso). La questione di Dio non la risolveremo certo qui, sulla presenza
di un numero perfetto (o di più numeri magici e perfetti), invece, qualcosa si
può dire.
Il primo dato di fatto è semplice: ci sono dei rapporti
numerici che davvero identificano «qualcosa» di importante e senza i quali le
cose non funzionano. Alcuni sono nascosti ed altri no. Alcuni sono noti
dall’antichità, magari in maniera intuitiva, altri da molto meno tempo. Un
esempio abbastanza recente. La materia trova la sua «pace» sulla base del numero
otto. I chimici la chiamano regola dell’ottetto: se un atomo ha otto elettroni
nella sfera esterna smette di reagire con gli altri elementi (succede ai gas
nobili). Otto in quel contesto è il solo numero che va bene, quello che regola
la chimica, il numero dell’equilibrio. Se il neon non brucia al passaggio della
corrente lo dovete a questo.
Un esempio antico: esiste una costante matematica
conosciuta come numero di Nepero o di Eulero (per lo più approssimata a
2,71828182845905) che è fondamentale per svolgere calcoli logaritmici. Ma molto
prima che i cervelloni del Seicento e del Settecento la «scoprissero» gli
antichi greci la utilizzavano per dare proporzioni gradevoli ai templi (il
Partenone è lungo 69,5 metri e largo 30,9, dividendo la prima per la seconda si
ottiene un 2,24 periodico che era l’approssimazione antica al numero di Nepero).
Quanto al famoso 1,618 (altre parti del Partenone
rispondono alla sua proporzione) è l’unico numero noto che consente di ottenere
un rapporto fra due grandezze disuguali, «tale che la maggiore sia medio
proporzionale tra la minore e la somma delle due, mentre lo stesso rapporto
esiste anche tra la grandezza minore e la loro differenza». Non avete capito?
Bene in soldoni è un rapporto in grado di generare serie
numeriche con un preciso ordine interno. Non è misterioso il fatto che le
conchiglie decidano di crescere secondo questo schema: è semplicemente lo schema
più comodo. Crea gruppi di numeri chiamati serie di Fibonacci (dal nome del
matematico che le scoprì) che piacciono molto anche alle piante. Il numero di
petali dei fiori più comuni dal giglio alla cicoria è quasi sempre regolato da
questo schema: 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55... (e se dividete 55 per 34 e
approssimate ecco il solito 1,618 e così via). La natura lo usa perché è
armonico (una bella infiorescenza in cui i petali o i semi stanno alla giusta
distanza l’uno dall’altro) e gli uomini lo hanno copiato per creare edifici
armoniosi ma anche musica (Bach creava serie di note «alla» Fibonacci) o oggetti
(il vostro badge dell’ufficio è un’approssimazione del rettangolo aureo
costruito sul numero 1,618). Gli antichi guardando la natura ebbero l’intuizione
e la trasformarono in regola, noi continuiamo a trovare le prove che la regola
funziona anche dove non c’è la mano dell’uomo.
Se invece ci chiediamo perché proprio un determinato numero
e non un altro regola certi rapporti trovare una risposta diventa più difficile.
Seguendo Pitagora e anche i costruttori di cattedrali del medioevo (quelli del
quadrato magico per intenderci), si può però prendere atto che «tutto è numero».
Non nel senso dell’astrazione pura ma nel senso che i
numeri esprimono anche dei concetti funzionali. Altro esempio scemo? La visione
funziona bene in stereoscopia. Gli animali vedono con due occhi tranne qualche
rara eccezione (i ragni ne hanno da 2 a 12). Nessuno ha optato per una visione
basata su numeri dispari (i dispari funzionano male anche per fare le gambe e
camminarci sopra). Non se ne abbia Pitagora che li preferiva ai pari.
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