Il primo a parlare di architettura esoterica, cercando di
penetrare la testimonianza misteriosa lasciataci da quelle maestranze
attive a Napoli, tra tardo Medioevo e primo Rinascimento, fu Mario
Buonoconto nel suo prezioso volumetto sulla “Napoli esoterica”.
Già sotto i Normanni e poi durante i regni di Svevi, Angioini ed
Aragonesi, giunsero in città, dal nord Europa prima e poi dalla Francia e
dalla Spagna, artigiani organizzati in confraternite sul modello franco
templare. Essi erano particolarmente abili nel sagomare il piperno,
pietra molto dura, adoperata in genere per la pavimentazione stradale e
per ricavare portali e soglie di balconi. Già in epoca tardo romana si
erano costituite delle corporazioni di maestri pipernieri che
tramandavano i “segreti dell’arte” solo a pochi fidati apprendisti. Nel
Rinascimento erano chiamati “maste ‘e prete” e si immaginava che
sapessero caricare la pietra di energia positiva. Quando si apprestavano
alla costruzione di un edificio importante, oltre a porre nelle
fondamenta alcune monete, come obolo per i morti, in ossequio a riti
propiziatori in uso presso i Caldei ed i Greci, cercavano, sfruttando
una sorta di rabdomanzia, d’identificare i punti di forza del luogo,
scegliendo il più adatto per costruire.
Questa breve introduzione è necessaria per affrontare il discorso sui
segni presenti sul bugnato della facciata della chiesa del Gesù Nuovo,
precedentemente palazzo della nobile famiglia dei Sanseverino, edificato
nel Quattrocento e, dopo sfortunate vicende della casata, ceduto
all’Ordine del Gesuiti, che lo trasformarono nella splendida chiesa
barocca, tra le più note della città. L’architetto Novello da San Lucano
si servì di maestranze locali che crearono quella serie di piccole
piramidi aggettanti verso l’esterno con il vertice puntato
sull’osservatore. Queste facciate a bugnato, relativamente diffuse al
nord, sono insolite nel meridione ed a Napoli ve ne son ben pochi
esempi. Su quelle in esame sono presenti numerosi e strani segni incisi
sulla superficie, un misterioso alfabeto con una sorta d’ideogrammi che
si ripetono secondo un ritmo particolare, che fa supporre ad una chiave
criptata di lettura, di recente oggetto di una suggestiva
interpretazione da parte di uno studioso locale, Vincenzo De Pasquale,
che ha ritenuto di identificarvi un pentagramma che si è materializzato
in un concerto eseguito nella navata della stessa chiesa del Gesù Nuovo.
La lettura fatta da De Pasquale parte dall’ipotesi, smentita da esperti
della lingua, che i misteriosi segni non siano tracce lasciate dai
cavatori per conteggiare il lavoro svolto, bensì lettere dell’aramaico,
la lingua parlata da Gesù. Ad ogni segno corrisponde una nota e la
facciata è un pentagramma sul quale l’architetto, Novello da San Lucano,
ha scritto la sua opera musicale che, di traccia in traccia, per vie
misteriose, sarebbe finita persino in un’opera di Johann Sebastian Bach.
Il concerto, re-intitolato “Enigma”, è stato suonato dall’organista
ungherese LorentRez ma sarebbe stato scritto originariamente per
strumenti a plettro. Il legame con l’Ungheria non è casuale. Novello da
San Lucano andò a vivere nel Paese magiaro e lì morì, dopo aver
progettato e costruito diversi edifici e aver lasciato sue tracce nella
storia artistica e musicale. Alla ricerca di altri messaggi sulla pietra
si è mosso da tempo un appassionato medico di professione, Lucio Paolo
Raineri, che ha indagato sulle mura medioevali cittadine, costruite
dagli Aragonesi, a partire dal 1484, servendosi di maestranze di Cava
de’ Tirreni ed utilizzando piperno proveniente dalle cave di Soccavo. La
folgorazione per il riflesso di uno specchio provocato da un’insolita
luce estiva gli fece scorgere i frammenti di un misterioso discorso
sulle pietre scure della Torre San Michele in via Cesare Rosaroll, una
fra le meglio conservate. Ha continuato le sue indagini fotografando
altri segni strani su mura e torri che da via Marina arrivano fino a via
Foria. Ha così fatto molte altre scoperte, alcune già note agli
studiosi della Napoli segreta. “Sono quasi tutti segni lapicidi, marchi
di fabbrica dei cavatori, segni di posa, di allestimento”. Per lo più si
tratta di lettere dell’alfabeto, numeri o simboli astrologici ed anche
una croce uncinata, segno di antica tradizione indiana (molto simili a
quelli trovati anche sul bugnato della facciata del Gesù Nuovo). In
altri casi, sono segni che richiamano l’alchimia o la massoneria perché
le logge segrete originariamente erano composte da fratelli muratori. I
segni su Torre San Michele sono stati soltanto il punto di partenza.
Armato di taccuino e macchina fotografica, il medico-Indiana Jones s’è
fatto tutto il percorso aragonese. “Naso all’aria – racconta –
confrontandomi con le supposizioni di chi mi vedeva in giro, cominciai a
rivisitare i massi di piperno di altre torri, con i soli limiti di
penetrazione del mio sguardo e della loro dislocazione e accessibilità”,
perché gran parte della fortificazione è ormai all’interno di palazzi
privati o è stata abbattuta o è stata sommersa da superfetazioni
architettoniche. L’anamnesi di Raineri è stata scrupolosa e ha partorito
una relazione documentatissima nella quale si legge il resoconto delle
sue esplorazioni nella metropoli dei segni che avrebbe fatto la felicità
di un Roland Barthes in cerca del grado zero della testimonianza
operaia.
“Niente scorsi sui massi della piccola Torre Duchesca a vico Santa
Maria a Formiello – scrive – né sulla vicina Torre Sant’Anna. Porta
Capuana ed il tratto di mura tra Torre Onore e Torre Gloria fu
ricchissimo di reperti, visibili ad occhio nudo e ad altezza d’uomo. La
stessa scarsezza di risultati l’ebbi per porta Nolana, anche se la
grafia di quello che può sembrare un’intera parola sconosciuta, alla
base della Torre Fede, mi ha lasciato sconcertato”.
Oltre che sulle torri aragonesi, i segni lapicidi sono presenti in
Campania sull’abbazia di San Guglielmo al Goleto e sulla cattedrale di
Sant’Antonino a Sant’Angelo dei Lombardi e sull’abbazia di Santa Maria
di Realvalle a Scafati. Ma in una metropoli perennemente affollata e
costruita su se stessa, ogni angolo racchiude un segreto, un messaggio,
una pietra parlante. “L’importante è cominciare a capirne la lingua”,
commenta Raineri, che, molto probabilmente, è solo quella del lavoro. Al
fianco di scritte pseudocriptiche, ve ne sono altre, perfettamente
leggibili, ma delle quali ci sfugge il significato, come quella che
s’incontra nel porticato del chiostro dell’ex dimora dei Caracciolo, i
cui locali sono stati utilizzati negli ultimi anni dai giudici di pace
per i loro uffici. Cogliamo l’occasione per descrivere il mastodontico
edificio che ospita la scritta, posto sull’ultimo tratto di via
Tribunali, l’unico in stile tardo gotico ed unico che ricorda
l’architettura catalana. L’edificio era stato disegnato dal grande
architetto dell’arca funebre di re Ladislao a San Giovanni a Carbonara,
Andrea Ciccione, e ne sopravvissero, come si vede, l’arco d’ingresso, il
pianterreno del primo chiostro e la porta della sala di ricevimento, in
origine sacello gentilizio di Sergianni e fino al diciottesimo secolo
ricchissima cappella, detta “il tesoro”, dove si nominavano i nuovi
magistrati del vicino tribunale. Oggi, ad abitare il complesso, è il
Comune di Napoli con i suoi uffici, sezione San Lorenzo, quartiere
Forcella. Al primo piano i corridoi con gli infissi in legno e le
vetrate mostrano ancora il disegno ospedaliero. Qui erano ricoverate
persone fino a pochi decenni fa: gli ultimi anziani pazienti ne sono
usciti nel 1970.
Il Lazzaretto, sala maestosa, sgombra dai letti o dai pagliericci che
si dovevano usare per appestati, malati di tifo e altri pazienti
colpiti da epidemia, è un trionfo di luce. Una separazione
architettonica con timpano distingue la corsia dalla sala chirurgica o
gabinetto medico. Oggi, al posto dei tavoli anatomici, c’è una piccola
sala conferenze su cui troneggia una lapide dedicata a Mariano Semmola.
Tutta la sala del Lazzaretto è circondata a mezza altezza da una lunga
balconata da cui passare cibo e rimedi ai malati con cui non si poteva
entrare in contatto. Qui si curavano, tolte le epidemie, le diffusissime
malattie veneree e della pelle (nel 1888 vi fu istituito un reparto
dermoceltico). Pochi anni fa in questa sala, infinitamente lunga ed
infinitamente alta, sessanta metri, per dieci, per sei, è stata girata
una fiction dedicata al medico santo Giuseppe Moscati, interpretato da
Beppe Fiorello.
Due anni fa, con la venuta a Napoli, in occasione del Napoli Teatro
Festival, del grande regista spagnolo Enrique Vargas, il Lazzaretto
diventò spazio teatrale, oscurato ed irriconoscibile, un lungo ventre di
balena dove si avveravano visioni felliniane, gomitoli di cotone e
ragnatele, morti e voci del passato e feste mobili che avvolgevano lo
spettatore in un’esperienza irripetibile: un bell’esorcismo per un luogo
del potere diventato luogo di sofferenza e, infine, luogo d’arte. Il
bellissimo palazzo, che era stato simbolo del potere di Sergianni
Caracciolo su Napoli e sulla regina Giovanna II, sede di feste e
intrighi, manifesto della potenza degli uomini nuovi sulle antiche
dinastie, acquistato dai frati Ospedalieri nel 1587, si trasformò in
ospedale, per necessità. Giaceva in abbandono da un secolo, infiltrato
da case private, tanto che le liti fra vicini produssero un morto, come
testimonia la lapide minacciosa, ancora oggi presente, voluta da un
diffamato, in un lato del cortile: “Dio m’arrassa da invidia canina da
mali vicini, et da bugia d’homo dabbene”. Questa frase si presta a varie
interpretazioni: potrebbe essere una preghiera o una delle tante
invocazioni scaturite dalla filosofia dei napoletani. Viene anche citata
dal Chiarini e una leggenda vuole che se i frati dell’ospedale avessero
tolto la targa, il possesso della donazione sarebbe passato
all’ospedale degli Incurabili.