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domenica 6 ottobre 2024

La lunga caccia al Santo Graal. Da Artù ai Nazisti

tratto da "Il Giornale" del  17 Marzo 2024

Matthias Egeler ricostruisce nel dettaglio una avventura, letteraria e non solo, che attraversa l’Europa da più di ottocento

di Matteo Sacchi

La ricerca del Santo Graal è un’avventura intellettuale, e non solo intellettuale, che dura almeno da ottocento anni. La mitica coppa dell’Ultima cena, in cui poi sarebbe stato raccolto il sangue fuoriuscito dal costato del Cristo, è al centro di una lunghissima rielaborazione letteraria. Si trova all’incrocio di miti e credenze che provengono da ambiti culturali diversissimi, spaziano dai Celti al mondo protocristiano e che poi si “arrampicano” lungo il Medioevo, passando attraverso i deliri di onnipotenza nazisti per approdare sino al presente e ai film di Indiana Jones. Questa storia lunghissima viene raccontata da Matthias Egeler, esperto di filologia dell’università di Monaco, in Il Santo Graal, saggio pubblicato in Italia per i tipi del Mulino (pagg. 132, euro 15). Egeler si muove a partire dal punto fermo in cui il Graal entra nella letteratura. La coppa - anche se all’inizio proprio una coppa non sembra essere - è strettamente correlata alla letteratura arturiana, alla materia di Bretagna. Per la precisione al Percival di Chrétien de Troyes. In questo poema incompiuto scritto tra il 1175 e il 1190 il Graal compare in associazione con una complessa parata allegorica e una lancia magica. Una lancia che potrebbe essere identificata con la mitica lancia di Longino, il centurione romano che avrebbe trafitto il costato di Cristo. La presunta lancia venne ritrovata durante la Prima crociata, nel 1098. E il Percival venne commissionato a Chrétien da Filippo di Fiandra che stava per partecipare alla terza spedizione in Terra Santa. Eppure leggendo il testo il Graal (la parola potrebbe provenire dal latino gradalis che indicava più un piatto fondo che una coppa) sembra assomigliare a molti calderoni delle leggende celtiche e anche la lancia facilmente rimanda ad avventure delle culture precristiane come Preiddeu Annwn (in cimrico, «il bottino dell’aldilà»). Insomma, perché il Graal diventi quello che tutti abbiamo in mente bisogna attendere almeno l’intervento del poeta borgognone Robert de Boron, parliamo dei primi del XIII secolo, con il suo romanzo in versi Giuseppe d’Arimatea. Con questo romanzo de Boron scrive virtualmente un nuovo vangelo apocrifo, utilizzando principalmente materiale della Bibbia e del Vangelo di Nicodemo. Ma per l’idea della coppa usata per raccogliere il sangue di Cristo crocifisso non è facile capire dove de Boron abbia preso l’ispirazione. Bisogna spostarsi in epoca e area carolingia per trovare codici, come il Salterio di Utrecht, in cui compaiano illustrazioni di personaggi che raccolgono il sangue di Cristo. Il risultato è una narrazione così potente da trasformarsi in una credenza che attraversa i secoli. Ci sono ancora molti visitatori, ad esempio, che si recano a Glastonbury, nell’Inghilterra meridionale. Una leggenda locale racconta che nei giorni immediatamente successivi alla Crocifissione di Gesù, Giuseppe d’Arimatea portò il Graal dalla Terra Santa in Inghilterra. Di là arrivò infine a Glastonbury, e quando ebbe scalato la ripida collina che oggi si chiama Wirrall Hill, conficcò il suo bastone nel terreno e disse (per qualche oscura ragione in inglese): «Are we not weary all» («Non siamo tutti stanchi»). Da allora la collina sarebbe chiamata «Weary-all (Wirrall) Hill». Il bastone mise le radici, germogliò rami e foglie e sarebbe diventato il progenitore del biancospino che si trova ancora oggi sulla collina. I “discendenti” del biancospino di Giuseppe fioriscono due volte l’anno, di cui una a dicembre; e un ramo di questi cespugli viene inviato ogni anno alla famiglia reale britannica per abbellire la tavola della colazione di Natale. Si dice
inoltre che lo stesso Giuseppe d’Arimatea si stabilì a Glastonbury dove fondò un monastero. E il Graal stesso si troverebbe da qualche parte nella Chalice Hill («Collina del Calice») tra Glastonbury Tor e Wirrall Hill, colorando di rosso l’acqua che sgorga nel Chalice Well (Pozzo del Calice). È solo un esempio di quanto la leggenda di questa coppa si sia radicata in molti luoghi della Gran Bretagna e non solo. E allora ricostruire le radici di questi miti e i loro intrecci nei secoli, indagando le leggende celtiche da un lato e la tradizione cristiana, vangeli apocrifi compresi, dall’altro, è una sfida in cui Egeler si cimenta fornendo al lettore un sacco di interpretazioni e di spunti. Potreste scoprire, ad esempio, che il mito arturiano e del Graal è collegato
anche a una serie di luoghi in Italia, come il duomo di Modena, e che la sua diffusione nella nostra penisola resta abbastanza misteriosa, avvenuta prima ancora che si diffondessero gli scritti di Chrétien de Troyes. Ma c’è spazio anche per la modernità e per ciò che il Graal è diventato nel corso dei secoli e anche nel nostro immaginario, come dicevamo arrivando sino al cinema e a Indiana Jones. Ah, a proposito di Indiana Jones e fantasia... La smania nazista di mettere le mani sul Graal, metaforicamente e no, è un fatto e non un mito. Negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale la ricezione del mito del Graal in Germania assunse forme particolarmente eclatanti e riguardò anche i vertici dell’apparato nazista. Ad esempio l’enorme significato che il Führer attribuiva all’opera di Wagner dedicata al Graal si rifletteva anche nel suo progetto di rendere questo dramma musicale il cuore di un’imponente celebrazione dopo la vittoria finale. Ma c’erano degli antecedenti anche negli anni che precedettero lo scoppio del conflitto. Un manifesto di propaganda del 1936, per esempio, mostra Hitler come un cavaliere medievale in armatura corazzata e con in mano uno stendardo a svastica, rappresentandolo come un moderno Parsifal, cavaliere del Graal, un salvatore con sfumature religioso-mitiche. Il regime nazista utilizzò il Graal anche nell’architettura: nel castello di Wewelsburg, che fu convertito a uso delle Ss a partire dal 1934, una stanza venne chiamata «Graal» e fu allestita una sala rotonda che evocava la scenografia della prima del Parsifal del 1882.

L’impianto fu probabilmente influenzato dall’idea di costruire un nuovo castello del Graal, un’idea molto diffusa negli ambienti nazionalisti e occultisti dall’inizio del secolo. E davvero i nazisti si sono recati in ogni dove per cercare la sacra coppa, a partire da Otto Rahn. Questo non è un mito, leggere le dense pagine di Egeler per credere.


Matthias Egeler
Il Mulino 
pagg. 132
euro 15

domenica 8 ottobre 2023

Quando i nazisti andarono alla ricerca di Atlantide

tratto da Inside Over del 19 GENNAIO 2022

di Pietro Emanueli

Immagine tratta da Wikipedia:
https://it.wikipedia.org/wiki/Atlantide#/media/File:Atlantis_Kircher_Mundus_subterraneus_1678.jpg

I nazisti avevano un’ossessione verso la razza, come l’Olocausto degli ebrei, degli slavi e del popolo romani ha orribilmente dimostrato, ed è storia che abbiano avuto anche una profonda fissazione nei confronti di tutto ciò che riguardasse l’esoterico, l’occulto e il mistico. Perché il nazismo, ancor prima che politica, fu religione.

Scrivere e parlare del lato misterico di quello che Alfred Rosenberg aveva definito il Mito del ventesimo secolo è più che importante – è indispensabile –, perché è soltanto disaminando ciò che accadde nel dietro le quinte del Reichstag che si può comprendere la lucidità delle imprese apparentemente folli dell’Ahnenerbe. Imprese come la caccia al Santo Graal, la spedizione in Tibet, la missione in Amazzonia e la dimenticata ricerca di Atlantide.

Le prime ricerche

Dietro ogni leggenda si cela un pizzico di verità, così si suol dire, e il rinvenimento delle colonne d’Ercole ne è l’ennesima dimostrazione. E i nazisti, per un insieme di ragioni avevano affidato all’Ahnenerbe il compito di indagare sugli antichi miti europei, erano legati ad una leggenda in particolare: quella della civiltà perduta di Atlantide.

La storia della ricerca di Atlantide è la seguente. Nel 1935, anno della fondazione dell’Ahnenerbe, Heinrich Himmler radunò una squadra di specialisti in una varietà di discipline – archeologia, esplorazione sottomarina, storia – allo scopo di trovare prove della passata esistenza di quest’isola perduta, localizzata al di là delle colonne d’Ercole, che stando alle cronache degli antichi sarebbe stata la casa di una civiltà avanzata. Una civiltà che, secondo gli occultisti e gli esoteristi che avevano ispirato la mitologia nazista – come la Società di Thule, la Società Teosofica di Madame Blavatsky e la Società Antroposofica di Rudolf Steiner –, sarebbe stata collegata agli iperborei ed un’espressione della razza ariana.

Influenzato da Herman Wirth, storico fermamente convinto della passata esistenza dell’isola-civiltà e co-fondatore dell’Ahnenerbe, Himmler diede il via all’operazione Atlantide. I cantieri furono inaugurati nell’Europa continentale, più precisamente nel complesso megalitico di Externsteine, dove fu data vita ad una sessione di scavi archeologici supervisionata da Wilhelm Teudt. Gli scavi non contribuirono agli scopi della missione, non avendo portato alla luce nessun collegamento tra il sito e Atlantide, ma Externsteine, a partire dal 1935, sarebbe comunque divenuto uno dei luoghi-simbolo del misticismo nazista.

Una missione senza confini

Wirth e Himmler avrebbero seguito i lavori dell’operazione Atlantide, a Externsteine come nel resto del mondo, da una pittoresca palazzina costruita appositamente per pubblicizzare la bizzarra missione, Haus Atlantis – ancora oggi esistente –, realizzata dal visionario architetto Bernhard Hoetger e fungente da centro studi su Atlantide.

Da Haus Atlantis, un veridico incubatore di idee, nel dopo-Externsteine sarebbe provenuta l’idea di estendere le ricerche al Tibet, ritenuto un luogo tanto connesso ad Atlantide quanto ad altri miti di interesse per l’Ahnenerbe, come l’Iperborea, il regno sotterraneo di Agarthi e la teoria del ghiaccio cosmico. L’insieme di moventi di cui sopra, nel 1938, avrebbe dato vita alla spedizione nazista in Tibet.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale, come è noto, avrebbe posto un freno all’Ahnenerbe, coartando il governo a riorientare le risorse dalla ricerca pseudostorica al settore bellico. Haus Atlantis, ad ogni modo, avrebbe continuato le proprie attività fino al 1945, attraendo ricercatori e semplici appassionati ai miti del mondo antico e raccogliendo fondi utili a espletare missioni di ricerca tra Francia, Islanda, Scozia e Svezia.