tratto da L'Indipendenza
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di REDAZIONE
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Relegate spesso al mondo dell’infanzia, le fiabe rievocano da sempre
l’immagine della nonna e dei bambini davanti al focolare durante le
fredde e lunghe notti d’inverno. Le fiabe popolari non nascono dalla
fantasia di un autore, noto o anonimo che sia, ma sono il frutto di una
lunga serie di storie raccontate e ripetute nel corso degli anni,
variegate in mille piccole sfumature. Affondano le loro radici profonde
nel fertile terreno di miti e leggende. La raccolta di fiabe dei
fratelli Grimm è forse l’esempio più eccellente. Perché si usa la
bacchetta magica per produrre un incantesimo o lanciare un maleficio?
Chi sono le fate che si presentano alla culla di Rosaspina, la bella
addormentata? Come fanno i nani ad abitare dentro la roccia? Perché gli
animali riescono a parlare e ad essere compresi dagli uomini? Come si fa
a diventare invisibili? Perché non si deve sapere né pronunciare il
nome di esseri terribili? Molte saranno le domande che sorgeranno nel
corso della lettura di questo saggio che si propone di rintracciare e
approfondire le origini di personaggi, situazioni ed episodi entrando
nel mondo variopinto ed affascinante delle mitologie di matrice
indoeuropea, con particolare attenzione a quelle appartenenti ai popoli
che un tempo abitavano le terre germaniche: Celti e Germani, che si sono
poi spinti verso Ovest e verso Nord creando le meravigliose culture
irlandesi, gallesi e nordiche. Si scoprirà così che nulla è raccontanto
per caso, ma che il piccolo particolare a cui non prestiamo attenzione è
in realtà un riflesso di antiche leggende e miti indelebili nelle
culture di questi popoli.
Prefazione di Paolo Gulisano. Dal Mito alla Fiaba
Nel corso del Novecento è stato possibile assistere ad un fenomeno
letterario interessante e sorprendente: il ritorno nella narrativa del
Mito e dell’Epica. Accendendo ancora una volta la fantasia degli uomini,
chiamando nuovamente l’attenzione dei cantastorie su di sé, suscitando
nuove versioni di antiche narrazioni, il Mito, rappresentato, oltre che
sulla carta, anche sul grande schermo, ha dimostrato di essere vivo e
vitale nella fantasia e nei sogni. Scrittori anglosassoni come
Chesterton, Tolkien, Lewis, ma anche tedeschi come Michael Ende, hanno
proposto ai lettori disincantati della Modernità le loro storie,
leggende dai molti significati, dai valori profondi, arcaici,
strettamente intrecciati con la storia e i miti dell’Europa. Anni fa, in
una fortunata versione cinematografica del mito di Artù, Excalibur di
John Boorman, il Mago Merlino pronunciava queste suggestive parole: la
maledizione degli uomini è che essi dimenticano.
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Una
frase quanto mai vera, e sulla quale riflettere. La memoria, sembra
dirci Merlino, è tra le risorse umane una delle più importanti: occorre
coltivarla come una virtù, con amorevole attenzione. Ci può salvare
dalla superficialità di giudizio, dall’ingratitudine, da una vita senza
gusto e significato, facendoci invece considerare con più attenzione le
realtà con le quali bisogna sempre fare i conti: il bene e il male, il
futuro e il passato, il mistero della vita. Le storie di Tolkien, Lewis,
Ende, o anche il discusso Harry Potter di Joanne Rowling o coloro, come
Mary Stewart, che hanno rivisitato le leggende medievali di Merlino, di
Re Artù, dei Cavalieri della Tavola Rotonda, nella loro fervida
immaginazione, hanno il pregio di non dimenticare queste questioni
fondamentali. Sta tutto qui il loro fascino, quello che fa produrre
ancora nuove spettacolari versioni del mito: non è una pura evasione
dalla realtà per rifugiarsi nella fantasia, ma è forse l’occasione per
volgere lo sguardo verso cose grandi, verso noi stessi e la nostra anima
assetata di Bellezza, verso le stelle, cercando i segni del nostro
destino. Come ha insegnato il grande creatore di miti J.R.R. Tolkien, la
letteratura dell’immaginario può essere lo specchio dei gusti, degli
umori e addirittura della condizione psicologica dell’epoca moderna,
esprimendo i dubbi, le paure, le domande insoddisfatte, le esigenze
profonde dell’animo umano. I miti, i simboli, le leggende e le
tradizioni ci rivelano noi stessi. Non è un caso, probabilmente, che
molti di questi grandi scrittori furono insigni medievisti: al centro di
tutto il Medio Evo infatti c’era il simbolo: la vita dell’uomo
medievale era inscritta in un universo simbolico, dove ogni forma del
pensiero, artistica, mistica, teologica, si basava su di esso.
L’esperienza quotidiana era esperienza spirituale, nutrita dai simboli
che la provocavano, la animavano, le conferivano un valore profondo.
L’abilità narrativa e la fervida immaginazione di chi scolpiva le
cattedrali gotiche, con i suoi mostri e le sue creature fantastiche, o
di chi scriveva la storia della Cerca del Santo Graal o le peripezie di
un Re e della sua spada incantata adoperavano il linguaggio del simbolo,
che trasfigurava la realtà stessa, ed è stato capace di mantenere la
sua intensità e il suo valore, trascorrendo, inattaccabile, il tempo e
la storia.
Il lettore disincantato di oggi viene quindi provocato opportunamente
dal racconto fantastico, sia che si tratti di fiaba o di narrazione
epica, di leggenda come di racconto “gotico”; sospeso tra il misterioso e
il terribile, è sempre in qualche modo espressione umana sottesa tra il
sacro e il profano, a partire dal linguaggio, che reca sempre in sè le
tracce di arcaici miti, fino ai contenuti, che sono comunque e sempre
quelli del fantastico, ossia dell’irruzione, oscura e inquietante oppure
solare e confortante di un evento soprannaturale nella realtà
quotidiana. Non c’è generazione di lettori (o di spettatori) la quale, a
dispetto di tutte le mode, non senta la suggestione dell’ elemento
fantastico, mitico, fiabesco: un tipo di letteratura portatrice di una
sapienza antichissima, che mimetizza i suoi contenuti nel linguaggio
apparentemente semplice ed infantile delle fiabe, o del folklore
popolare. Il mito è necessario perché la realtà è molto più grande della
razionalità. Il mito è visione, è nostalgia per l’eternità. Il mito non
è metafora o allegoria, ma simbolo, ossia segno che rimanda ad un
significato ultimo che l’uomo deve riconoscere e interpretare. Il mito,
nella storia dell’umanità, non è mai stato contrapposto, come avviene
oggi, alla realtà; il mito è sempre stato per sua stessa natura vero,
espressione della verità delle cose. Nel mito si veniva a contatto con
qualcosa di vero che si era pienamente manifestato nella storia, e
questa manifestazione poteva fondare sia una struttura del reale che un
comportamento umano. Il mito è un mezzo per dare risposte a questioni
fondamentali come l’origine dell’uomo, il bene, il male, l’amore, la
morte e per dare spiegazioni ai fenomeni della natura. Se il mito è il
nesso, il legame che l’uomo ha sempre cercato con il senso della vita,
esso non può quindi che essere considerato un’espressione naturale ed
antichissima del senso religioso che vive nel cuore dell’uomo. Nel corso
della Modernità, gli antichi miti d’Europa – celtici, norreni, greci e
così via- si sono occultati nelle fiabe. Un luogo nascosto, protetto, un
luogo apparentemente per bambini. Roger Caillois sostenne che “la fiaba
è un racconto situato fin dal principio nel mondo fittizio degli
incantatori e dei geni. Le prime parole della prima frase sono già un
avvertimento: In quel tempo oppure C’era una volta… Per questo le fate e
gli orchi non spaventano nessuno. L’immaginazione li confina in un
mondo lontano, fluido, impenetrabile, senza rapporto né comunicazione
con la realtà di ogni giorno nella quale è pressoché impensabile che
essi possano fare irruzione. (…) La differenza balza agli occhi –
prosegue Caillois spingendosi nel fantasy così detto gotico o anche
horror – quando si tratta di fantasmi o di vampiri. Certo, anche loro
sono esseri immaginari, eppure li colloca in un mondo tutt’altro che
immaginario; anzi, se li rappresenta come creature che fanno le loro
apparizioni nel mondo reale, apparizioni che sono per giunta
incomprensibili, terribili, invariabilmente funeste. (…) Così le
manifestazioni del fantastico derivano tutte dallo stesso principio.
Esse sono tanto più terribili quanto più il loro scenario è famigliare,
le loro vie più subdole o fulminee, quanto più si presentano con un non
so che di fatale e d’irrimediabile che si sprigiona da una rigorosa
concatenizzazione degli eventi.” La fiaba dunque come un viaggio
iniziatico, come una serie di tappe di un viaggio, di un’impresa.
Lo studio di Alessandra Tozzi che il lettore ha tra le mani è una
guida preziosa per avventurarsi su questo cammino, per riconoscere i
segnali indicatori, per non smarrirsi nel labirinto, e soprattutto per
farci ritrovare e riassaporare il significato di un patrimonio culturale
che va conservato, difeso, valorizzato, e tramandato.
TITOLO: Brunilde e Rosaspina. Mito e fiaba dagli Indoeuropei ai
fratelli Grimm; AUTRICE: Alessandra Tozzi, PREFAZIONE: Paolo Gulisano;
EDITORE: Il Cerchio; COLLANA: Fantasia; PAGINE: 392; PREZZO: euro 25,00