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L’antropomorfismo
delle civiltà antiche portò alla personificazione delle montagne o alture nelle
quali si credette di ravvisare divinità e personaggi mitologici dall’aspetto
umano.
Anche la Majella , massiccio
montuoso dell’Abruzzo, divenne, agli occhi dei suoi primi abitanti, una
divinità. Il suo nome deriva dalla Magna Mater italica Maja, che
significherebbe, secondo alcuni, cresta,montagna; secondo altri grandezza
intesa come forza o potenza; infine taluni hanno creduto di ravvisare in esso
la radice del nome “Amazzone”.
In molte leggende nate in
Abruzzo si parla di gigantesse guerriere chiamate “Majellane”, che indossavano
grossi orecchini di forma circolare e collane costituite da enormi sfere
sfaccettate.
Maia
o Maja era una di queste donne colossali che insieme al suo unico figlio fuggì
dalla Frigia per riparare nel porto di Ortona, dove con il ragazzo ferito in
battaglia tra le braccia, in groppa a un veloce destriero, per sfuggire ai suoi nemici, si rifugiò tra
gli anfratti, i boschi e le rocciose vette delle montagne abruzzesi dove,
malgrado le sue cure, egli morì di lì a poco. Allora, lo seppellì sulla terza
vetta del Gran Sasso andando da Oriente verso Occidente.
La
disperazione di Maja fu così forte che nel giro di poco tempo morì anche lei e
fu seppellita in montagna che in suo onore fu chiamata Majella, il mausoleo
della Magna Mater abruzzese.
In
un'altra leggenda si racconta che Maja era la più bella delle sette Pleiadi di
cui si innamorò Zeus, fu anche la moglie di Vulcano e la madre di Ermes. Sul
Monte Pallano, essa cercò le erbe per curare suo figlio, il quale, nel giro di
poco tempo, perì.
Di fronte all’imponente profilo del
massiccio montuoso della Majella, in Abruzzo e più precisamente, nella provincia
di Chieti, si staglia il Monte Pallano; un colle sulla cui sommità svetta il
simbolo della società moderna e tecnicizzata:
il ripetitore tv e antenne per la telefonia mobile; poche balze più in
basso, però, vi sono i ruderi di un’
antica città, delimitata da una possente cinta muraria, composta da blocchi di
pietra calcarea sovrapposti a secco.
Il
Monte Pallano è alto all’incirca 1020 metri ed è avvolto da una fitta
vegetazione che va dalle querce fino ai
lecci, passando per i cerri e faggi.
Il
suo territorio è diviso tra il comune di Archi, Atessa, Tornareccio e Bomba. La
fauna che popola questo primitivo angolo d’Abruzzo è composto da: volpi, tassi,
lepri, qualche cinghiale, ovviamente i serpenti, ramarri e uccelli rapaci
notturni e diurni.
Questo
luogo funge da spartiacque tra la valle del Sangro e quella dell’Osento. Dalla
sommità di questo monte lo sguardo si perde sulle cime dell’Appennino
Marchigiano fino a immergersi nelle coste della ex Jugoslavia, sostando sul
Faro di Puntapenna a Vasto, e sull’antica Abbazia di Santo Stefano ad Riva
Maris, potente monastero distrutto dai mori.
L’aspetto
peculiare di Monte Pallano è costituito da mura ciclopiche che si ergono per
circa 163 metri
in prossimità della vetta, raggiungono l’altezza e lo spessore di circa 5 metri ; essi risultano leggermente inclinati
rispetto al terreno circostante e recingono solo parte del versante di
Tornareccio, poiché il resto è difeso dall’asperità del paesaggio come:
canaloni, vegetazione intricata, angusti viottoli, rocce etc.
In passato, vi si accedeva tramite quattro
porte molto strette, di cui solo tre sono, al momento, visibili, di cui, una,
ancora in fase di recupero, poiché nel 1971, fu distrutta a causa di un
allargamento di una strada rurale. La più grande e la meglio conservata viene
chiamata “Porta del Piano”, l’altro ingresso più basso è chiamato “Porta del
Monte”; queste anguste aperture, che
hanno la trave principale costituita da un monolite unico, servivano per il
passaggio di una persona per volta o di un unico cavaliere, così in caso di
attacco nemico, esse potevano essere
facilmente sorvegliato.
Il
suo toponimo potrebbe derivare dal nome della dea Pale, protettrice dei pastori
a cui si tributavano offerte per propiziare fecondità e salute delle greggi.
La
dea Pale, che spesso è rappresentata
anche come un dio, ha molte caratteristiche simili a Eracle – Ercole, questo
fatto è suffragato anche da ritrovamenti fatti nella zona di Pallano. Eracle era l’eroe nazionale greco, ma il suo
mito si diffuse anche in Oriente, in Europa e ovviamente preso gli Italici.
Egli, come le dee Pale, Bona, Maia e in generale le divinità agresti, erano i
numi tutelari dell’agricoltura e di tutto ciò che era legato ad esso, inoltre
si invocava questo semidio anche per la stipula di contratti, in quanto egli
era anche il protettore della “parola data” e “della buona fede”. Veniva,
spesso, rappresentato con la clava e la
pelle leonina addosso, con arco e faretra, e presso gli Italici indossava la
corazza; aveva quasi sempre la barba ed era nudo con una possente muscolatura. Egli nutriva dell’astio nei confronti della
dea Maia – Bona, la quale si rifiutò di farlo bere alla sua fonte durante le
celebrazioni dei riti annuali ad ella dedicati, ai quali erano interdetti gli
uomini. Ercole – Eracle stanco ed affaticato per l’ennesima fatica patita, non
si era reso conto della situazione e così da quell’episodio disdicevole che
nacque il divieto alle donne di partecipare ai riti in onore dell’eroe.
Il
sincretismo cristiano assimilò questo eroe mitologico con Sant’Antonio Abate o
del deserto, del fuoco o del porcello con connotazioni prettamente agricole;
infatti, ancora oggi, è in uso, presso i contadini invocare il Santo per
propiziare la fecondità del bestiame. Molte sono le analogie tra questi due
personaggi, per esempio come il suo archetipo, Antonio ha la barba, combatte
con le entità infernali ed è nato in oriente. Inoltre nella zona pedemontana di
Pallano, all’incrocio delle grandi arterie tratturali del passato, e
sull’attuale strada a scorrimento veloce Fondo Valle Sangro, sorge il Ponte di Sant’Antonio dalla vicina
chiesa a lui dedicata.
Tuttavia
non si può escludere che il toponimo Pallano potrebbe derivare dal nome della dea della sapienza Pallade ma
non vi sono molto elementi a supporto di tale tesi.
Alcune fonti ritengono,
invece, che il nome provenga dal termine
osco “Pala” che significa
rotondità o altura.
I
megaliti, comunque, non erano costruzioni obsolete, poiché se ne contano più di
duecento solo nella zona dell’alto e basso Sangro; questo complesso di
recinzioni, si ritiene, che facessero parte di una più ampia rete di elementi
difensivi disseminati in punti strategici, che si tenevano in contatto
attraverso segnali ottici notturni e diurni.
Il
Monte Pallano, doveva, presumibilmente, essere, per la sua particolare
conformazione geomorfologia, un punto strategicamente fondamentale e un sicuro
baluardo contro la colonizzazione ellenica, in quanto rappresentava l’ultima
montagna prima del mare.
Questa
cinta muraria sono le vestigia di antiche civiltà preistoriche la cui origine
si perde nella notte dei tempi, giacché, essa, data intorno al IV - VI secolo
a. C., sembra essere stata edificata su elementi preesistenti.
La
presenza umana, in questi luoghi, si fa
risalire a circa 20000 anni fa e anche se rara,
essa era basata su gruppi più o meno organizzati.
Nel
millennio che definiamo come Età del Ferro, o meglio la fine dell’Età del
Bronzo e l’inizio dell’Età del Ferro,
che viene circoscritta dal 1020 fino al III secolo a.C., la penisola italiana
era costituita da un mosaico di popoli con usi e costumi diversi: l’area
settentrionale e meridionale era influenzata dalla cultura ellenico-orientale,
il centro, invece, era organizzato in confederazioni su modello centroeuropeo.
Una
differenza fondamentale tra queste due aree di influenza era il modo di
seppellire i morti; quelle popolazioni
affine alla cultura
greco-orientale, bruciavano il loro defunti e ne conservavano i resti in urne
bronzee, invece gli altri li tumulavano in fosse che venivano ricoperte da
tumuli di terra.
Nel
centro Italia, cioè nella Sabina, Abruzzo, Molise, Campania e Basilicata vi
erano stanziati i Sabini, Peligni, Marruccini, Marsi Aequi, Vestini, Pretuzi,
Frentani, Pentrini, Carracini, Sabelli, Sanniti e Umbri che venivano
genericamente definiti, dall’etimo osco, “Safin” . I Frentani, invece,
occupavano la fascia costiera del Molise e la parte centrale litorale
dell’attuale territorio chietino. Una popolazione affine ad essi occupava la
destra del fiume Sangro ed era chiamata Lucani o Lucanati e risultavano culturalmente
analoghi agli altri popoli del centro peninsulare definiti, poi, dai romani
come Italici.
Questi
popoli erano il risultato dell’unione tra pacifici agricoltori autoctoni e
pastori guerrieri cercatori di metalli provenienti dalla zona egeo – anatolica,
apportatori di tecniche superiori come la transumanza, praticamente sconosciuta
presso i popoli neolitici.
Nel
I millennio a. C. con l’affermarsi della cultura agreste tipica dei Piceni, la
pastorizia fu relegata solo alle zone montane interne. In seguito con l’avvento
dei bellicosi Sabelli si diede un nuovo impulso alla pastorizia, la quale per
varie ragioni si praticò solo verticalmente, cioè dai monti alle valli
circostanti; per favorire tale tecnica essi edificarono i Vici, villaggi agro pastorali,
situati in pianura erano difesi dagli Oppida, borghi costruiti su alture e
protette da possenti mura, simili a quelli del Monte Pallano.
Il
primo insediamento di cui abbiamo traccia in questa zona di Pallano è quello
adiacente all’incavo naturale chiamato Lago Nero, che oggi risulta
completamente asciutto, che si ubicava nei pressi della cima del monte. Questo
lago, che si riempiva solo in determinate condizioni climatiche, era
considerato dall’uomo di Pallano, come una divinità alla quale erano tributati
culti magico-misterici correlate, alla presenza o meno delle sue acque.
In
questo contesto mistico legato all’acqua, che i Lucanati probabilmente,
celebravano anche i riti della Primavera Sacra o Ver Sacrum, durante la quale
un capo, in questo caso il Nerf, principe guerriero con poteri assoluti,
compreso quello religioso, consacrava, forse al Lago Nero, tutti gli esseri
viventi che sarebbero nati nella primavera successiva, i quali una volta
adulti, venivano allontanati dal consorzio civile perché appartenete alla deità
e con il compito di colonizzare nuove terre lontane. In realtà molto di coloro
che venivano offerti come ex voto risultavano poco gradite alla comunità; questi si riunivano, spesso, in
vere e proprie milizie paramilitari fuorilegge che terrorizzavano la zona e non
solo.
Questo
culto era connesso anche alla dea Maja o Maia, la Grande Madre ,
chiamata anche Vergiliae per il suo stretto rapporto con la primavera di cui ne
era una epifania.
Il nome Maia, tra i tanti significati che gli
sono stati attribuiti, c’è anche quello di accrescimento, sviluppo e fertilità
del suolo, nonché essa da il nome al mese di Maggio, cioè, il mese in cui si
risveglia Madre Natura ed è anche quello dedicato alla Vergine Maria.
Maia,
come abbiamo detto, era una gigantessa
facente parte delle mitiche amazzoni e secondo vox populi, i Megaliti Palatini
sono stati costruiti da uomini mastodontici, i quali risiedevano all’interno
delle mura e andavano a lavorare in Puglia.
Essi
erano, secondo alcuni miti medioevali abruzzesi, i Paladini o Palladini di Carlo Magno che la fantasia popolare ha
associato ad alcuni scheletri enormi ritrovati nella zona. Intorno al 1954
circa, infatti, si stavano ultimando dei lavori per la costruzione di una
strada quando venne alla luce uno scheletro di un uomo alto circa tre metri che
calzava dei parastinchi, tra lo stupore generale egli venne tolto dallo scavo,
ma siccome i lavori dovevano andare avanti ed il più velocemente possibile, lo
scheletro gigante fu occultato e di esso non si seppe più niente.
Questa
cinta muraria non aveva comunque, solo valenza difensiva, ma era anche un luogo
di culto dedicato, presumibilmente, alla Grande Madre, il quale posto su un
monte poteva fungere, forse, da osservatorio astronomico orientato verso le
stelle chiamate Pleiadi.
Le
Pleiadi fanno parte della costellazione del Toro che nonostante il loro scarso
splendore, se comparato alle vicine Orione e Aldebaran, hanno, da
sempre,suscitato interesse negli astronomi di tutte le epoche, che hanno visto
in esse un qualcosa di misterioso e arcano.
Intorno
al 2500 a .C.
questo gruppo di stelle, acquistano una notevole importanza presso gli abitanti
della Mesopotamia, in quanto il loro sorgere corrispondente all’equinozio
primaverile, che coincideva con il loro capodanno.
I
greci le intitolarono il grande anno processionale, consistente in circa 26
mila anni solari, che venne chiamato, appunto, “Il grande anno delle Pleiadi”,
che, però, nei secoli successivi prese il nome di “anno platonico”.
Nell’antichità
ai marinai, la loro apparizione nel cielo primaverile, cioè il 10 maggio,
indicava il periodo dell’anno propizio alla navigazione, dopo il riposo
invernale, il quale si concludeva l’11 novembre quando esse divenivano
invisibili. Questo lasso di tempo era chiamato dai Celti All Hallows Evens,
cioè il tempo in cui i vivi potevano incontrare i morti, che il sincretismo
cristiano trasformò nella festa di “Ognisanti”.
In
passato, queste stelle erano visibili dalla primavera in poi, oggi, a causa
della precessione degli equinozio, sono visibili dalla metà di agosto fino alla
fine di marzo.
Nell’antica
Grecia si narrava che queste sette sorelle, figlie di Pleione e Atlante, prima
della loro mutazione in astri, si erano unite a
dei, partorendo altrettante divinità o eroi, Maja la più vecchia e più
bella, giacendo con il padre degli dei generò, Ermes, come fecero le sue
sorelle con altrettante divinità maschili, la cui stirpe avrebbe fondato città
o imperi, solo Merope essendosi unita ad un mortale aveva interrotto la stirpe
divina; perciò nel momento in cui fu trasformata in stella, insieme alle altre,
vergognandosi della sua scelta affettiva, si celò agli esseri umani.
Parlando
dell’Atlantidi perdute, in un’altra narrazione, non si fa riferimento a Merope,
bensì a Elettra, la quale, dopo la sconfitta di Troia, fondata da suo figlio
Dardano, in preda alla disperazione si rifugiò nel circolo polare Artico da
dove torna ciclicamente con i capelli scompigliati in segno di grande dolore,
cioè come una stella cometa.
Alcuni
miti narrano che queste siano state trasformate in stelle in segno di
riconoscenza per la loro saggezza.
Un’altra
versione del mito si dice che esse piansero così tanto per la sorte del loro
padre che per questo divennero stelle.
Infine
in uno dei tanti racconti popolari nati intorno alle Pleiadi, si dice che un
giorno Pleione e le sue figlie erano in Boezia quando furono aggredite da
Orione, il grande cacciatore, che voleva abusare di loro esse, riuscirono
miracolosamente a fuggire e stettero nascose per cinque anni finché Zeus non le
trasformò in astri del firmamento.
Questo
gruppo di stelle in realtà è composto da oltre novecento corpi celesti ma solo
sei o sette sono visibili ad occhio nudo esse sono: la più scintillante
Alcione, tempesta invernale, Taigete, ninfa della montagna, Asterope, Elettra,
ombra, Maja, fertilità, Merope,
mortalità, e Celano, oscurità.
Il
loro nome deriverebbe dalla parola “navigare” in quanto indicava il periodo
dell’anno più adatto alla navigazione,
potrebbe derivare dalla parola “più” poiché ne sono tante, il loro nome
greco, invece, significa “stormo di
colombe” perché sembra che prima di divenire stelle fossero colombe inseguite
da Orione.
L’insediamento
di Monte Pallano, come si è detto precedentemente era strategicamente ottimo,
per questo esso resistette a lungo alla colonizzazione forzata e violenta dei
romani, che con tre Guerre Sociali,
assoggettarono gli Italici.
Questa
romanizzazione brutale e inevitabile portò anche all’urbanizzazione di quelle
comunità tribali sparse in tutta la valle del Sangro; le quali si aggregarono in vere e proprie
città, come quella che nacque nella zona di Fonte Benedetti quasi alle falde di
Monte Pallano.
Questa città, di cui ignoriamo il nome, che era forse la Palacinum impressa in
alcune monete ritrovate sul posto,
doveva essere molto ricca ed operosa dato che batteva moneta e si
trovava in una posizione particolarmente favorevole al controllo dei traffici
lungo il braccio tratturale secondario
Centurelle-Montesecco, rispetto al più importante tratturo Aquila – Foggia,
oggi in parte inglobata nella strada a scorrimento veloce “Fondo Valle Sangro”.
Nonostante queste buone premesse questa comunità non divenne
mai “Municipio Romano” e, così, gradatamente ma, inesorabilmente, la presenza
antropica dei luoghi divenne sempre più rara e limitata solo ai Tholos, ripari
in pietra usata dai pastori e greggi durante la transumanza.
Durante il Medioevo, molte furono le abbazie e luoghi
di culto che si concentrarono a ridosso della zona pedemontana del monte in
questione. Per una curiosa coincidenza, forse voluta dai suoi costruttori,
lungo la strada che congiunge il mare Adriatico al Monte Pallano vi sono ben
tre chiese dedicate a Santo Stefano: la prima Santo Stefano erga mare, nel
territorio di Vasto, la seconda Santo Stefano rivum maris a Casalbordino, la
terza Santo Stefano in Lucania a Tornareccio. A questa enigmatica casualità si
aggiunge anche un destino comune che unì la storia di questi tre luoghi.
E’ notorio che questo protomartire morì lapidato per
il suo eccessivo zelo nella diffusione del “Verbo” cristiano. Il suo culto
dilagò prepotentemente, dall’oriente fino ad arrivare anche in Abruzzo, poiché
esso si intrecciò indissolubilmente con l’agiografia di Santo Stefano in
Lucania, parroco della zona Frentana, attuale Lanciano e dintorni, che fu
ammazzato barbaramente insieme ai suoi figli dai mori di Pallonio, despota saraceno che viveva nel
castello di Monte Pallano, di cui oggi non si è trovata nessuna traccia se non
nei toponimi. I resti del Santo e dei suoi figli furono trovati diversi secoli
dopo grazie a un sogno premonitore e in quel luogo fu edificata la chiesa che porta
il suo nome. In un'altra versione si dice che Pallonio, da qui, forse, il nome
Pallano, avesse imprigionato i cristiani all’interno dei megaliti affinché
abiurassero il loro credo, e quelli che non lo fecero furono trucidati.
Queste leggende nacquero in seguito alle scorrerie dei
mori che terrorizzavano la costa adriatica e intorno alla prima metà dell’anno
Mille, questa chiesa come le altre tre
dedicate al protomartire furono profanate, saccheggiate e distrutte dai
saraceni, come in una sorta di invisibile e comune destino che associò questi
luoghi di culto.
Santo Stefano in Lucania risorse molto lentamente e
faticosamente, Santo Stefano ad rivum maris, invece ebbe un più rapida ripresa
ma fu profanato per ben tre volte e
quando nel 1566 Pialy Pascià, mise a ferro e fuoco tutta la riviera
adriatica, da Pescara a Termoli, distrusse definitivamente questo luogo sacro,
nato su edifici romani preesistenti Egli, dopo aver preso prigionieri i monaci,
li sevizio e impiccò sui ruderi della chiesa;
così si compì il tragico destino
della potente abbazia di Santo Stefano ad rivum maris.
Sempre durante
l’Evo medio si svilupparono molti miti intorno a questa costruzione atipica,
che venne chiamata anche con l’appellativo di “ Mura del Diavolo” , perché in
alcune leggende si sosteneva che nelle viscere del monte vi fossero seppelliti
ingenti tesori, tutti custoditi da demoni, imprigionati in quei luoghi da
malefici; questa credenza popolare ricorda quella degli indiani d’America che
costruivano le loro “ Ruote della Medicina”, una sorta di cerchi magici che si
dipanavano a raggiera lungo i pendii delle alture, al cui interno vi erano
rinchiusi entità malvagie. Il tesoro più cospicuo è composto da una gallina
tutta d’oro e dai suoi pulcini, che razzolano nei vari cunicoli di Pallano.
Questa leggenda avvalorerebbe la tesi che queste mura
megalitiche sarebbero in realtà osservatori astronomici orientati verso le
Pleiadi in quanto, esse, erano conosciute dai nostri avi dediti
all’agricoltura, come le “Gallinelle”con
le quali si misurava il tempo, così, quando esse sorgevano su Montepallano
all’alba, erano circa le quattro di mattina, quando erano visibile sul far
della sera erano foriere di pioggia. I francesi chiamano la gallina Alcione
e,le sorelle, i pulcini.
Secondo alcune leggende queste mura megalitiche sono
state costruite dalle fate; infatti, in molte tradizioni, queste costruzioni
sono conosciute come “pietra delle fate”.
Di
Nicoletta Camilla Travaglini
Fonti:
A.A.V.V., L’enciclopedia
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CATTABIANI, Alfredo, Planetario,
Simbolo, miti e misteri di astri, pianeti e costellazioni, Arnaldo
Mondadori Editori S.p.A. Milano Marzo
2003.
CHEVALIER, Jean; GHEERBRANDT Alain; Dizionario dei Simboli, Biblioteca Universale
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GARDNER, Laurence: “ Il
regno dei signori degli anelli mito e magia del Santo Graal” 2001 Newton &
Compton editori s.r.l.
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PANSA, Giovanni, Miti,
leggende e superstizioni dell’Abruzzo, Arnaldo Forni Editore Sulmona
1924.
PANSA, Giovanni, S.Domenico
di Cocullo e il culto dei Serpari della Marsica, Adelmo Polla Editore,
Dicembre 1992.
TRAVAGLINI, Nicoletta
in Mystero la Rivista del Possibile anno II n. 16 ed.
Mondo Ignoto srl. Roma.
TRAVAGLINI, Nicoletta, La
Magna Mater , in Graal n. 7 Gennaio/Febbraio 2004.
PERILLI, Vinicio, PERILLI, Enrico Da Freud a Jung a Hillman
edizione Samizar 2003
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