sabato 24 dicembre 2016

La simbologia occulta nella leggenda del Graal

Con estremo piacere vi segnaliamo il nuovo libro di Vito Foschi dedicato alla leggenda del Graal:

Il libro offre una lettura simbolica del Perceval di Chrétien de Troyes seguendo le lezioni di René Guénon. Dopo una descrizione della struttura del racconto che mette in evidenza una struttura tripartita tipica delle iniziazioni, che permette anche di ipotizzare una conclusione del romanzo lasciato incompiuto dall’autore, si passa ai vari aspetti simbolici contenuti nell’apparente semplice romanzo cavalleresco. Si scopre una ricchezza di simboli e significati molto densa, ritrovando aspetti iniziatici, del simbolismo alchemico, del mito del re sacerdote, il simbolismo dei colori, la simbologia del cuore e aspetti legati ai rituali agricoli e alla fecondità della terra.


Per poterlo acquistare e ve lo consigliamo veramente ;)



mercoledì 21 dicembre 2016

Che cos'è la pareidolia?

in collaborazione con Hesperya

tratto da: http://www.hesperya.net/il-ghost-hunting/che-cos-e-la-pareidolia/

di Stefano Urso

La pareidolia è l'illusione subcosciente che tende a ricondurre a forme note oggetti o profili dalla forma casuale.
È la tendenza istintiva e automatica a trovare forme familiari in immagini disordinate; l'associazione si manifesta in special modo verso le figure e i volti umani. Classici esempi sono la visione di animali o volti umani nelle nuvole.
Si ritiene che questa tendenza sia stata favorita dall'evoluzione perché consente di individuare situazioni di pericolo anche in presenza di pochi indizi, ad esempio riuscendo a scorgere un predatore mimetizzato tra la vegetazione.
La pareidolia consente spesso di dare una spiegazione razionale a fenomeni apparentemente paranormali, quali le apparizioni di immagini su muri o la comparsa di spettri nelle fotografie.


domenica 18 dicembre 2016

Viaggiare nel tempo? Adesso è concepibile

tratto da L'Opinione del 14 ottobre 2016

Partiamo dalla relatività e, per provare a figurarcene gli effetti, pensiamo ad una vecchia pellicola cinematografica, di quelle di una volta, di celluloide, e immaginiamo di rallentare (o al contrario accelerare) il motore del proiettore durante la visione. Quello che accadrà sarà che il “tempo locale” del film proiettato non coinciderà più con il tempo della storia realizzata dal regista e noi potremmo alla fine ritrovarci ad aver trascorso tre ore, quando la sua durata sarebbe stata invece di un’ora sola. È solo una rappresentazione, abbiamo rallentato il film non la realtà, ma rende l’idea e aiuta a immaginare ciò che altrimenti è inimmaginabile, per noi che siamo sensorialmente e culturalmente del tutto impreparati all’idea. Grazie ad Albert Einstein, infatti, ormai sappiamo che il tempo è un fatto locale, relativo e cioè non un valore assoluto uguale ed immutabile ovunque - come abbiamo pensato per secoli - ma dipende in realtà dalla massa e dalla velocità del sistema di riferimento in cui viene misurato, cosicché, per esempio, viaggiando su di un razzo sufficientemente veloce per un tempo sufficientemente lungo, potremmo poi tornare sulla Terra e trovare i nipoti dei nostri nipoti e, magari, perfino più vecchi biologicamente di noi. E questa, anche se per ora sappiamo farlo solo con le particelle di cui allunghiamo la vita negli acceleratori, è già scienza dimostrata, passata in giudicato.

Fin qui Einstein. Ma ora immaginate di proiettare il film all’incontrario, facendo andare il motore del proiettore all’indietro. Ciò che succederà sarà che, nella visione, quello che nel film è il futuro diventerà il passato, il tempo locale sarà addirittura invertito, perché vediamo la pellicola dalla fine all’inizio. E questo è reso possibile da un fatto fondamentale: la persistenza delle immagini sulla striscia di celluloide, che non scompaiono durante una proiezione e sono sempre riproiettabili, il che vale a dire, in questa rappresentazione, la persistenza degli “attimi” di tempo. Il passato cioè non passa, non scompare e dunque potremmo ripercorrerlo. Se poi tagliamo uno o più fotogrammi o magari ne incolliamo di nuovi, avremo proprio cambiato la storia del film, a partire dal punto in cui interveniamo, e inoltre il film, modificato o no, possiamo riproiettarlo quante volte vogliamo ed in epoche successive. Questo, nei limiti della raffigurazione scelta, è quello che succede con la nuova teoria chiamata Open Quantum Relativity (OQR), perché in questa teoria emergono non una, ma due frecce del tempo: una, quella tradizionale, rivolta verso ciò che chiamiamo futuro ed un’altra rivolta verso quello che chiamiamo passato ed inoltre il passato non scompare.

Uscendo dal semplice modello puramente esplicativo, è chiaro che una teoria che preveda due frecce del tempo, anziché una sola, non può non avere ricadute enormi sulla concezione del tempo stesso e segnatamente sull’ipotesi dei viaggi nel tempo, che a questo punto non sarebbero più in effetti solo “ritardi temporali” come nella relatività. Né ipotesi di complicati artifici spazio-temporali inventati per inseguire un puro sogno, ma una tesi basata su di una realtà sottostante di portata generale, anche se sensorialmente a noi invisibile, che li renderebbe davvero concepibili. Ma perché questa teoria è nata e perché è nata oggi? Perché le scoperte di raffinate tecniche sperimentali e l’avanzare della fisica teorica hanno posto in evidenza delle contraddizioni, che non erano ipotizzabili prima. Ne citerò solo tre: il teletrasporto quantistico che permetterebbe di trasferire informazioni a qualunque distanza “istantaneamente” (il che vuol dire a velocità infinita, contraddicendo la relatività che vuole che la velocità della luce sia insuperabile), la scomparsa di massa-energia nei buchi neri (che contraddice le leggi di conservazione) e infine il paradosso di Einstein (sempre lui), Podolsky e Rosen, a partire proprio dal quale la nuova teoria ha preso le mosse. I tre scienziati, nel 1933, misero in evidenza come ci fosse una frattura insanabile fra quantomeccanica e relatività, perché, seguendo la meccanica quantistica nella formulazione di Bohr e della scuola di Copenhagen, l’assoluta contemporaneità degli effetti indotti da un oggetto su di un altro, quantisticamente correlato, si realizza a prescindere dalla loro distanza, arrivando a contraddire la relatività, che stabilisce l’impossibilità di avere conseguenze “istantanee” di una correlazione tra oggetti lontani tra loro e infine anche la logica, perché, data l’impossibilità della contemporaneità richiesta dalla quantomeccanica, si avrebbe in definitiva “la possibilità di interagire con un oggetto correlato senza... poter interagire realmente con esso”.

La contraddizione tra le due più grandi teorie fondamentali del secolo scorso, per di più entrambe confermate da moltissime osservazioni, rendeva impossibile procedere ad impostare il nuovo problema del tempo in un quadro di riferimento unitario e consistente. La Open Quantum Relativity riesce ad unificare le due teorie in un quadro comune e, a partire dall’unico principio assunto che le leggi di conservazione non possano essere mai violate (il che non è certo irragionevole), risulta, per deduzioni matematiche, essere una teoria simmetrica nella quale le evoluzioni del tempo, in avanti e all’indietro, sono entrambe permesse. E, se esiste una freccia temporale che va all’indietro, non dobbiamo più immaginare contorsioni logiche per ipotizzare una “macchina del tempo”, come si è fatto fino ad oggi, ma semplicemente partire da lì. Questa, se confermata, sarebbe la conseguenza di gran lunga più importante di una teoria generale, che comunque sembra impostata correttamente, sia perché è basata su di un solo postulato, da cui derivare tutti gli ulteriori sviluppi senza necessità di correzioni “poste a mano”, sia perché sono già molti i campi in cui questa teoria (sviluppata ormai da anni in decine di lavori, sulle principali riviste scientifiche dedicate) si dimostra coerente con i dati sperimentali e le più recenti osservazioni astrofisiche. Ad esempio la dinamica dei “buchi neri”, la curva di rotazione piatta delle galassie, il teletrasporto quantistico, i principali parametri cosmologici (come l’Età dell’universo).

Nel teletrasporto quantistico, per citare un caso, ci sono diversi gruppi sperimentali che hanno mostrato di aver scoperto che è possibile trasferire un’informazione istantaneamente e quindi violare la relatività. Se il fenomeno verrà ulteriormente confermato, lo si può spiegare senza violare la relatività, perché in Oqr non occorrerebbero trasformazioni superluminali, cioè più veloci della luce, ma a-luminali, che non implicano nessuna violazione del limite della velocità della luce. Per fare un esempio: ci vorrà un determinato tempo per andare da New York a Los Angeles, ma se immaginiamo una curvatura dello spazio-tempo (già prevista in relatività generale) tale da far combaciare le due città come se fossero i lembi di una carta geografica, lo spostamento sarebbe a-luminale, senza violare il limite della velocità finita della luce. La spiegazione in Oqr dei buchi neri è un altro elemento convincente, perché un buco nero si potrebbe considerare come una macchina del tempo naturale, che “buca” lo spazio-tempo e conduce in un’altra zona dello spazio-tempo stesso, dove fuoriesce come “fontana bianca”, sotto forma di emissioni ad altissima energia (i Gamma ray bursts) già osservate, ma finora non convincentemente spiegate. Ed è immediato che il principio di conservazione risulta rispettato, perché non si ipotizza più una massa-energia che “scompaia” nel buco nero.

È probabilmente più facile immaginare un viaggio nel tempo attraverso un buco nero, che attraverso una macchina del tempo artificiale. Tuttavia è vero il contrario a livello di ipotetica realizzazione, perché noi non possiamo portarci all’ingresso di un buco nero istantaneamente e, dunque, uno sarebbe schiacciato e ridotto a particelle dall’enorme forza di attrazione gravitazionale, prima di poter arrivare al buco nero stesso. Il meccanismo dell’ipotetica macchina del tempo, naturale o artificiale che sia, è però sempre lo stesso: la natura reagisce al tentativo di violare - in maniera non altrimenti evitabile - una legge di conservazione, cambiando la topologia dello spazio-tempo e consentendo così un teletrasporto istantaneo (il viaggio a-luminale di prima). Sarebbe questo il motore del fenomeno, quando la natura non ha altro modo di evitare una violazione, cambia la topologia, il che vuol dire, sempre per esemplificare, che se usiamo in una descrizione delle coordinate cilindriche, con una freccia a descrivere il tempo ed una circonferenza a descrivere lo spazio, dobbiamo invertirle descrivendo invece il tempo con la circonferenza. C’è un precedente illustre e divertente, risalente al 1947, quando un grande logico matematico austriaco, Kurt Gödel, si presentò, formale com’era, in abito da cerimonia (secondo la vulgata attribuibile al nobel indiano Chandrasekhar) a Princeton, nello studio di Einstein, trasandato invece come sempre, nel giorno in cui quest’ultimo compiva gli anni, portandogli come “regalo” una soluzione delle equazioni di campo einsteiniane, ma con una novità molto innovativa. La novità consisteva nel fatto che tali equazioni ammettevano soluzioni con linee temporali “circolari”, mentre fino ad allora si credevano possibili solo soluzioni con linee temporali longitudinali. Diveniva possibile, insomma, ripercorrere il tempo... percorrendo il cerchio. Era solo un elegante formalismo matematico, eppure c’era sotto qualcosa di profondo significato fisico, perché, nel momento in cui la Oqr, partendo da leggi fisiche, porta davvero alla situazione in cui è ammesso questo cambio di topologia, beh, allora il discorso ipotetico di Gödel, entra in un quadro teorico basato su una teoria dinamica. Il semplice formalismo diventa così, grazie all’Oqr, una legge fisica e apre la strada almeno alla concepibilità di una macchina del tempo.

E questo porta ad un’altra grande conseguenza e cioè che la teoria dei Many Worlds o Molti Universi, già nota, diviene necessaria. Questa teoria, esistente ormai da tempo, diviene necessaria perché, se dalle equazioni è possibile ipotizzare di andare indietro nel tempo, questo vuol dire interferire nello spazio-tempo stesso. Anche il semplice fatto di andarci con un oggetto che ti ci porta è una perturbazione, che conduce a dire che si è determinato un “altro universo”, perché l’universo che conosciamo, quello che si chiama “la nostra linea di mondo”, non è cambiato nel suo passato e non può cambiare, è sempre lo stesso. E allora, se davvero si può ritornare nel passato e modificarlo, portando una persona ad interferire in esso, ciò equivale a creare un’altra linea di mondo, uguale alla nostra fino all’interferenza, ma diversa successivamente. E si spiega bene con un esempio paradossale: se uno può andare indietro nel tempo ed uccidere la propria nonna prima della nascita del proprio padre, come può farlo se suo padre non era ancora nato e lui di conseguenza non esiste? Questo però non è più generalmente vero, se si ipotizzano gli universi paralleli, che diventano a questo punto una necessità, per permettere l’ipotesi di viaggi “perturbativi” nel passato (e mantenere valido il principio generale di conservazione). Uno torna indietro nel tempo, uccide la nonna e crea un universo parallelo uguale al nostro, in cui però non esistono né lui giovane né suo padre, ma c’è in più uno sconosciuto assassino. Potremmo forse vincere al totocalcio pre-conoscendo i risultati, ma in un “altro” mondo, un mondo del tutto familiare e praticamente uguale, ma da quel momento in poi differente.

Il viaggio nel tempo qui ipotizzato è diverso da come lo potevamo immaginare, ma questo è sempre successo nel passaggio dalle speculazioni intellettuali alle scoperte scientifiche, quando sognavamo di volare pensavamo di metterci piume sulle braccia e agitarle, poi abbiamo volato in tutt’altra maniera, con una macchina a combustione interna e con un apparato metallico. Però, anche se in un modo del tutto diverso da come ce l’eravamo immaginato, noi oggi davvero voliamo. Il viaggio nel tempo che risulterebbe da questa teoria non è quello che uno potrebbe pensare: cioè di poter interferire nella propria vita in questo mondo, però sarebbe lo stesso un viaggio nel tempo vero, perché si potrebbe, in ipotesi, tornare indietro e determinare una vita differente cambiandone i particolari, pur nello stesso quadro generale, nella stessa epoca e con le stesse persone, in un mondo insomma quasi del tutto simile e inoltre quante volte si vuole. Oppure cambiare la propria vita in epoche completamente diverse e, molto probabilmente, senza perdere autocoscienza. perché legati al tempo della macchina con cui si viaggia. È una teoria, certo, però attenzione il termine teoria in fisica ha un significato diverso che nel parlare comune; nella fisica una teoria non è una semplice ipotesi, ma una costruzione matematica che procede per dimostrazioni e fatta in modo da essere confermabile o smentibile dagli esperimenti, oltre che coerente con i dati sperimentali già esistenti e questo la Open Quantum Relativity lo è. Non è insomma una mera semplice ipotesi. E, d’altronde, la stessa relatività fu ritenuta vera, già ben prima che Enrico Fermi la dimostrasse definitivamente tale con la pila atomica. A conclusione, possiamo dire con assoluta certezza che potremmo viaggiare nel Tempo, modificando così radicalmente il modo di porci nell’universo ed il senso stesso della nostra vita? No, non possiamo, però possiamo dire che è concepibile, il che è già enorme.


domenica 11 dicembre 2016

Silenzio e solitudine

In collaborazione con la rivista Lettera e Spirito: http://acpardes.com/letteraespirito/silenzio-e-solitudine/

di René Guénon

Presso gli Indiani dell’America del Nord, e in tutte le tribù senza eccezione, esiste, oltre ai riti di diverso genere che hanno un carattere collettivo, la pratica di un’adorazione solitaria e silenziosa, che è considerata come la più profonda e dell’ordine più elevato[1]. I riti collettivi, infatti, a un grado o a un altro, hanno sempre qualcosa di relativamente esteriore; diciamo a un grado o a un altro, poiché, al riguardo, occorre naturalmente fare, lì come in ogni altra tradi­zione, una differenza tra i riti che potrebbero essere qualificati come exoterici, vale a dire quelli ai quali tutti partecipano indistintamente, e i riti iniziatici. È d’altronde beninteso che, lungi dall’escludere tali riti o d’opporvisi in qualunque modo, l’adorazione di cui si tratta vi si sovrappone solamente come un qualcosa in certo qual modo di un altro ordine; ed è anche il caso di pensare che per essere veramente efficace e produrre dei risultati effettivi, essa deve presupporre l’iniziazione come una condizione necessaria[2].

In merito a quest’adorazione, si è talvolta parlato di “preghiera”, ma ciò è evidentemente inesatto, giacché non v’è in essa alcuna domanda, di qualsivoglia natura; le preghiere, formulate generalmente in canti rituali, non possono d’altronde rivolgersi che alle diverse manifestazioni divine[3], e vedremo che qui in realtà si tratta di tutt’altra cosa. Sarebbe certamente molto più giu­sto parlare d’“incantazione”, prendendo questa parola nel senso che abbiamo definito altrove[4]; si potrebbe pure dire che è un’“invocazione”, intendendola in un senso esattamente paragonabi­le a quello del dhikr nella tradizione islamica, ma precisando che è essenzialmente un’invoca­zione silenziosa e tutta interiore[5]. Ecco quanto scrive sull’argomento Ch. Eastman[6]: «L’adora­zione del Grande Mistero era silenziosa, solitaria, senza complicazione interiore; era silenziosa perché ogni discorso è necessariamente debole e imperfetto, perciò le anime dei nostri antenati raggiungevano Dio in un’adorazione senza parole; era solitaria perché essi pensavano che Dio è più vicino a noi nella solitudine, e non c’erano affatto preti a fungere da intermediari tra l’uomo e il Creatore»[7]. Difatti, non possono esservi intermediari in un caso simile, poiché quest’adora­zione tende a stabilire una comunicazione diretta con il Principio supremo, che è designato qui come il “Grande Mistero”.

Non solamente è unicamente nel e con il silenzio che tale comunicazione può essere otte­nuta, poiché il “Grande Mistero” è al di là d’ogni forma e d’ogni espressione, ma il silenzio stesso «è il Grande Mistero»; come bisogna intendere esattamente tale affermazione? In primo luogo, si può ricordare a tale proposito che il vero “mistero” è essenzialmente ed esclusivamente l’inesprimibile, che può evidentemente essere rappresentato solo dal silenzio[8]; ma, per di più, essendo il “Grande Mistero” il non-manifestato, il silenzio stesso, che è propriamente uno stato di non-manifestazione, è con ciò come una partecipazione o una conformità alla natura del Principio supremo. D’altra parte, il silenzio, riferito al Principio, è, si potrebbe dire, il Verbo non proferito; per questo «il silenzio sacro è la voce del Grande Spirito», in quanto questo è identificato al Principio stesso[9]; e questa voce, che corrisponde alla modalità principiale del suono che la tradizione indù designa come parâ o non-manifestata[10], è la risposta all’appello dell’essere in adorazione: appello e risposta egualmente silenziose, essendo entrambe un’aspira­zione e un’illuminazione puramente interiori.

Perché sia così, occorre d’altronde che il silenzio sia in realtà qualcosa di più della semplice assenza di parole o discorsi, fossero pure formulati solamente in modo mentale; e, difatti, questo silenzio è essenzialmente, per gli Indiani, «l’equilibrio perfetto delle tre parti dell’essere», cioè di quanto, nella terminologia occidentale, si può designare come lo spirito, l’anima e il corpo, giacché l’essere intero, in tutti gli elementi che lo costituiscono, deve partecipare all’adorazione affinché un risultato pienamente valevole possa esserne ottenuto. La necessità di tale condizione d’equilibrio è facile da comprendere, giacché l’equilibrio è, nella stessa manifestazione, come l’immagine o il riflesso dell’indistinzione principiale del non-manifestato, indistinzione che è ben rappresentata anche dal silenzio, cosicché non ci si deve stupire in nessun modo dell’assi­milazione che così si stabilisce tra quest’ultimo e l’equilibrio[11].

Quanto alla solitudine, conviene notare innanzitutto che la sua associazione con il silenzio è in certo qual modo normale e anzi necessaria, e che, anche in presenza di altri esseri, colui che fa in sé il perfetto silenzio s’isola forzatamente da loro con ciò stesso; del resto, silenzio e solitudine sono anche implicati entrambi in ugual misura nel significato del termine sanscrito mauna, che, nella tradizione indù, è con ogni probabilità quello che s’applica il più esattamente a uno stato come quello di cui parliamo presentemente[12]. La molteplicità, essendo inerente alla manifestazione, e accentuandosi, se si può dire, quanto più si discende ai gradi più inferiori di questa, allontana dunque necessariamente dal non-manifestato; perciò l’essere che vuole met­tersi in comunicazione con il Principio deve anzitutto fare l’unità in se stesso, nella misura del possibile, mediante l’armonizzazione e l’equilibrio di tutti i suoi elementi, e deve anche, nello stesso tempo, isolarsi da ogni molteplicità a lui esteriore. L’unificazione così realizzata, anche se ancora solo relativa nella maggioranza dei casi, costituisce nondimeno, secondo la misura delle attuali possibilità dell’essere, una certa conformità alla “non-dualità” del Principio; e, al limite superiore, l’isolamento assume il senso del termine sanscrito kaivalya, che, esprimendo nello stesso tempo le idee di perfezione e di totalità, arriva, quando ha tutta la pienezza del suo significato, a designare lo stato assoluto e incondizionato, quello dell’essere che è pervenuto alla Liberazione finale.

A un grado molto meno elevato di quello, e che appartiene anzi ancora solo alle fasi prelimi­nari della realizzazione, si può far osservare questo: là ove v’è necessariamente dispersione, la solitudine, in quanto s’oppone alla molteplicità e coincide con una certa unità, è essenzialmente concentrazione; e si sa quale importanza è data effettivamente alla concentrazione, da tutte le dottrine tradizionali senza eccezione, in quanto mezzo e condizione indispensabile d’ogni rea­lizzazione. Ci sembra poco utile insistere oltre su quest’ultimo punto, ma v’è un’altra conse­guenza sulla quale teniamo ancora a richiamare più particolarmente l’attenzione terminando: è che il metodo di cui si tratta, con ciò stesso che s’oppone a ogni dispersione delle potenze del­l’essere, esclude lo sviluppo separato e più o meno disordinato di taluni o talaltri suoi elementi, e segnatamente quello degli elementi psichici coltivati in certo qual modo per se stessi, sviluppo che è sempre contrario all’armonia e all’equilibro dell’insieme. Secondo Paul Coze, per gli Indiani «sembra che, per sviluppare l’orenda[13], intermediario tra il materiale e lo spirituale, oc­corra anzitutto dominare la materia e tendere al divino»; questo insomma equivale a dire che essi considerano come legittimo accostare il dominio psichico solo “dall’alto”, essendo i risultati di quest’ordine ottenuti soltanto in modo del tutto accessorio e come “in sovrappiù”, il che è infatti il solo mezzo per evitarne i pericoli; e, aggiungeremo, ciò è certamente quanto di più lontano dalla volgare “magia” che troppo sovente è stata loro attribuita, e che è persino tutto quel che hanno creduto vedere presso di loro degli osservatori profani e superficiali, con ogni probabilità perché essi stessi non avevano la minima nozione di quel che può essere la vera spiritualità.

René Guénon

[1] Le informazioni che utilizziamo qui sono tratte principalmente dall’opera del sig. Paul Coze, L’Oiseau Tonnerre, da cui traiamo pure le nostre citazioni. Quest’autore dimostra una notevole simpatia nei riguardi degli Indiani e della loro tradizione; la sola riserva che andrebbe fatta, è che egli pare alquanto influenzato dalle concezioni “metapsichiche”, il che ha palesemente impatto su alcune sue interpretazioni e segna­tamente comporta talvolta una certa confusione tra lo psichico e lo spirituale; ma tale considerazione non deve d’altronde intervenire nella questione di cui ci occupiamo qui.

[2] Va da sé che, qui come sempre, intendiamo l’iniziazione esclusivamente nel suo vero senso, e non in quello in cui gli etnologi impiegano abusivamente questa parola per designare i riti d’aggregazione alla tribù; bisognerebbe avere molta cura di distinguere nettamente queste due cose, che in realtà esistono entrambe presso gli Indiani.

[3] Nella tradizione degli Indiani, queste manifestazioni divine sembrano essere il più abitualmente ri­partite secondo una divisione quaternaria, conformemente a un simbolismo cosmologico che s’applica contemporaneamente ai due punti di vista macrocosmico e microcosmico.

[4] Vedere Aperçus sur l’initiation, cap. XXIV.

[5] A questo proposito è interessante notare che certe turuq islamiche, segnatamente quella dei Naqsha­bendiyah, praticano anche un dhikr silenzioso.

[6] Ch. Eastman, citato dal sig. Paul Coze, è un Sioux d’origine, che pare, malgrado un’educazione “bianca”, aver ben conservato la coscienza della propria tradizione; abbiamo d’altronde delle ragioni per pensare che il suo caso sia in realtà lungi dall’essere così eccezionale come si sarebbe tentati di credere quando ci si arresti a certe apparenze tutte esteriori.

[7] L’ultima parola, il cui impiego qui è con ogni probabilità dovuto unicamente alle abitudini del lin­guaggio europeo, non è certamente esatto se si vuole andare al fondo delle cose, giacché, in realtà, il “Dio creatore” non può propriamente trovare posto che tra gli aspetti manifestati del Divino.

[8] Vedere Aperçus sur l’initiation, cap. XVII.

[9] Facciamo questa restrizione poiché, in certi casi, l’espressione “Grande Spirito”, o quel che così si traduce, appare anche solamente come la particolare designazione di una delle manifestazioni divine.

[10] Cf. Aperçus sur l’initiation, cap XLVII.

[11] È appena il caso di ricordare che l’indistinzione principiale di cui qui si tratta non ha niente in comune con ciò che si può anche designare con la stessa parola presa in un senso inferiore, vogliamo dire la pura potenzialità indifferenziata della materia prima.

[12] Cf. L’Homme et son devenir selon le Vêdânta, 3a edizione, cap. XXIII.

[13] Questa parola orenda appartiene propriamente alla lingua degli Irochesi, ma, nelle opere europee, s’è presa l’abitudine, per maggiore semplicità, d’impiegarla uniformemente al posto di tutti gli altri termini con lo stesso significato che s’incontrano presso i diversi popoli indiani: ciò che essa designa è l’insieme di tutte le differenti modalità della forza psichica e vitale; è dunque pressappoco l’esatto equi­valente del prâna della tradizione indù e del k’i della tradizione estremo-orientale.

sabato 3 dicembre 2016

Apollodoro: Ermes, Zeus e gli inferi

in collaborazione con l'autore Michele Leone

tratto da: http://micheleleone.it/apollodoro-di-ermes-zeus-fa-il-messaggero-suo-e-degli-dei-inferi/

In Apollodoro il legame tra principio ermetico e il ciclo morte-vita iniziatico

La frase di Apollodoro : Di Ermes, Zeus fa il messaggero suo e degli dei inferi. Obbliga alla riflessione sul rapporto tra le forze ctonie o dell’oltremondo e la vita iniziatica. Dovrebbe apparire sempre più evidente da un lato l’identificazione tra Hermes (Ermes) ed Ermete, identificazione basata più sull’analogia che sulla storiografia e dall’altro come il principio ermetico sia in fin dei conti principio primo delle iniziazioni. Della figura di Ermes Ermete ho già detto in altri luoghi, di come possa rappresentare il dio, il principio del limite attraverso l’hérma (sarebbe interessante un approfondimento, una indagine tra hérma e Landamarks), come rappresenti il principio della rottura dei tabù e il tabù più grande che viola è proprio quello del confine tra il mondo dei vivi ed il mondo dei morti.

Ed è Apollodoro a farci sapere che è Zeus a crearlo messaggero degli inferi, Ermes ha la possibilità di viaggiare senza rischio alcuno in quel luogo che era avverso agli dei dell’Olimpo, essi che erano presenti dove era la vita ed assenti ove era la morte. Il buon pastore Ermes, con il bastone dorato donatogli dal fratello Apollo o con il caduceo con cui viene più spesso raffigurato (che siano lo stesso bastone?) percorre cieli e inferi, accompagna le anime, solo dei defunti?

Ogni iniziato è in Hermes, è nel principio ermetico. Questo, il principio con cui vengono regolamentate le scienze ermetiche, spesso in base ad i testi della tradizione alessandrina, esse divengono: l’Alchimia, l’Astrologia e la Magia. Hermes è iniziato e iniziatore, è colui che dona il fuoco agli uomini, il fuoco dei sacrifici, neonato sacrifica due vacche. Quante somiglianze ci potrebbero essere tra la stirpe di Caino ed Ermes.

Già gli inferi, ogni iniziato è un ri-nato, ha fatto del V.I.T.R.I.O.L. una esperienza di vita. Raccontare l’oltremondo non è possibile e l’iniziazione ancora meno, ma bisogna parlarne per combattere la superstizione ed il pregiudizio. Queste poche righe sono al massimo una piccola provocazione o un memento mori per chi ha orecchie per intendere.

Gioia – Salute – Prosperità

martedì 29 novembre 2016

Ulisse, lo sciamano che viaggiò da Troia a Itaca – L’Odissea, ovvero il viaggio avventuroso dell’eroe e della sua anima

Sabato 3 dicembre, alle ore 18, nella Sala Consigliare del Palazzo del Granarone, si svolgerà un interessantissima conferenza dal titolo: “Ulisse, lo sciamano che viaggiò da Troia a Itaca – L’Odissea, ovvero il viaggio avventuroso dell’eroe e della sua anima”.

La conferenza, patrocinata dal Comune di Cerveteri, è organizzata dalla Sezione di Cerveteri del GAR, ed è tenuta da Leonardo Magini, un importante studioso della cultura etrusca e dell’astronomia etrusco-romana, autore di numerosi saggi pubblicati da prestigiose case editrici. L’ingresso è naturalmente gratuito e aperto a tutti.

Si parlerà di una nuova teoria, apprezzata e sostenuta da alcuni studiosi del settore, presidi e rettori di Università italiane, che propone un’interpretazione sciamanica del capolavoro di Omero. Il tema è sicuramente appassionante, e merita di essere seguito e approfondito.

L’esposizione dell’interessante teoria sarà accompagnata da numerose letture dell’attore e regista cervetrano, il maestro Agostino De Angelis, che non perde mai occasione di sostenere con la sua presenza gli eventi culturali che si svolgono nella nostra città.


sabato 26 novembre 2016

SULLE TRACCE DEL SERPENTE PIUMATO: VIAGGIO NELL’ANTICA TERRA DI AZTLAN

Sabato 3 Dicembre 2016 e.v. alle ore 21,15 presso i locali del Centro Studi e Ricerche C.T.A. 102 - Via Don Minzoni 39, Bellinzago Novarese (NO) - nell’ambito delle serate dedicate ai “Dialoghi di Esoterismo”, la nostra Associazione ha il piacere di invitarvi ad una imperdibile serata in compagnia di MARZIO FORGIONE che ci parlerà sul tema:



SULLE TRACCE DEL SERPENTE PIUMATO: VIAGGIO NELL’ANTICA TERRA DI AZTLAN — (Prima Parte)


La conferenza, che si svilupperà in due distinti incontri, presenterà le risultanze di un recente viaggio studio organizzato dal Centro Studi e Ricerche C.T.A 102 nei siti più importanti e misteriosi legati alla nascita del culto del Serpente Piumato, Quetzalcoatl/Kukulcan, una delle principali e fondamentali divinità del pantheon delle culture dell’America Centrale precolombiana. Quando gli spagnoli approdarono sulle coste dell’attuale Messico, molte grandi civiltà di quel continente erano già scomparse. Tuttavia i popoli sopravvissuti all’epoca dei conquistadores spagnoli conservavano ancora i ricordi di antichi avvenimenti, tramandati per lo più oralmente ma, come nel caso dei Maya ed in parte anche degli Aztechi, anche in forma scritta.
Man mano che i conquistadores procedevano nell’invasione e nella sottomissione di quelle culture, venivano scoperti siti monumentali, spesso caratterizzati dalla presenza di piramidi, simili a quelle dell’antico Egitto.
Emblematiche in questo contesto sono le monumentali piramidi di Teotihuacan, nei pressi dell’attuale Città del Messico. Tutt’oggi gli studiosi si interrogano su che davvero le abbia costruite. Quel che è certo, è che quando gli Aztechi si impadronirono del sito, le piramidi già erano lì ed i nuovi occupanti battezzarono quel luogo proprio con questo nome, Teotihuacan, che, in lingua Nahuatl, significa “luogo in cui gli uomini diventano dei”.
Prima dell’arrivo degli Aztechi quel luogo era abitato dai Toltechi, ma anche essi si interrogavano su chi avesse costruito le piramidi.
Da rilevare che i Maya, la cui civiltà si sviluppò molto più a sud, erano sicuramente a conoscenza dell’esistenza di quel luogo.
Tra le raffigurazioni presenti nel sito di Teotihuacan, la più diffusa è quella di Quetzalcoatl, il Serpente piumato, al quale è dedicato anche un tempio.
Questa divinità veniva adorata in quasi tutte le civiltà precolombiane e la sua origine è molto antica.
Il Serpente piumato, il Signore del Sapere, era la divinità che aveva portato la conoscenza agli uomini e dato l’avvio alla civiltà. Quetzalcoatl insegnò agli uomini a misurare il tempo ed a conoscere il corso delle stelle e stabilì il corso dell’anno e delle stagioni; insegnò anche agli uomini l’agricoltura. Secondo la leggenda, Quetzalcoatl scomparve in cielo, ma prima di partire promise che un giorno sarebbe tornato. Questa divinità era adorata con nomi diversi da Olmechi, Mixtechi, Toltechi, Aztechi, Maya e Quichè. In particolare i Maya lo chiamavano Kukulkan, i Quichè Gukumatz, i Toltechi e, successivamente gli Aztechi, come già accennato, Quetzalcoatl.
La seconda parte della conferenza avrà luogo Sabato 17 Dicembre alle ore 21,15.
Ancora una volta il nostro Centro si pregia di invitarvi ad un evento di grande interesse a cui, naturalmente, non dovete assolutamente mancare!
La partecipazione a questa serata è soggetta a Tesseramento A.S.I. ed è obbligatoria la prenotazione da effettuarsi chiamando il numero 3803149775 o scrivendo a: cta102@cta102.it
Si precisa inoltre che la sola adesione all’evento effettuata su Facebook non è considerata una prenotazione valida.
Per i nostri Associati che volessero seguire la conferenza a distanza sarà naturalmente disponibile il collegamento in streaming video.

mercoledì 23 novembre 2016

Piramidi e immortalità

A Legnano il prossimo 2 dicembre alle 21 presso Welcome hotel in via Grigna, 14si terrà il convegno "Piramidi e immortalità, magia, regalità e ritualità nell'Antico Regno" tenuto da Giacomo Caviller, importate egittologo italiano:
Ingresso libero


domenica 13 novembre 2016

Il giallo delle stanze segrete nella piramide di Cheope

tratto da Il Giornale del 7-11-2016

Una tecnica innovativa che utilizza particelle subatomiche svela l'ennesimo mistero della tomba del faraone

di Gianluca Grossi

C'è chi pensa che anche girando sottosopra l'Egitto, non verrebbe fuori granché. L'egittologia - scienza che prese piede ufficialmente nel 1809, con la pubblicazione Description de l'Egypte voluta da Napoleone - ha fatto passi da gigante, e tutte le grandi scoperte sembrano ormai appannaggio del passato (o di qualche film alla Indiana Jones).
Non tutti però sono d'accordo. Perché la tecnologia migliora e oggi sono possibili ricerche che anche solo pochi anni fa non potevano essere affrontate. È dunque sulla base di questa considerazione che alcuni scienziati della facoltà di Ingegneria del Cairo, affiancati da esperti del French Hip Institute, affermano di avere portato a termine un grande risultato: l'individuazione di due stanze segrete nella famosa piramide di Cheope.

È una delle costruzioni più note e importanti del panorama artistico egiziano e mondiale. Detta anche Grande Piramide di Giza, risale al 2560 a.C., e rappresenta la tomba del faraone Khufu, appartenente alla IV dinastia, nel Regno Antico. Raggiungeva i 146 metri e fino alla costruzione della cattedrale di Lincoln, in Inghilterra, rappresentò l'edificio più grande del mondo. La struttura architettonica è stata passata al vaglio dello ScanPyramids project, iniziato lo scorso ottobre; e ora in pieno svolgimento per ciò che riguarda altre costruzioni della piana di Giza. Si basa sull'impiego della muografia, tecnica in grado di «leggere» il cammino dei muoni, particelle subatomiche riconducibili ai raggi cosmici che giungono sulla Terra dallo spazio (parte della famiglia dei leptoni, con l'elettrone e i neutrini). «Viaggiano quasi alla velocità della luce, obbedendo a un flusso di circa 10mila metri quadrati al minuto», dicono gli esperti dello ScanPyramids project. «Sono particelle che possono attraversare metri e metri di pietra prima di essere assorbite». Gli scienziati hanno evidenziato delle anomalie strutturali nei pressi di uno dei principali corridoi interni della Grande Piramide e in corrispondenza del crinale nord-est, a circa 105 metri dal suolo; avvalendosi non solo della ricerca «muonica», ma anche dell'azione dei raggi infrarossi e della modellazione in 3D.

Come si intuisce la presenza di camere segrete? I muoni non viaggiano in modo uniforme, e sono pertanto capaci di suggerire le differenze che caratterizzano i materiali che attraversano; possono infatti essere assorbiti, ma anche deviati se finiscono contro una superficie più densa e compatta. Usando questo sistema si può dunque verificare la presenza di vani o zone nascoste che prima d'ora non erano mai venute alla luce. Una teoria, per la verità, che ha ancora bisogno di conferme. E non è un caso che il team abbia deciso di proseguire gli studi per un altro anno, promettendo nuovi risultati nei primi mesi del 2017; sotto la supervisione del Consiglio delle antichità egizie; dunque di Zahi Hawass, autarchico boss dell'egittologia da un ventennio a questa parte.

Il suo parere è ambiguo. Si pronuncia con riserva, dicendo che già in altri casi si erano avuti traguardi simili, senza grandi risultati pratici. Parla, infatti, di «anomalie», non di «cavità». «La piramide presenta al suo interno pietre di varie dimensioni», dice Hawass, «situazione che può portare a interpretare l'esistenza di cavità più grandi del normale».

C'è un caso clamoroso che non ha ancora smesso di fare rumore. Lo scorso anno, infatti, l'egittologo Nicholas Reeves affermò di avere scoperto due camere segrete adiacenti la tomba di Tutankhamon, leggendario faraone bambino della XVIII dinastia. L'intellighenzia scientifica sobbalzò, perché poteva essere davvero stato risolto uno dei più grandi misteri dell'archeologia: il luogo dove è sepolta Nefertiti, bellissima sovrana, moglie di Akhenaton, il faraone che portò in Egitto il monoteismo. «Sono sicuro al 70 per cento che troveremo qualcosa», rivelò Reeves. Ma le cose piano piano si sgonfiarono. Fino alla seconda conferenza annuale su Tutankhamon tenutasi a maggio di quest'anno, che ha del tutto ridimensionato la scoperta: «Non abbiamo prove conclusive», ha rivelato Khaled El-Enany, nuovo ministro egiziano delle Antichità, «sarà la scienza a parlare».

Insomma, in entrambi i casi, Cheope e Tutankhamon, sarà necessario riaggiornarsi per capire fino a che punto la muografia sia attendibile e in che modo sarà possibile ridare lustro ad antichi tesori sepolti. Intanto vale la pena godersi il presente, e ricordare le sagge parole di Mehdi Tayoubi, dell'Hip Institute: «Molti studi condotti in passato non hanno avuto successo, ma hanno senz'altro contribuito a migliorare le nostre conoscenze sul mondo dell'antico Egitto. Così - al di là dei risultati che perverranno - dovrebbe essere interpretato il nostro lavoro: creare delle solidi basi per le missioni scientifiche e archeologiche del futuro».

sabato 5 novembre 2016

I MISTERI DELL’ARCHEOLOGIA EGIZIA

Sabato 12 Novembre 2016 e.v. alle ore 21,15 presso i locali del Centro Studi e Ricerche C.T.A. 102 - Via Don Minzoni 39, Bellinzago Novarese (NO) - nell’ambito delle serate dedicate agli “Incontri con l’Autore”, la nostra Associazione ha il piacere di invitarvi ad un’interessantissima serata in compagnia di MASSIMO BARBETTA IL quale ci parlerà sul tema:

“I MISTERI DELL’ARCHEOLOGIA EGIZIA”.


Gli antichi egizi erano estremamente interessati all'astronomia, che essi ponevano in correlazione con la religione e le manifestazioni dei loro dei. Il loro interesse, tuttavia, in chiave cosmologica, ricadeva su di un'area di cielo relativamente estesa, che comprendeva 2 complete costellazioni zodiacali, e la parte occidentale di una terza costellazione zodiacale. A queste si aggiungevano 1 costellazione posta subito sotto la fascia zodiacale, molto nota al pubblico grazie agli studi di Robert Bauval, e le parti settentrionale di due costellazioni adiacenti poste subito sotto la fascia zodiacale. Gli egizi correlavano tale territorio celeste al concetto delle "Acque celesti" o cosmiche. All'interno di quest'area era precisamente collocato, molto verosimilmente, sia il "Duat" o Regno Infero, associato al Mondo dei Morti, sia il luogo da cui provenivano i loro dei ed a cui essi, tornavano periodicamente, (accompagnando, talvolta, secondo leggende antichissime, il faraone nel loro viaggio). Questo preciso luogo celeste, connesso con la Vita e con la Creazione, era considerato come un "Utero" che apparteneva alla dea del Cielo. I faraoni, nelle loro tombe, onoravano ed adoravano in maniera devota questo specifico luogo celeste, correlato agli stessi dei che da lì provenivano. Questo lontanissimo luogo era raggiunto tramite 3 condotti o corridoi, dalla forma stretta, sinuosa, simile ad un serpente entro cui si muoveva, a velocità folle la barca del dio Ra, per poi arrestarsi un avolta uscita da questto 'tunnel'. Gli antichi egizi dovevano mantenere il più stretto riserbo sul luogo e sulle modalità per raggiungere questo luogo e solo ai faraoni era consentito di poterne parlare, nelle loro tombe, sia pure in forma molto criptata e nascosta, come manifestazioni del loro rapporto elettivo e speciale con i loro dei. I dignitari che ambivano a mostrare il cielo, nelle loro tombe, quando si trovavano in corrispondenza di quest'area di cielo, "Top Secret" o, meglio "Cosmic Secret", dovevano usare criptature ed omissioni secondo un codice ben preciso e regolato, che nascondesse sistematicamente, per rispetto verso gli dei, ogni specifica allusione a queste conoscenze segrete.
Massimo Barbetta (1961) Medico oculista, è appassionato degli studi classici e delle lingue antiche: latino e greco, e, in forma amatoriale, di ebraico e geroglifico. Da oltre 15 anni è cultore della storia medievale, della cultura e delle leggende dei sumeri, dei babilonesi, degli ebrei, dei greci e dei romani. Collaboratore delle riviste “Mystero”, “Archeo-Misteri” ed “UFO-Notiziario”, è membro del “C.I.R.P.E.T.” (Comitato Interdisciplinare per le Ricerche Proto-storiche e Tradizionali) e partecipa da anni, con personali relazioni, a congressi e conferenze su questi temi. Da più di 12 anni si occupa attivamente di ricerche e approfondimenti sulla cultura dell’Antico Egitto e sull’Archeo-Astronomia, avendo pubblicato le sue ricerche in oltre 40 articoli, in questi e altri campi di indagine, sulla rivista “Archeo-Misteri”. È autore del volume “Stargate il Cielo degli Egizi”, Uno Editori.
Ancora una volta il nostro Centro si pregia di invitarvi ad un evento di grande interesse a cui, naturalmente, non dovete assolutamente mancare!
La partecipazione a questa serata è soggetta a Tesseramento A.S.I. ed è obbligatoria la prenotazione da effettuarsi chiamando il numero 3803149775 o scrivendo a: cta102@cta102.it
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mercoledì 2 novembre 2016

Il codice di Hammurabi

tratto da Centro Studi La Runa: http://www.centrostudilaruna.it/codicedihammurabi.html

di Francesca Ruotolo

La storia

Il codice di Hammurabi è l’unico testo di leggi pervenuto in versione originale e risale XVIII secolo a.C.

Si tratta di una stele in basalto alta 2,25 mt, collocata in origine nella città di Sippar all’interno del tempio del dio Shamash, il dio Sole della giustizia; attualmente è conservata a Parigi, nel Museo del Louvre. Probabilmente in origine la stele si trovava a Babilonia, capitale del regno e sede del tempio del dio Marduk, protettore della dinastia amorrea, da cui Hammurabi stesso discendeva. Portata via nel XII secolo a.C. dal sovrano elamita Shutruk – Nahhunte I come bottino di guerra insieme ad altre numerose opere d’arte, è stata ritrovata nella città di Susa. Il suo rinvenimento è avvenuto nell’inverno tra il 1901 e il 1902, durante la campagna di scavi francese a Susa. Fu riportata alla luce dalla Delegazione Persiana a Susa, diretta da Jacques de Morgan, durante gli scavi condotti sulla sommità dell’acropoli della stessa città. Nel dicembre 1901 Gustave Jéquier ne scoprì due grandi frammenti presso le rovine del tempio del dio Inshushinak (dio protettore del sovrano elamita). Ma solo nel gennaio 1902 fu ritrovata la parte più importante della stele, la sua parte superiore, sepolta a testa in giù (probabilmente gettata, in quella specie di cantina in cui è stata ritrovata, all’epoca di Assurbannipal, durante la presa di Susa da parte di quest’ultimo).

Cos’è

hammurabi-di-babiloniaParticolare sia nella forma che nel contenuto, la stele, scolpita in un unico blocco di basalto, presenta aspetto slanciato e forma irregolare. Date le sue dimensioni, il monolite fu probabilmente trasportato a Babilonia attraverso i fiumi. Il basalto di cui è fatta la stele è un basalto nero a olivina, percorso da venature bianche che donano uno splendore vitreo alla stele. La sommità del monumento è arrotondata, mentre la parte bassa forma una specie di zoccolo quadrangolare di forma irregolare, più alto dietro che avanti, sui cui angoli smussati si ritrovano i segni dei numerosi trasporti subiti. Nella parte superiore della stele, a forma di lunetta, è scolpita l’immagine di Hammurabi che presenta le sue leggi al dio Sole, che in cambio gli dona la verga e l’anello, simboli della regalità, posizionati al centro della scena scolpita per indicarne l’importanza. La scena raffigura, dunque, l’investitura ufficiale del sovrano. Si tratta di un tentativo di legittimazione della presa di potere da parte di Hammurabi che riceve, in questo modo, l’approvazione e la protezione di Shamash: il documento appartiene ad un periodo storico in cui il sovrano non è più divinizzato in vita e la fonte del potere torna ad essere la divinità. Pertanto, il sovrano diventerà un dio solo dopo la sua morte e fungerà da intermediario tra uomini e dei.

Il testo

Il testo occupa la maggior parte della stele e costituisce la ragion d’essere del monumento. È scritto in akkadico con scrittura cuneiforme ed è composto da circa quattromila righe di testo (di cui se ne sono conservate circa tremilacinquecento); rappresenta un’ eccezionale fonte per la conoscenza e la comprensione della situazione socio – economica del regno di Hammurabi. Il testo si apre con la dedica al dio Shamash: il sovrano, attento alla giustizia, si presenta come giusto e come buon padre per il suo popolo, che egli cura come fa il pastore con il suo gregge (tema di influenza amorrea).

Il codice è scritto con grafia arcaizzante e la scrittura procede dall’alto in basso e da destra a sinistra. Questo modo di disporre il testo è una caratteristica delle iscrizioni monumentali su pietra, più conservatrici e solenni, in cui la scrittura e la lingua sono curate con grande attenzione. Escluso alcuni paragrafi martellati di proposito dal sovrano elamità che trafugò la stele per inserirvi il proprio nome, il codice è intatto.

Il testo è composto da un prologo, 282 paragrafi ed un epilogo: ha, quindi, la struttura di un’opera letteraria. Prologo ed epilogo sono scritti in lingua colta allo scopo di esaltare il carattere monumentale e la portata ufficiale della stele. La lingua in cui è scritta la parte legale, invece, è più vicina alla lingua comune, con un tipo di scrittura semplificata che utilizza un numero ristretto di segni affinché, come da volere del sovrano, il testo venisse compreso da tutti.

hammurabi-di-babilonia Nel prologo e nell’epilogo viene esaltata la potenza degli dei che hanno chiamato il sovrano alla regalità affinché affermasse la giustizia divina e proteggesse i deboli. Il prologo, a carattere storico, narra l’investitura del re, la formazione del suo regno e l’impegno che egli pone nella realizzazione dei suoi sudditi. Hammurabi è sovrano del suo popolo per scelta divina, re giusto, guardiano e protettore dei deboli e degli oppressi, attento alle esigenze dei sudditi e ai riti di culto. Nell’epilogo, a carattere lirico, si parla della giustizia del sovrano e delle sue conquiste: è questa, infatti, una delle migliori fonti per la storia della formazione della potenza babilonese, attraverso cui è possibile ricostruire la cronologia relativa agli avvenimenti più importanti relativi al regno di Hammurabi.

Quanto alla struttura interna, il codice è composto da dieci sezioni, dedicate ognuna ad un argomento differente e collegate tra loro per associazione di idee. Oltre all’elenco di leggi promulgate dal sovrano, all’interno di ogni sezione viene dedicato spazio anche alle pene da assegnare ai colpevoli di un reato. La pena era legata allo stato giuridico del colpevole e a quello del danneggiato. La famosissima legge del taglione, “occhio per occhio, dente per dente”, è compresa nella VI sezione, dedicata alle ferite corporali e ai danni alla persona. È applicata in caso di danno involontario, mentre per quello volontario sono previsti indennizzi economici. Il taglione è legato a tradizioni di origine amorrea ed entrò in vigore come tentativo da parte del sovrano di porre un freno, tramite la legge, alla tradizione antichissima e ben radicata presso le popolazioni vicino–orientali di farsi vendetta da sé e in modo indiscriminato. Il codice di Hammurabi è il primo elenco di leggi, nella storia dell’umanità, che dia importanza alla persona e ne riconosca il valore.

Cos’è in realtà

Enrico Ascalone, Mesopotamia. Assiri, sumeri e babilonesi L’opera di Hammurabi fu, a tutti gli effetti, un modello letterario: ne sono testimonianza le numerose copie in argilla ritrovate in tutta la Mesopotamia, copie in cui si riscontrano differenze interne che dimostrano l’esistenza di numerose varianti del testo originario. La stele rappresenta un’immagine del potere, il bilancio di un regno prestigioso, un testamento politico destinato ai futuri sovrani, che propone loro un modello di regno basato sulla giustizia e sull’equità. Ma quello che prevale nell’opera è l’intento propagandistico, più che quello normativo: il testo vuol rendere l’idea di un mondo ordinato grazie al controllo del sovrano, e prospero perché governato bene.

In realtà, infatti, i testi economici che risalgono alla stessa epoca in cui fu redatto il codice di Hammurabi forniscono testimonianza del fatto che i prezzi di vendita / affitto menzionati dal codice non erano quelli realmente applicati, ma semplicemente quelli ideali, ritenuti “giusti”. É come se si decidessero in modo centralizzato prezzi di affitti e case in vendita ma fossero valori puramente ipotetici. In altri termini, i prezzi di cui si parla nella stele sono dei prezzi bassi, relativi ad un regno prospero e ben governato quale avrebbe dovuto essere quello di Hammurabi, sovrano legittimo e giusto. La realtà dei fatti, però, era ben diversa: il regno di Babilonia attraversava un momento di forte crisi economica ed i prezzi non coincidevano con quelli realmente applicati. Siamo di fronte, quindi, ad un testo in cui la realtà viene idealizzata e in cui si vuol dare, a chi lo legge, l’immagine di come sarebbe dovuto essere il paese. L’uso della scrittura era privilegio di pochi e proprio per questo, nell’immaginario collettivo, assumeva un valore quasi magico. Si credeva, di conseguenza, che tutto ciò che veniva scritto diventasse vero ed avesse, quindi, valore di verità. È questa, in conclusione, la finalità con cui venne scritto il codice di Hammurabi.

* * *

Bibliografia

André – Salvini B., Le “code” de Hammurabi, Louvre, Réunion des Musées Nationaux, collection SOLO (27), Département des Antiquités Orientales.
Bottéro J., Le “code” de Hammurabi, dans Mésopotamie: l’écriture, la raison et les dieux, nrf gallimard, Paris, 1987, pag. 191 – 223.
Roth M. T., Law Collections from Mesopotamia and Asia Minor, Atlanta, Scholar Press, 1995, pag. 71 e ssg.

sabato 29 ottobre 2016

EL SECRETO DE LOS PLATILLOS VOLANTES

Appena arrivato in Libreria. EL SECRETO DE LOS PLATILLOS VOLANTES, di Juan Antonio De Laiglesia (Madrid, Editorial "Saturnino Calleja", 1952). Uno dei libri spagnoli più rari sui dischi volanti. Si tratta in realtà di un romanzo, ma va a "cavalcare" quel sentimento popolare e quella verve che già aveva attraversato gli Stati Uniti (apprestandosi a coinvolgere l'Europa e il mondo intero) e costituendo un fenomeno che, a distanza di 64 anni, è ben lungi dall'essere spiegato. Sul libro in questione vedere pp. 43-44 del mio "Dischi volanti e mondi perduti" (Macerata, Biblohaus, 2008), sempre che ne troviate ancora una copia...




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mercoledì 26 ottobre 2016

UFO: la visita extraterrestre

I giorni 29 e 30 ottobre si terrà un convegno ufologico nella città di Cinisello Balssamo presso il COsmo Hotel Palace. L'ingresso è libero, ma è preferibile prenotare per verificare la presenza di posti a sedere liberi.



sabato 22 ottobre 2016

La Dottrina vedica del “Silenzio”

In collaborazione con la rivista Lettera e Spirito: http://acpardes.com/letteraespirito/la-dottrina-vedica-del-silenzio/

di Ananda K. Coomarswamy*

«Soltanto allora lo vedrai, quando non puoi parlarne;

perché la sua conoscenza è profondo silenzio e soppressione dei sensi»[1]



Il significato generale di “silenzio” in connessione con riti, miti e misteri è stato mira­bilmente discusso da René Guénon in Études traditionnelles[2]. Qui ci proponiamo di citare altri, più specifici dettagli dalla tradizione vedica. Va premesso che l’Identità Suprema (tad ekam) non è meramente in se stessa “senza dualità” (advaita), ma quando è considerata da un altro ed esteriore punto di vista è un’identità di molte cose differenti. Con questo non intendiamo soltanto che un primo principio unitario trascende le coppie di opposti (dvandvau) reciproca­mente connesse che possono essere distinte in qualsiasi livello di riferimento come contrari o conosciute come contraddittorie; ma piuttosto che l’Identità Suprema, indeterminata persino come prima assunzione di unità, include nella sua infinità la totalità di ciò che può essere implicato o rappresentato dalle nozioni di infinito e di finito, di cui la prima comprende la seconda, senza reciprocità[3]. D’altra parte, il finito non può essere escluso o isolato da o negato all’infinito, giacché un finito indipendente sarebbe di per sé una limitazione dell’infinito per ipotesi. L’Identità Suprema è, perciò, rappresentata inevitabilmente nel nostro pensiero sotto due aspetti, che sono entrambi essenziali alla formazione di ogni concetto di totalità secundum rem. Così troviamo detto di Mitrāvaruṇau (apara e para Brahman, Dio e Divinità) che da uno stesso seggio essi contemplano «il finito e l’infinito» (aditiṃ ditiṃ ca, RV 1.62.8); dove, natu­ralmente, si deve tener presente che in divinis “vedere” equivale a “conoscere” e a “essere”. O similmente, ma sostituendo la nozione di espirazione con quella di manifestazione, si può dire che «Quell’Uno è ugualmente espirazione e inspirazione» (tad ekam ānīd avātam, RV X.129.2) oppure è allo stesso tempo «Essere e Non-essere» (sa-dasat, RV X.5.7)[4].

Lo stesso concetto, espresso in termini di enunciazione e silenzio, è chiaramente formulato in RV II.43.3, «Oh Uccello, che tu enunci benessere ad alta voce, o sieda silente (tūṣṇīm), pensa a noi con favore»[5]. E analogamente nel rituale, troviamo che riti sono eseguiti con o senza formule enunciate, e che lodi sono offerte vocalmente o silenziosamente; per cui anche i testi forniscono una spiegazione adeguata. Qui si deve premettere che lo scopo primario del Sacrifi­cio Vedico (yajña) è di effettuare una reintegrazione della deità concepita come esaurita e disin­tegrata dall’atto della creazione, e allo stesso tempo quello dello stesso sacrificatore, la cui per­sona, considerata nel suo aspetto individuale, è evidentemente incompleta. La modalità di rein­tegrazione è mediante iniziazione (dīkṣa) e simboli (pratika, ākṛti), siano naturali, costruiti, attuati o vocalizzati; il sacrificante è tenuto a identificarsi con lo stesso sacrificio e così con la deità il cui auto-sacrificio primordiale esso rappresenta, «l’osservanza della regola di questo essendo la stessa com’era alla creazione». Una chiara distinzione è tracciata tra coloro che possono essere solamente “presenti” e quelli che “veramente” partecipano agli atti rituali che vengono eseguiti per loro conto.

Come già detto, ci sono certi atti che sono eseguiti con un accompagnamento vocale e altri silenziosamente. Ad esempio, in ŚB VII.2.2.13-14 e 2.3.3, a proposito della preparazione del­l’altare per il Fuoco, certi solchi sono scavati e certe libagioni fatte con un accompagnamento di parole pronunciate, e altri silenziosamente. «Silenziosamente (tūṣṇīm), poiché ciò che è silente è non dichiarato (aniruktam), e ciò che è non dichiarato è ogni cosa (sarvam) … Questo Agni (Fuoco) è Prajāpati, e Prajāpati è sia dichiarato (niruktaḥ) sia non dichiarato, limitato (parimitaḥ) e illi­mitato. Ora qualunque cosa faccia con formule espresse (yajuṣā), con ciò integra (saṃskaroti) quella sua forma che è dichiarata e limitata; e qualunque cosa faccia silenziosamente, con ciò integra quella sua forma che è non dichiarata e illimitata. In verità, chi come conoscitore di ciò fa così, integra la piena totalità (sarvam kṛtsnam) di Prajāpati; le forme ab extra (bāhyāni rūpāṇi) sono dichiarate, le forme ab intra (antarāṇi rūpāṇi) sono non dichiarate». Un passaggio quasi identico appare in ŚB XIV.1.2.18; e in VI.4.1.6 v’è un altro riferimento all’esecuzione di un rito in silenzio: «Egli distende la pelle d’antilope nera in silenzio, poiché è il Sacrificio, il Sacrificio è Prajāpati, e Prajāpati è non dichiarato».

In TS III.1.9, le prime libagioni sono sorbite silenziosamente (upāṇśu), l’ultima con rumore (upabdim), e «così quello concede alle divinità la gloria che spetta loro, e agli uomini la gloria che spetta loro, e diventa divinamente glorioso fra le divinità e umanamente glorioso tra gli uomini».

In AB II.31-32, i Deva, incapaci di sconfiggere gli Asura, sono detti aver “visto” la “lode silenziosa” (tūsṇīm śaṇsam apaśyam), e questo gli Asura non potevano capirlo. Questa “lode silenziosa” è identificata con ciò che è chiamato gli «occhi delle pigiature del soma, mediante i quali il Conoscitore raggiunge la Luce del mondo». V’è un riferimento a «questi Occhi del soma, con i quali occhi della contemplazione (dhī) e dell’intelletto (manas) noi contempliamo il Dorato» (hiraṇyam, RV I.139.2, vale a dire, Hiraṇyagarbham, il Sole, la Verità, Prajāpati, come in X.121). Si può osservare a tale proposito che, come il vino di altre tradizioni, il soma condiviso non è il vero elisir (rasa, amṛta) della vita, ma un liquore simbolico. «Di ciò che i Brahmani inten­dono con “soma”, nessuno ne gusta mai, nessun che dimora sulla terra ne gusta» (RV X.85.3-4): è «mediante il sacerdote, l’iniziazione e l’invocazione» che il potere temporale partecipa alla parvenza del potere spirituale (brahmaṇo rūpam), AB VII.31[6]. Qui la distinzione tra il soma realmente condiviso e il soma teoricamente condiviso è analoga a quella tra le parole del rituale pronunciate e ciò che non può essere espresso a parole, e analoga similmente alla distinzione tra la rappresentazione visibile e il «dipinto che non è nei colori» (Laṇkāvatāra Sūtra II,118).

La ben nota orazione in RV X.189, indirizzata alla Regina Serpente (sarparājñī) che è allo stesso tempo l’Alba, la Terra, e la Sposa del Sole, è conosciuta anche come il “canto mentale” (mānasa stotra), evidentemente perché, come spiegato in TS VII.3.1, è “cantato mentalmente” (manasā[7] stuvate), e questo proprio perché è nel potere dell’intelletto (manas) non solamente di comprenderlo (imām, i.e., l’universo finito) in un singolo momento, ma anche di trascenderlo, non solo di contenerlo (paryāptum) ma anche di avvolgerlo (paribhavitum). E in questo modo, mediante ciò che è stato precedentemente enunciato vocalmente (vācā) e ciò che è successiva­mente enunciato mentalmente, «entrambi (i mondi) sono posseduti e ottenuti». Proprio lo stesso è sottinteso in ŚB II.1.4.29, dov’è detto che quanto non è stato ottenuto con i riti precedenti è ora ottenuto mediante i versi del Sarparājñī, recitati, com’è evidentemente dato per scontato, mentalmente e in silenzio; e così il tutto (sarvam) è posseduto. Similmente in KB XIV.1, dove le prime due parti del Ājya sono il “mormorio silenzioso” (tūṣṇiṃ-japaḥ) e la “lode silenziosa” (tūṣṇiṃ–śaṇsa), «Egli recita in modo inudibile, per il raggiungimento di tutti i desideri», va inteso, naturalmente, che il canto vocalizzato attiene solo al conseguimento di beni temporali.

Si può notare, altresì, che la corrispondenza delle parole pronunciate verso l’esterno e quelle non dette verso le forme interne di divinità, sopracitata, è in perfetto accordo con la formula­zione di AB I.27, dove quando il soma è stato acquistato dai Gandharva (tipi di Eros, armati di archi e frecce, che sono i guardiani di Soma, ab intra) al prezzo della Parola (vāc, femm., chiamata qui “la Grande Nuda”, la Dea Nuda, e rappresentata nel rito da una giovenca vergine), è prescritto che il recitativo dev’essere eseguito in silenzio (upāṇśu) fino a che ella non sia stata riscattata da loro, vale a dire, fino a quando ella rimane “dentro”.

In BU III.6, dove c’è un dialogo su Brahman, la posizione viene finalmente raggiunta dove all’interrogante viene detto che Brahman è «una divinità sulla quale altre domande non possono essere poste», e così l’interrogante «possiede la sua pace [della divinità]» (upararāma). Questo, naturalmente, è in perfetto accordo con l’impiego della via remotionis negli stessi testi, dov’è detto che il Brahman è “No, No” (neti, neti), e anche con il testo tradizionale citato da Śaṇkara sui Vedānta Sūtra III.2.17, dove Bāhva, interrogato in merito alla natura di Brahman, rimane in silenzio (tūsṇīm), esclamando solo quando la domanda è ripetuta per la terza volta: «Invero io v’insegno, ma voi non capite: questo Brahman è silenzio». Il rifiuto del Buddha d’analizzare lo stato di nirvāṇa comporta precisamente lo stesso significato. [Cfr. avadyam, “l’impronuncia­bile”, da cui i principi conseguenti sono liberati dalla luce manifestata, RV passim.] In BG X.38, Krishna parla di se stesso come «il silenzio di coloro che son nascosti (mauna guhyāṇām), e la gnosi degli Gnostici (jñanaṃ jñanavataām)»; dove mauna corrisponde al muni familiare, “saggio silente”. Naturalmente, questo non significa che Egli non “parli” anche, ma che il suo parlare è semplicemente la manifestazione, e non un’affezione, del Silenzio; come BU III.5 pure ci ricorda, lo stato supremo è tale da trascendere la distinzione tra enunciazione e silenzio. «Senza rispetto verso enunciazione o silenzio (amaunaṃ ca maunaṃ nirvidya), allora egli è veramente un Brāhman». Quando inoltre è chiesto, «Con quali mezzi si diviene così un Brāhman?» all’in­terrogante è detto, «Con quei mezzi con cui si diviene un Brāhman», che è come dire, per una via che può essere trovata ma non può essere tracciata. Il segreto dell’iniziazione rimane inviolabile per sua stessa natura; non può essere tradito perché non può essere espresso, è inesplicabile (aniruktam), ma l’inesplicabile è ogni cosa, allo stesso tempo tutto ciò che può e tutto ciò che non può essere espresso.

Si vedrà dalle citazioni di cui sopra che i testi dei Brāhmaṇa e i riti cui si riferiscono sono non solo assolutamente coerenti in sé ma in completo accordo con i valori sottintesi nel testo dei RV II.43.3; le spiegazioni sono, infatti, di validità universale, e potrebbero essere applicate anche alle Segrete Orazioni della Messa Cristiana (che è anche un sacrificio) come alla ripe­tizione silente della formula degli Indiani Yajus[8]. La coerenza offre allo stesso tempo un’eccel­lente illustrazione del principio generale che quanto si trova nei Brāhmaṇa e nelle Upaniṣhad non rappresenta in linea di principio nulla di nuovo, ma solo un’espansione di quanto è dato per scontato e più “eminentemente” enunciato negli stessi testi liturgici “più vecchi”. Coloro che suppongono che nei Brāhmaṇa e nelle Upaniṣhad siano insegnate dottrine del tutto “nuove” stanno semplicemente ponendo inutili difficoltà sulla via della loro comprensione delle Saṃhitā.

Sarà vantaggioso anche considerare la derivazione e la forma della parola tūṣṇīm. Questa forma indeclinabile, generalmente avverbiale (“silenziosamente”) ma talvolta da rendere in mo­do aggettivale o come un sostantivo, è in realtà l’accusativo di tūṣṇa, femm. tūṣṇī, presumibil­mente andato perso, corrispondente al significato del greco σιγή, e derivato da Vtuṣ, che significa essere soddisfatto, contento e a riposo, nel senso che il movimento s’arresta nel raggiungimento del suo oggetto, e proprio come il discorso s’arresta nel silenzio quando tutto ciò che si poteva dire è stato detto. La parola tūṣṇīm si presenta come un vero accusativo (W. Caland, «tūṣṇīm è uguale a vācaṃyamaḥ») [poiché parlare di “contemplare silenziosamente” comporterebbe una tautologia] in PB VII.6.1, dove Prajāpati, desiderando procedere dallo stato di unità a quello di molteplicità (bahu syām), si espresse con le parole «Possa io nascere» (prajāyeya), e «avendo con l’intelletto contemplato il silenzio» (tūṣṇīm manasā dhyāyat), con ciò “vide” (ādīdhīt) che il Germe (garbham, vale a dire, Agni o Indra, che come il Bṛhat diventa il “primogenito”) era na­scosto dentro di sé (antarhitam), e così si prefisse di farlo nascere per mezzo della Parola (vāc). [Cfr. TS II.5.11.5, yad-dhi manasā dhyāyati, dove yad è equivalente a “parola non detta”, “concetto inespresso”.] Tūsṇīm manasā dhyāyat poi corrisponde al più usuale manasā vācam akrata (RV X.71.2) o manasāivā vācaṃ mithunaṃ samabhavat (ŚB VI.1.2.9), con riferimento a «l’atto della fecondazione latente nell’eternità», così[9] «Egli (Prajāpati) rimase gravido (garbhin)[10] e manifestò (asṛjata) i Singoli Angeli». La nascita del Figlio è, a rigore, non solo un concepimento dai principi congiunti, nel senso di un’operazione vitale, ma allo stesso tempo un concepimento intellettuale, per verbum in intellectu conceptum, corrispondente alla designazione del Germe (garbham, vale a dire, Hiraṇyagarbha) come un concetto (dīdhitim) in tal senso, RV III.31.1.

Il Pañcaviṃśa Brāhmaṇa, sopracitato, continua a spiegare con riferimento all’intenzione di «portare alla nascita per mezzo della Parola» (vācā prajanayā) che Prajāpati «emise la Parola»[11] (vācam vyaṣarjata, in altre parole, effettuò la separazione di Cielo e Terra), ed Ella discese come Rathantara (vāg rathantaram avapadyata, dove avapad è letteralmente “discendere”) … e di lì nacque il Bṛhat … che era rimasto così a lungo all’interno “(jyog antar abhūt); cfr. RV X.124.1, «Tu giacesti abbastanza a lungo nella vasta oscurità» (jyog eva dīrghaṃ tama āśayiṣṭhāh)[12]. Vale a dire che Aditi, Magna Mater, Notte, diventa Aditi, Madre Terra, e Alba, per essere rappresentata nel rituale presso l’altare (vedi), che è il luogo di nascita (yoni) di Agni: si fa distinzione tra la Parola che «era presso Dio ed era Dio» e la Parola come Madre Terra, o in altre parole tra “Maria spirituale” e “Maria incarnata”[13]. Poiché, come sappiamo da TS III.1.7 e JB I.145-146, il Bṛhat (il Padre portato alla nascita) corrisponde al Cielo[14], il futuro (bhaviṣyat), l’illimitato (aparimitam), e all’espirazione (apāna); il Rathantara (la natura separata del Padre) corrisponde alla Terra, il passato (bhūtāt), il limitato (parimitam), e all’inspirazione (prāna)[15]. Gli stessi assunti si trovano in JU I.53 sgg., sostituendo Sāman e Ṛc a Bṛhat e Rathantara: il Sāman (masch.) rappresentante l’intelletto (manas) e l’espirazione (apāna), la Ṛc (femm.) la Parola (vāc) e l’inspirazione (prāṇa). Il Sāman è anche in se ipso «sia lei (sā) sia lui (ama)», ed è come una singola potenza luminosa (virāj)[16] che i principi congiunti generano il Sole, e poi immediata­mente si separano l’uno dall’altro, questa divisione dell’essenza dalla natura, del Cielo dalla Terra, o della Notte dal Giorno essendo l’inevitabile condizione di tutta la manifestazione; è in­variabilmente la venuta della luce che separa nel tempo i Genitori che sono riuniti nell’eternità. Ora sāman è sempre in rapporto con la musica, ṛc con l’articolata formulazione delle incanta­zioni (ṛc, mantra, brahma), così che quando le parole sono cantate con musica misurata questa rappresenta un’analisi e un rendere in natura una musica celestiale che in sé è una, e imper­cettibile all’orecchio umano[17]. Possiamo dire, di conseguenza, che il nome di “Grande Liturgia” (bṛhad ukthaḥ, dove ukthaḥ viene da vāc, “parlare”) applicato ad Agni, e.g., in RV V.19.3, rappresenta il Figlio come Parola parlata, e Logos manifestato[18]; e allo stesso modo Indra è «la più eccellente incantazione» (jyeṣṭhaś ca mantraḥ, RV X.50.4).

La Parola parlata è un’armonia. In KB XXIV.2 e XXIV.1 «Prajāpati è colui il cui nome non è menzionato[19]; questo è il simbolo di Prajāpati … “A voce alta” in “Canta a voce alta, Oh tu dall’ampio splendore” (Agni) è un simbolo del Bṛhat». In ŚB VI.1.1.15, il Giubilo trionfante della Parola parlata è descritto come segue: «Lei (la Terra, bhūmi, essendo pṛthivī, “distesa”), sentendosi del tutto completa (sarvā kṛtsnā), cantò (agāyat); e poiché “cantò”, lei è Gāyatrī. Dicono anche che “Fu Agni, invero, sulla sua schiena (pṛṣṭhe)[20] che, sentendosi del tutto completo, cantò; e dacché cantò, pertanto egli è Gāyatra”. E quindi chiunque si senta del tutto completo, o canta o si diletta nel canto».

Abbiamo così brevemente discusso la natività divina da certi punti di vista al fine di far emer­gere le corrispondenze dei riferimenti vedici e gnostici al Silenzio. In entrambe le tradizioni le potenze autentiche e integrali a ogni livello di riferimento sono sizigie di principi congiunti, maschile e femminile; riassumendo la dottrina gnostica degli Eoni (vedico amṛtāsaḥ=devāḥ) possiamo dire che ab intra e informalmente vi sono ßνθóς e σιγή, “Abisso” e “Silenzio”, e ab extra, formalmente, νoûς e ἔvvoια o Sofia, “Intelletto”, e “Saggezza”, e senza entrare in ulteriori dettagli, che σιγή corrisponde al vedico tuṣṇī e νoûς a manas, σιγή e Sofia rispettivamente agli aspetti nascosti e manifesti di Aditi-Vāc; e anche che la “caduta” della Parola (vāg … avapadyata, sopracitata), e la sua purificazione come Ṛc, Apālā, Sūryā (JU I,53 sgg., RV VIII.91 e X.85) corrisponde alla caduta e redenzione di Sofia e della Shekinah nelle tradizioni gnostica e cabalistica, rispettivamente. In quelle che sono forme di Cristianesimo in realtà più accademiche che “ortodosse”, i due aspetti della Voce, interiore ed esteriore, sono quelli di «quella natura con cui il Padre genera» e «quella natura che recede dalla somiglianza a Dio, e tuttavia mantiene una certa somiglianza con l’essere divino» (Summa Theologiæ I.41.5c e I.14.11 ad 3), il Theotokoi eterno e temporale, rispettivamente.

In conclusione ripetiamo che l’Identità Suprema non è meramente silente né solo vocale, ma letteralmente una non-cosa che è allo stesso tempo indefinibile e parzialmente definita, una Parola tacita e parlata.



Ananda K. Coomaraswamy

* Ananda K. Coomaraswamy, The Vedic Doctrine of “Silence”, in Indian Culture, n. 4, vol. III, Princeton University Press, 1937 (cfr. Coomaraswamy. 2: Selected Papers. Metaphysics, Princeton University Press, 1987).

Legenda: RV: Ṛg Veda Saṃhitā; TS: Taittirīya Saṃhitā; AV: Atharva Veda; PB: Pañcavimśa Brāhmaṇa; ŚB: Śatapatha Brāhmaṇa; AB: Aitareya Brāhmaṇa; KB: Kauṣītaki Brāhmaṇa; JB: Jaiminīya Brāhmaṇa; JU: Jaiminlya Upaniyad; GB: Gopatha Brāhmaṇa; AĀ: Aitareya Āraṇyaka; BU: Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad; MU: Muṇḍaka Upaniṣad; BG: Bhagavad Gita; KU: Kauṣītaki Upaniṣad.

Cfr. R. Guénon, Études Traditionnelles, no 214, octobre 1937, Les Revues, ripreso in Études sur l’Hindouisme, Éditions Traditionnelles, Paris, 1968, Compte-rendu d’articles de revues, Année 1937: «In Indian Culture (Vol. III, no 4), il sig. Ananda Coomaraswamy studia La dottrina vedica del “silenzio”, ch’egli ricollega a quanto abbiamo qui esposto a proposito del “segreto iniziatico”, così come dei “miti” e dei “misteri” intesi nel loro senso originario. Si tratta dunque essenzialmente dell’inesprimibile, che è il “supremo” (para), mentre la “parola” espressa si riferisce necessariamente al “non-supremo” (apara), i due aspetti apparendo d’altronde come inseparabilmente associati in numerosi testi, così come nel rituale, a costituire insieme la concezione totale del Principio».

[1] Ermete, Libro X, 5.

[2] René Guénon, Organisations initiatiques et sociétés secrètes e Du Secret initiatique, in Le Voile d’Isis (1934), pp. 349 e 429; Mythes, mystères et symbols, in Le Voile d’Isis (1935), p. 385. Dal 1936 Le Voile d’Isis è stato pubblicato come Études traditionelles.

[3] «L’Infinito (aditiḥ) è Madre, Padre e Figlio, di tutto ciò che è nato, e il principio di nascita, ecc.» (RV I.89.10); «Nulla è cambiato nell’Infinito inamovibile (ananta) dall’emanazione o riassorbimento dei mondi» (Bhāskara, Bījagaṇita [Benares, 1927], ripetendo il pensiero di AV X.8.29 e BU V.I, che «No­nostante plenum (lat.) (pūraṇam) sia sottratto da plenum, plenum ancora rimane»). L’inclusione del finito nell’Infinito è espressamente formulata in AĀ II.3.8, «A è Brahman, l’ego (aham) è al suo interno». Sulla relazione tra unità e molteplicità vedi Coomarswamy, Vedic Exemplarism, in Harvard Journal of Asiatic Studies, 1936.

[4] Le “operazioni distinte” (vivrata), interne ed esterne (tira o guhya, e āvis), dell’Identità Suprema sono rappresentate da molte altre coppie, e.g., ordine e disordine (cosmo e caos), vita e morte, luce e tenebre, vista e cecità, veglia e sonno, potenza e impotenza, movimento e riposo, tempo ed eternità, ecc. Si può osser­vare che tutti i termini negativi rappresentano privazioni o mali se considerati empiricamente, ma assenza di limite, e bene, quando considerati anagogicamente, il concetto negativo includendo il positivo, come la causa include l’effetto. [Questo è ulteriormente illustrato dalle due nature, niruktānirukta, mortale e immortale, come Mitrāvaruṇau in RV I.164.38, i due Brahmani in BU II.3.1, Prajāpati in ŚB X.1.3.2.]

[5] Cfr. RV X.27.21, «Oltre ciò che è udito qui, v’è un altro suono» (śrava id ena paro anyad asti); I.164.10, «Dietro all’immensità del Cielo gli dei incantano una parola onnisciente senza effetti verso l’esterno» (mantrayante … viśvavidaṃ vācam aviśminvam); JU III,7-9, dove si dice che l’iniziato (dìkṣitaḥ, considerato come un morto per il mondo) pronunci una parola “non umana” (amānuṣiṃ vācam) o “brahmadictum” (brahmavādyam). Nient’altro che un’eco della vera Parola può essere udito o compreso da orecchie umane.

[6] AĀ II.3.7, «Mediante la forma dell’Unico si ha l’essere in questo mondo» (amuno rūpeṇêmaṃ lokam ābhavati); l’opposto, «mediante questa forma (umana) si è interamente rinati in quel mondo» è asserito qui, e anche in II.3.2 dove una “persona” (puruṣa) si distingue dall’animale (paśu) dacché «dal mortale cerca l’immortale, che è la sua perfezione». Ad esempio, in AB VII.31, sopracitato, è mediante i colpi della nyagrodha che il rappresentante del potere temporale condivide metafisicamente il soma (parokṣeṇa). Questa dottrina di “transustanziazione” è enunciata similmente in ŚB XII.7.3.11, «Per fede fa sì che il surā sia soma», cfr. ŚB XII.8.1.5 e XII.8.2.2. Vedi anche Coomaraswamy, Angel e Titan: An Essay in Vedic Ontology, Journal of the American Oriental Society, n. 12, 1935, p. 382.

[7] Da qui Manasā Devī, la moderna denominazione bengalese della Dea Serpente.

[8] Si può aggiungere che mentre, da un punto di vista religioso, silenzio e digiuno e altri atti d’asten­sione sono atti di penitenza, da un punto di vista metafisico il loro significato non ha più a che fare con il mero miglioramento dell’individuo come tale, ma con la realizzazione di condizioni sovra-individuali. La vita contemplativa come tale è superiore alla vita attiva come tale. Non ne consegue, tuttavia, che lo stato del Conoscitore o persino quello del Viaggiatore dovrebbe essere d’inazione totale; questa sarebbe un’i­mitazione imperfetta dell’Identità Suprema, dove eterno riposo ed eterno lavoro sono una e stessa cosa. V’è una imitazione adeguata solo quando inazione e azione sono identificate, come inteso dalla Bhagavad Gitā e nel wu wei Taoista; l’azione non implica più limitazione quando non è più determinata da necessità o imposta da fini da raggiungere, bensì diviene una semplice manifestazione. In tal caso, ad esempio, l’enunciazione non esclude, ma piuttosto rappresenta il silenzio [«È solo dal suono che il non suono è rivelato», MU VI.22]; ed è proprio in questo modo che un mito o altro simbolo adeguato, sebbene sia invero un’”espressione”, rimane essenzialmente un “mistero”. Allo stesso modo, di ogni funzione natu­rale, quando riferita al principio che rappresenta, si può propriamente dire che vi si è rinunciato anche quando è compiuta.

[9] “Così”, i.e., come esprime sant’Agostino: avendo così «fatto Se stesso madre di chi deve nascere» (Epiphanius contra quinque hæreses, 5). [Vedi A Coptic Gnostic Treatise Contained in the Codex Bru­cianus Ms. 96, trad. Charlotte Baynes (Cambridge, 1933), XII.10 (p. 48), per Source and Silence.]

[10] Cfr. Epiphanius contra quinque hæreses XXXIV.4, «Il Padre era in travaglio», e nel folklore, la “covata”.

[11] È interessante notare il rituale parallelo in ŚB IV.6.9.23-24 dove, dopo essersi seduti senza parlare (vācaṃyamaḥ), i sacrificatori devono «formulare la loro richiesta» (vācam visṛjetan) secondo i loro desideri, e.g., «Possa esserci concessa abbondante prole». [Nota tūsṇīm śansaṃ tira iva vai retāṃsi vikryante, AB II.39; cfr. particolarmente JB III.16.]

[12] Dīrghatamas, “Vasta Oscurità”, uno dei “profeti” ciechi (ṛṣī) del Ṛg Veda, è, di conseguenza, la desi­gnazione di una ab intra, nascosta forma di Agni, la cui relazione con suo fratello minore Dīrghaśravas, “Grido Lontano”, è come quella di Varuna con il fratello minore Mitra o Agni, o, in altre parole, come quella della Morte (mṛtyu) con la Vita (āyus). Di Dīrghaśravas è anche detto che era «rimasto a lungo in stato di privazione e mancanza di cibo» (jyog aparuddhó śayānaḥ, PB XV.3.25), e tutte queste espressio­ni corrispondono a quanto si dice di Vṛtra in RV I-32.10, cioè, che «il nemico di Indra giaceva nella vasta oscurità (dīrgham tama aśayat) sotto le Acque»; l’aspetto ab intra della divinità è quello del Drago o del Serpente (vṛtra, ahi), la processione di Prajapati un «trascinarsi fuori dalla cieca oscurità» (andhe tamasi prāsarpat, PB XVI.1.1), e quella dei Serpenti generalmente uno «strisciare avanti» (ati sarpana), per cui essi diventano i Soli (PB XXV.15.4). Su questa processione serpentina vedi Coomaraswamy, Angel and Titan, in Journal of the American Oriental Society, 1935. La processione di Dīrghatamas richiede una più lunga discussione.

[13] Diversamente rappresentato miticamente come il ratto della Parola (RV I.130.9, dove Indra “ruba la Parola,” vācam … muṣāyati), o come un’analisi della Parola (RV VII.103.6, X.71.3 e 125.3), o ancora come una misura o la nascita di Māyā da Māyā (AV VIII.9.5, «Māyā naque da Māyā», seguito dal Lalita Vistara XXVII.12, «Dacché come lei, i.e., la madre del Buddha, la sembianza fu modellata secondo quella di Māyā, Māyā fu chiamata».).

[14] Agni, sebbene il Figlio, è lo stesso Padre rinato, e immediatamente ascende; inoltre, «Agni è acceso da Agni» (RV I.12.6). Di conseguenza, si può dire di lui non solo che «Essendo il Padre, divenne il Figlio» (AV XIX.53.4) e che Egli è insieme «il Padre degli dei e il loro Figlio» (RV I.69.1, vedi ŚB VI.1.2.26), ma anche che «Colui che un tempo era il proprio Figlio ora diventa il proprio Padre» (ŚB II.3.3.5), che egli è «Padre di suo padre» (RV VI.16.35), a un tempo Figlio e Fratello di Varuṇa (RV IV.1.2 e X.51.6), e “Proprio-figlio” (tanūnapat, passim), quest’ultima espressione corrisponde esattamente allo Gnostico “αῦτoγεvης”. Quindi, è facile vedere come Agni, sebbene Figlio di nascita ctonia [ctonio dal gr. χϑόνιος, der. di χϑών -ονός “terra”, letter. sotterraneo (N.d.T.)], può nella sua identità con il Sole essere considerato anche come l’Amante della Madre Terra; la sigizia [dal gr. σύζυγος, lett. aggiogato insieme; in astronomia, dicesi sigizia una configurazione in linea retta di tre corpi celesti (N.d.T.)] Agni-Prithvī essendo quindi un aspetto dei genitori Cielo e Terra, Savitṛ-Sāvitṛī, e più alla lontana Mitrāvaruṇau (GB I.32 e JUB IV.27, ecc.).

[15] Cfr. in AĀ II.3.6 la distinzione dello spirito (prāna) dal corpo (śarīra), di cui il primo è nascosto (tira) e il secondo evidente (āvis), come “a” intrinseca e “a” espressa: ŚB X.4.3.9, «Nessuno diventa immortale mediante il corpo, ma che si tratti di gnosi o di lavoro, solo dopo aver abbandonato il corpo».

[16] Virāj, da cui tutte le cose “suggono” la loro specifica virtù o carattere, è comunemente una designa­zione della Magna Mater, ma anche quando così considerato è una sigizia, «Chi conosce la sua dualità progenitiva?» AV VIII.9.10. I termini virāj e aditi, benché entrambi di solito femminili, possono anche avere un senso maschile con riferimento simile al primo principio. Sostenere, invero, che qualsiasi potere creativo considerato nel suo aspetto creativo possa essere definito come esclusivamente “maschio” o esclu­sivamente “femmina” implica una contraddizione in termini, essendo qualunque creazione una co-gnizione e una con-cezione; persino nel Cristianesimo, la generazione del Figlio è «un’operazione vitale da un principio congiunto» (a principio conjuncto, Summa Theologiæ I.27.2), i.e., un principio che è sia un’es­senza sia una natura, «Quella natura onde la quale il Padre genera». E solo quando ci si è resi conto una volta per tutte che il potere creativo a qualsiasi livello di riferimento, che sia ad esempio come Dio o Uomo, è sempre un’unità di principi congiunti, vale a dire, una sigizia e mithunatva, che può essere vista l’adeguatezza di espressioni come «Egli (Agni) nacque dal grembo di Titan (asurasya jaṭharāt ajāyata)», RV III.29.14; «Mitra versa il seme in Varuṇa (retaḥ varuṇo siñcati)», PB XXV.10.10; «Il mio grembo è il Grande Brahman, in esso depongo il Germe», BG XIV.3, e molti riferimenti simili alla maternità di una divinità attribuiti con nomi grammaticalmente maschili o neutri.

[17] Proprio come in Plotino, Enneadi I.6.3, «Armonie non udite nel suono creano le armonie che udiamo e risvegliano l’anima alla sola essenza in un’altra natura»; e V.9.11, «Una rappresentazione terrena della musica che c’è nel ritmo (Skr. chandāṇsi) del mondo ideale». È precisamente in tal senso che la musica rituale, come ogni altra parte del Sacrificio, è un’imitazione di «ciò che fu fatto dalle Divinità al principio» (ŚB VII.2.1.4 e passim), che vale non meno per la Messa o il Sacrificio Cristiano.

Si può osservare che nell’operazione dei principi congiunti necessariamente ne concepiamo uno come attivo, l’altro come passivo, e diciamo che uno è agente e l’altro mezzo, o che uno dà e l’altro riceve. L’apparente conflitto con la dottrina Cristiana, che nega una “potenza passiva” in Dio (Summa Theologiæ I.41.4 ad 2), è irreale. Lo stesso San Tommaso osserva che «in ogni generazione v’è un principio attivo e uno passivo» (Summa Theologiæ I.98.2c). Il fatto è che una distinzione di questo tipo è determinata dalla necessità di parlare in termini di tempo e spazio; mentre in divinis l’azione è immediata, e non v’è una di­stinzione reale, ma soltanto logica tra agente e mezzo. Savitṛ e Sāvitṛī sono entrambi ugualmente “grembi” (yonī, JU IV.27). Se «Una delle perfezioni agisce (kartā), l’altra favorisce (ṛndhan)», RV III.31.2, ed entrambe le cose sono operazioni attive; non significa che “agire” o “favorire” rappresentino possibilità che potrebbero o meno essere state realizzate, ma solamente si riferisce alla co-operazione dei principi congiunti, intenzione e potenza. Non v’è distinzione fra potenzialità e atto. È solo quando la creazione è avvenuta, e i concetti di tempo e spazio sono quindi coinvolti, che possiamo pensare a un “puro atto” come separato dalla “potenza” dalla misura dell’intero universo (Dante, Paradiso XXIX.31-36), pensare al Cielo e alla Terra “in atto di separarsi” (te vyadravatām, JU I,54), o alla «Natura che si allontana dalla somiglianza con Dio» (Summa Theologiæ I.14.11). Questa separazione (viyoga) è l’occasione della sofferenza cosmica (traiśoka, il dolore dei Tre Mondi che un tempo erano stati uno, PB VIII.1.9, loka-duḥkha, Weltschmerz, KU V.II), e non v’è da meravigliarsi che «Quando la coppia congiunta fu divisa, i Deva gemettero, e dissero, “Lasciate che s’uniscano ancora”» (RV X.24.5); tuttavia, è solo «all’incontro delle vie», «alla fine dei mondi», che il Cielo e la Terra «s’abbracciano» (JU 1.5, ecc.), solo «nel cuore» che il matrimonio di Indra e Indrāṇī è davvero consumato (ŚB X.5.2.11), vale a dire, in un silenzio e oscurità che sono gli stessi come nella «Notte che nasconde l’oscurità della coppia congiunta» in RV I.123.7, il Śatapatha Brāhmaṇa interpreta questa condizione di cognizione inconscia (saṃvit), beatitudine perfetta (para-mānanda), e sonno (svapna) come un «entrare all’interno, o essere posseduto da, ciò che è il proprio Sè» (svāpyaya). [Cfr. Māṇḍ. Up. II, apīti.]

[18] Il Sacrificio nel suo aspetto liturgico è un «portare alla nascita mediante la Parola»: si «canta la Sāman su un Ṛc», e questo è un accoppiamento procreativo (mithunam), identico a quello tra Intelletto e Parola (manas e vāc), Sacrificio e Ricompensa (yajña, dakṣinā, i.e., Prajāpati e Alba), e letteralmente una in-form-azione della Natura, «se non fosse per l’Intelletto, la Parola sarebbe incoerente» (ŚB III.2.4.11), mentre è in realtà il «luogo di nascita dell’Ordine». La Rathantara, ad esempio, è un «mezzo di procrea­zione» (prajananam, PB VII.7.16, corrispondente a prajananam in quanto “amante” viśpatnī, la “madre” di Agni in RV III.29.1); Sāvitrī in tal senso è identificato con i misuratori (chandāṇsi) e chiamata la “Madre dei Veda” (Gopatha Brāhmana I.33 e 38), i quali “misuratori” sono comunemente considerati come il mezzo per eccellenza di reintegrazione (saṃskaraṇa, AB VI.27, ŚB VI.5.4.7, ecc.), e nella sua unione con Savitṛ presenta un’analogia con l’Ecclesia Gnostica (“Chiesa Madre”) e Gnosi come costituenti una sigizia con l’Uomo (άνθρωπος=Prajāpati, Agni, Manu). Anche in questo nesso andrebbe notata la stretta relazione delle parole mātrā, mātṛ, e māyā, “metro”, “madre”, e “mezzi magici” o “matrice”; mā “misurare” e nir-mā “delimitare” essendo costantemente impiegati non solo nel senso di dare forma e definizione, ma nel senso strettamente correlato di creare o dare alla luce, segnatamente in RV III.38.3, III.53.15, X.5.3, X.125.8, AV VIII.9.5, e nella ben nota espressione nirmāṇa-kāya, che denota precisa­mente il presunto ed effettivamente manifestato e nato “corpo” del Buddha.

Sacrificio e nascita sono concetti inseparabili; il Śatapatha Brāhmaṇa, invero, propone la hermeneia, «yajña, perché “yañ jayate”». Il Sacrificio crea divisione, uno “spezzare del pane”; il risultato è articolato e chiaro. Il Sacrificio è un distendersi, un fare un tessuto o rete della Verità (satyam tanavāmahā, ŚB IX.5.1.18), una metafora comunemente impiegata altrove in relazione all’irraggiare della luce fontale, che forma la trama dei mondi. Proprio come l’accensione di Agni è il rendere percepibile ed evidente una luce nascosta, così l’enunciazione dei canti è il rendere percepibile un silente principio del suono. La Parola parlata è una rivelazione del Silenzio, che misura la traccia di ciò che è di per sé incommensurabile.

[19] [Prajāpati sceglie aniruktaṃ sāmno … svargyam, la «(parte) indistinta del sāman che appartiene al Cielo», JU I.52.6; cfr. manasā “in silenzio”, opposto a vācā, come nel JU I.58.6; vedi ŚB IV.6.9.17 e la nota di Eggeling su manasā stotra, anche JU I.40.4.]

[20] Pṛṣṭhe, i.e., (1) con riferimento ad Agni seduto sull’altare della terra (vedi), che è il luogo della sua nascita (yoni), e/o (2) con riferimento ad Agni sostenuto da Pṛṣṭhhastotra, del cui inno la Gāyatrī è la madre per mezzo di Prajāpati, PB VII.8.8.

mercoledì 19 ottobre 2016

Il castello di Tures e la stanza degli spettri

In collaborazione con Hesperya

tratto da: http://www.hesperya.net/2016/09/01/il-castello-di-tures-e-la-stanza-degli-spettri/

di Roberta Faliva

Il castello di Tures risale ai primi del XIII secolo e sorge in una posizione strategica che permetteva di controllare un attacco nemico e consentiva, ai signori del castello, di esigere un pagamento per il passaggio nelle loro terre.

All’interno del castello c’è una stanza degna di nota, la cosiddetta “Stanza degli Spettri”. Questo luogo deve il suo singolare nome alla leggenda di Margherita e alla sua triste sorte. Margherita von Taufers voleva sposarsi con un giovane di basso lignaggio, probabilmente il capitano delle guardie del castello. La cosa non fu apprezzata in famiglia e qualcuno, forse il padre stesso, ingaggiò un sicario per eliminare il futuro marito, che venne ucciso da una freccia il giorno delle nozze, proprio sull’altare. La leggenda vuole che Margherita disperata si rinchiuse nella sua camera dove pianse ininterrottamente per sette anni per poi gettarsi dalla finestra. Secondo alcuni racconti locali, in alcune particolari notti dell’anno è ancora possibile sentire lo spettro della giovane gemere e piangere.
Un fatto particolare è legato alla storia misteriosa di questo luogo: durante le riprese del film del 1972 di Ettore Scola, “La più bella serata della mia vita”, che si effettuarono nel castello, fu proprio Alberto Sordi a riferire di aver udito i gemiti e i lamenti di Margherita. In molti sostengono che il suo fantasma ancora si aggiri senza pace nelle sale del castello di Tures.