domenica 7 gennaio 2018

Sulle condizioni dell’iniziazione

in collaborazione con la rivista Lettera e Spirito:
http://acpardes.com/letteraespirito/sulle-condizioni-delliniziazione/

di René Guénon

Possiamo ora tornare alla questione delle condizioni dell’iniziazione, e diremo innanzitutto, quantunque la cosa possa parere ovvia, che la prima di tali condizioni è una certa attitudine o disposizione naturale, senza la quale ogni sforzo risulterebbe vano, giacché l’individuo può evi­dentemente sviluppare solo le possibilità che porta in sé dall’origine; tale attitudine, che fa quello che taluni chiamano l’“iniziabile”, costituisce propriamente la “qualificazione” richiesta da tutte le tradizioni iniziatiche[1]. Del resto, questa condizione è la sola che sia, in un certo senso, comune all’iniziazione e al misticismo, giacché è chiaro che anche il mistico deve avere una disposizione naturale particolare, quantunque interamente diversa da quella dell’“iniziabile”, se non addirittura opposta per certi versi; ma tale condizione, per lui, se è del pari necessaria, è inoltre sufficiente; non ce ne sono altre che debbano aggiungersi a essa, e le circostanze fanno tutto il resto, facendo passare a loro piacimento dalla “potenza” all’“atto” queste o quelle altre possibilità che comporta la disposizione in questione. Ciò risulta direttamente da quel carattere di “passività” di cui abbiamo parlato sopra: in un simile caso, non può infatti trattarsi di un qualsivoglia sforzo o lavoro personale, che il mistico non dovrà mai effettuare, e dai quali dovrà anzi invece guardarsi con cura, come da qualcosa che sarebbe in opposizione con la sua “via”[2], mentre, al contrario, per quanto riguarda l’iniziazione e dato il suo carattere “attivo”, un lavoro del genere costituisce un’altra condizione non meno strettamente necessaria della prima, e senza la quale il passaggio dalla “potenza” all’“atto”, che è propriamente la “realizzazione”, non può assolutamente effettuarsi[3].

Eppure, non è ancora tutto: finora abbiamo insomma soltanto sviluppato la distinzione, che avevamo posto all’inizio, dell’“attività” iniziatica e della “passività” mistica, per trarne la con­seguenza che, per l’iniziazione, v’è una condizione che non esiste e non può esistere per quanto riguarda il misticismo; ma v’è ancora un’altra condizione non meno necessaria di cui non abbiamo parlato, e che si situa in qualche modo tra quelle di cui abbiamo appena trattato. Tale condizione, sulla quale occorre tanto più insistere poiché gli Occidentali sono in generale abba­stanza portati a ignorarla o a sottovalutarne l’importanza, è inoltre, per la verità, la più caratte­ristica di tutte, quella che permette di definire l’iniziazione al di fuori di ogni possibile equi­voco, e di non confonderla con qualche altra cosa; in virtù di essa, il caso dell’iniziazione è delimitato assai meglio di quanto non può esserlo quello del misticismo, per il quale nulla di simile esiste. È spesso assai difficile, se non del tutto impossibile, distinguere il falso misticismo dal vero; il mistico è, per definizione, un isolato e un “irregolare”, e talvolta non sa neppure lui che è veramente; e il fatto che nel suo caso non si tratta di conoscenza allo stato puro, ma che pure ciò che è conoscenza reale è sempre interessata da una mescolanza di sentimento e d’im­maginazione, è inoltre ben lungi dal semplificare la questione; in ogni caso, si è in presenza di qualcosa che sfugge a qualsiasi controllo, cosa che potremmo esprimere dicendo che non esiste per il mistico alcun “mezzo di riconoscimento”[4]. Si potrebbe dire anche che il mistico non ha “genealogia”, che egli non è tale se non per una sorta di “generazione spontanea”, e pensiamo che tali espressioni siano facili da capire senza ulteriori spiegazioni; pertanto, come si potrebbe affermare indubitabilmente che qualcuno è un mistico autentico e che un altro non lo è, quando invece tutte le apparenze possono essere sensibilmente le medesime? Per contro, le contraffa­zioni dell’iniziazione possono sempre essere rivelate infallibilmente grazie all’assenza della condizione alla quale abbiamo appena accennato, e che altro non è se non il ricollegamento a un’organizzazione tradizionale regolare.

Vi sono degli ignoranti che s’immaginano che ci “si inizi” da soli, il che è una sorta di contraddizione in termini; dimenticando, se mai l’hanno saputo, che la parola initium significa “entrata” o “inizio”, confondono l’atto stesso dell’iniziazione, intesa in senso rigorosamente eti­mologico, con il lavoro da compiere in seguito perché tale iniziazione, da virtuale che è stata in principio, divenga più o meno pienamente effettiva. L’iniziazione, così intesa, è ciò che tutte le tradizioni si accordano nel designare come “seconda nascita”; come potrebbe, perciò, un essere agire da sé ancor prima d’essere nato[5]? Sappiamo bene che cosa si potrà obiettare a questo: se l’essere è veramente “qualificato”, porta già in sé le possibilità che si tratta di sviluppare; per­ché, se le cose stanno così, non potrebbe realizzarle con il proprio sforzo, senza alcun intervento esteriore? È questa infatti una cosa che è permesso prevedere teoricamente, a condizione di concepirla come il caso di un uomo “nato due volte” fin dal primo momento della sua esistenza individuale; ma, se ciò non presenta impossibilità di principio, v’è nondimeno un’impossibilità di fatto, nel senso che ciò è contrario all’ordine stabilito per il nostro mondo, perlomeno nelle condizioni attuali. Non siamo nell’epoca primordiale in cui tutti gli uomini possedevano in modo normale e spontaneo uno stato che è oggi inerente a un elevato grado d’iniziazione[6]; e d’altronde, a dire il vero, la stessa parola iniziazione in quell’epoca non poteva avere alcun senso. Siamo nel Kali-Yuga, ossia in un tempo in cui la conoscenza spirituale è divenuta na­scosta, e in cui solamente qualcuno può ancora raggiungerla, purché si ponga nelle condizioni richieste per ottenerla; ora, una di tali condizioni è precisamente quella di cui stiamo parlando, così come un’altra condizione è uno sforzo di cui gli uomini delle prime età non avevano ugualmente nessun bisogno, poiché lo sviluppo spirituale avveniva in essi in modo altrettanto naturale quanto lo sviluppo corporeo.

Si tratta quindi di una condizione la cui necessità s’impone in conformità con le leggi che governano il nostro mondo attuale; e, per farlo meglio comprendere, possiamo ricorrere qui a un’analogia: tutti gli esseri che si svilupperanno nel corso di un ciclo sono contenuti fin dal principio, nello stato di germi sottili, nell’“Uovo del Mondo”; pertanto, perché non potrebbero nascere nello stato corporeo da soli e senza genitori? Neppure questa è un’impossibilità assolu­ta, ed è possibile concepire un mondo in cui ciò avverrebbe; ma, in realtà, questo mondo non è il nostro. Facciamo, beninteso, una riserva per le anomalie; può accadere che vi siano dei casi eccezionali di “generazione spontanea”, e, nell’ordine spirituale, abbiamo noi stessi applicato poco fa quest’espressione al caso del mistico; ma abbiamo anche detto che questi è un “irrego­lare”, mentre l’iniziazione è cosa essenzialmente “regolare”, che non ha niente a che vedere con le anomalie. Inoltre, occorrerebbe sapere esattamente fin dove queste possono spingersi; an­ch’esse devono pur rientrare in definitiva in qualche legge, giacché tutte le cose non possono esistere che come elementi dell’ordine totale e universale. Questo solo, se ci si volesse riflettere bene, potrebbe bastare per far pensare che gli stati realizzati dal mistico non sono precisamente gli stessi di quelli dell’iniziato, e che, se la loro realizzazione non è soggetta alle stesse leggi, è perché si tratta effettivamente di qualcos’altro; ma possiamo ora accantonare interamente il caso del misticismo, sul quale abbiamo detto abbastanza per quel che ci proponevamo di comprova­re, per considerare esclusivamente solo quello dell’iniziazione.

Ci resta infatti da precisare il ruolo del ricollegamento a un’organizzazione tradizionale, che non può, beninteso, dispensare in nessun modo dal lavoro interiore che ciascuno può compiere solo da sé, ma che è richiesto, come condizione preliminare, perché tale lavoro possa effettiva­mente portare i suoi frutti. Si deve capire bene, fin d’ora, che coloro che sono stati stabiliti come depositari della conoscenza iniziatica non possono comunicarla in un modo più o meno parago­nabile a quello con cui un professore, nell’insegnamento profano, comunica ai suoi allievi delle formule libresche che essi dovranno solo immagazzinare nella loro memoria; qui si tratta di qualcosa che, nella sua stessa essenza, è propriamente “incomunicabile”, poiché sono degli stati da realizzare interiormente. Quanto si può insegnare, sono solamente dei metodi preparatori per l’ottenimento di tali stati; ciò che può essere fornito dall’esterno al riguardo, è insomma un aiuto, un appoggio che facilita grandemente il lavoro da compiere, e anche un controllo che elimini gli ostacoli e i pericoli che possono presentarsi; sono tutte cose tutt’altro che trascurabili, e colui che ne fosse privato correrebbe il grosso rischio d’incorrere in un fallimento, ma ancora questo non giustificherebbe interamente quel che abbiamo detto quando abbiamo parlato di una condi­zione necessaria. Comunque non è quello cui intendevamo riferirci, almeno in modo immediato; sono tutte cose che intervengono solo secondariamente, e in certo qual modo a titolo di conse­guenze, dopo l’iniziazione intesa nel suo senso più stretto, quale abbiamo indicato sopra, e allorché si tratti di sviluppare effettivamente la virtualità che essa costituisce; ma ancora biso­gna, prima di tutto, che simile virtualità preesista. È dunque in modo diverso che dev’essere intesa la trasmissione iniziatica propriamente detta, e non potremmo caratterizzarla meglio se non dicendo che essa è essenzialmente la trasmissione di un’influenza spirituale; dovremo tornarvi più ampiamente, ma, per il momento, ci limiteremo a determinare più esattamente il ruolo che gioca tale influenza, tra l’attitudine naturale prima inerente all’individuo e il lavoro di realizzazione che compirà in seguito.

Abbiamo fatto notare in altro luogo che le fasi dell’iniziazione, così come quelle della “Grande Opera” ermetica che non ne è in fondo che una delle espressioni simboliche, riprodu­cono quelle del processo cosmogonico[7]; tale analogia, che si fonda direttamente su quella tra il “microcosmo” e il “macrocosmo”, permette, meglio di ogni altra considerazione, d’illuminare la questione di cui si tratta presentemente. Si può dire, infatti, che le attitudini o possibilità incluse nella natura individuale sono innanzitutto, in quanto tali, soltanto una materia prima, cioè una pura potenzialità, in cui non v’è nulla di sviluppato o di differenziato[8]; si tratta perciò dello stato caotico e tenebroso, che il simbolismo iniziatico fa precisamente corrispondere al mondo pro­fano, e nel quale si trova l’essere che non è ancora pervenuto alla “seconda nascita”. Perché questo caos possa incominciare a prender forma e a organizzarsi, occorre che una vibrazione iniziale gli sia comunicata dalle potenze spirituali, che la Genesi ebraica indica con il nome di Elohim; tale vibrazione è il Fiat Lux che illumina il caos, e che è il punto di partenza necessario di tutti gli sviluppi ulteriori; e, dal punto di vista iniziatico, quest’illuminazione è precisamente costituita dalla trasmissione dell’influenza spirituale della quale abbiamo appena parlato[9]. Per­tanto, e in virtù di tale influenza, le possibilità spirituali dell’essere non sono più la semplice potenzialità che erano prima; esse sono divenute una virtualità pronta a svilupparsi in atto nei diversi stadi della realizzazione iniziatica.

Possiamo riassumere tutto quanto precede dicendo che l’iniziazione implica tre condizioni che si presentano in modo successivo, e che si potrebbero far corrispondere rispettivamente ai tre termini di “potenzialità”, “virtualità” e “attualità”: 1. la “qualificazione”, costituita da certe possibilità inerenti alla natura propria dell’individuo, e che sono la materia prima sulla quale il lavoro iniziatico dovrà effettuarsi; 2. la trasmissione, per il tramite del ricollegamento a un’orga­nizzazione tradizionale, di un’influenza spirituale che conferisce all’essere l’“illuminazione” che gli permetterà d’ordinare e di sviluppare queste possibilità che porta in sé; 3. il lavoro interiore mediante il quale, con l’aiuto di “ausili” o di “supporti” esteriori eventuali e soprattutto durante i primi stadi, tale sviluppo sarà realizzato gradualmente, facendo passare l’essere, di scalino in scalino, attraverso i differenti gradi della gerarchia iniziatica, per condurlo alla meta finale della “Liberazione” o dell’“Identità Suprema”.



René Guénon

[1] Si vedrà d’altronde, dallo speciale studio che dedicheremo in seguito alla questione delle qualifica­zioni iniziatiche, che tale questione presenta in realtà degli aspetti molto più complessi di quanto si po­trebbe credere sulle prime e se ci si arrestasse alla sola nozione molto generale che ne diamo qui.

[2] Anche i teologi vedono volentieri, e non senza ragione, un “falso mistico” in colui che cerca, con uno sforzo qualsiasi, d’ottenere visioni o altri stati straordinari, quand’anche tale sforzo si limitasse a concepire un semplice desiderio.

[3] Da ciò discende, tra altre conseguenze, che le conoscenze d’ordine dottrinale, che sono indispensa­bili all’iniziato, e la cui comprensione teorica è per lui una condizione preliminare d’ogni “realizzazione”, possono mancare interamente al mistico; da qui viene sovente, in quest’ultimo, oltre alla possibilità di errori e di molteplici confusioni, una strana incapacità d’esprimersi in modo intelligibile. D’altronde dev’essere beninteso che le conoscenze in questione non hanno assolutamente niente a che vedere con tutto quel che è soltanto un’istruzione esteriore o “sapere” profano, che non ha qui alcun valore, come spiegheremo ancora in seguito, e che pure, tenuto conto di che cos’è l’istruzione moderna, costituirebbe piuttosto un ostacolo che non un aiuto in molti casi; un uomo può benissimo non sapere né leggere né scrivere e raggiungere nondimeno i gradi più elevati dell’iniziazione, e casi del genere non sono rarissimi in Oriente, mentre vi sono degli “studiosi” e persino dei “geni”, secondo il modo di vedere del mondo profano, che non sono “iniziabili” a nessun titolo.

[4] Non intendiamo con ciò delle parole o segni esteriori e convenzionali, ma quello di cui simili mezzi non sono in realtà che la rappresentazione simbolica.

[5] Ricordiamo qui l’adagio scolastico elementare: «per agire, bisogna essere».

[6] È quello che la parola Hamsa indica nella tradizione indù, intesa come nome alla casta unica che esi­steva in origine, e che designa propriamente uno stato che è ativarna, vale a dire di là dalla distinzione delle caste attuali.

[7] Vedere L’Ésoterisme de Dante, segnatamente le pp. 63-64 e 94 (I ed.).

[8] Va da sé che, a rigore, si tratta di una materia prima solo in senso relativo, non in senso assoluto; ma tale distinzione non ha importanza dal punto di vista in cui qui ci poniamo, e d’altronde lo stesso si può dire della materia prima di un mondo come il nostro, che, essendo già determinata in un certo modo, non è in realtà, nei confronti della sostanza universale, che una materia secunda (cf. Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, cap. II), dimodoché, anche secondo quest’aspetto, l’analogia con lo sviluppo del nostro mondo a partire dal caos iniziale è rigorosamente esatta.

[9] Da qui provengono espressioni come quelle di “dare la luce” e “ricevere la luce”, usate per indicare, con riferimento rispettivamente all’iniziatore e all’iniziato, l’iniziazione in senso stretto, vale a dire la trasmissione vera e propria di cui stiamo trattando. Si noterà anche, per quanto concerne gli Elohim, che il numero settenario loro attribuito è in relazione con la costituzione delle organizzazioni iniziatiche, che deve essere effettivamente un’immagine dello stesso ordine cosmico.

mercoledì 13 dicembre 2017

La Grande Guerra degli esoteristi

tratto da Tempi del 18 ottobre 2017

di Sandro Consolato

Il matematico fiorentino, il musicista calabrese, l’archeologo romano, il filosofo idealista, la nobildonna medianica e un misterioso ieronimo

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola – Siamo arrivati quasi alla fine del penultimo anno del centenario della Grande Guerra. In Italia piuttosto svogliatamente, e c’è da prevedere che ci sarà un sussulto solo per ricordarsi, tra breve, di Caporetto. Molto avrebbe potuto e dovuto essere fatto dal ministero della Pubblica istruzione per ricordare nel modo migliore il profondo intreccio tra vita intellettuale e artistica ed esperienza bellica, ma è difficile aspettarsi adeguate iniziative da chi due anni fa (Miur, Nota prot. n. 3401 del 19 maggio 2015) invitava le istituzioni scolastiche regionali a celebrare il Centenario del 24 maggio aprendo col riferimento ad una «data [che] rappresenta l’inizio di una pagina buia della nostra storia». Ma qui non è di questo che vogliamo parlare. Non senza rapporti con l’interventismo degli intellettuali e degli artisti, vi è una storia poco nota che riguarda la cultura italiana e la Grande Guerra, ed è quella dell’attiva partecipazione ad essa degli esoteristi. Ed è questa storia che vorremmo raccontare.

 Intanto, è bene ricordare che l’esoterismo è ormai entrato a livello internazionale nella storia delle idee e nella stessa storiografia nazionale, come dimostrano gli Annali 21 e 25 della Storia d’Italia Einaudi, dedicati a La Massoneria (2006) e all’Esoterismo (2010), entrambi a cura di G. M. Cazzaniga. Tuttavia pure in queste due opere della Grande Guerra non si dice granché, e perfino il ruolo della massoneria in questa importante vicenda non trova adeguata trattazione, mentre la ha per ciò che riguarda l’irredentismo prebellico. Ma qui non è neanche della massoneria, il cui impegno di fatto non ebbe alcun risvolto da dirsi realmente “esoterico”, che intendiamo parlare, pur se in una certa misura si ha a che fare anche con essa.
Tutto ebbe inizio alle Giubbe Rosse?
Vi è ormai tutta una serie di studi rigorosi (v. ad es. F. Giorgio, Roma Renovata Resurgit, Il Settimo Sigillo, 2011) che evidenziano come nella storia italiana si siano di tempo in tempo manifestate correnti esoteriche rifacentesi all’ermetismo ma anche alla tradizione romana, e però datesi pure il compito, nei secoli della frammentazione politica e del dominio straniero, di riportare l’Italia alla sua unità “augustea”. E se “unitarista” fu anche la massoneria italiana dall’età napoleonica in poi, in ciò deve vedersi pure l’influsso in essa di tali correnti. E basterebbe pensare al documento carbonaro del 1821 intitolato “Patto d’Ausonia”, prefigurante un’Italia con Roma capitale e comprendente penisola e isole con tutti i territori già veneziani e Trieste e Fiume, per capire come la Grande Guerra dovesse essere voluta quale coronamento di un progetto concepito da lunghissimo tempo.
In età giolittiana, nella Firenze delle “Giubbe Rosse”, appare un giovane musicista calabrese, come venuto dal nulla. Si chiama Amedeo Rocco Armentano (1886-1966) ed entra nella massoneria fiorentina nel 1907. Ma ARA, così sarà pure conosciuto, ha in proprio, in campo esoterico, qualcosa di più: è il depositario di un insegnamento segreto, proprio ad una tradizione squisitamente italica, pitagorica. Un’antica torre sul mare, la Torre Talao, nella nativa Scalea (Cs), è, dal 1913, la “rocca” della Schola Italica, con le sue pratiche. Verso il 1910 circa il maestro conosce ed inizia Arturo Reghini (1878-1946), matematico, anche lui massone, amicissimo di Papini. Nel 1912 Armentano e i suoi discepoli entrano nel Rito filosofico italiano di Eduardo Frosini (1879-?) per dare un più ampio respiro alle loro idee, anche quelle storiche e politiche, che si esprimono nell’articolo di Reghini “Imperialismo pagano”, che appare nel 1914 sulla rivista La Salamandra. «Imperialismo Pagano – dirà poi ARA – non significa un ritorno al Paganesimo, ma alla Romanità, cioè a quell’idea dell’Unità che nacque in Roma ma che è universale ed eterna». Da qui «un movimento riallacciantesi sul serio all’antica sapienza pitagorica, occidentale e, più che mediterranea, tirrenica».
Ekatlos e la Grande Orma
Già nel 1913 Reghini ha presente che è vicino un grande conflitto europeo, ma Armentano pare averlo già previsto molto tempo prima. E in quello stesso anno, in un altro milieu esoterico, a Roma, accade pure qualcosa di straordinario, se dobbiamo credere alla relazione su una serie di eventi accaduti tra il 1913 e il 1923 che è pubblicata con il titolo “La Grande Orma”. La scena e le quinte e con la firma “Ekatlos” venne poi pubblicata nel 1929 sulla rivista Krur, diretta da Julius Evola. Ekatlos scrive: «Sulla fine del 1913 cominciarono a manifestarsi segni che qualcosa di nuovo richiamava le grandi forze della tradizione nostra. Questi segni ci furono direttamente palesi». Racconta dunque del ritrovamento, in un antico sito romano e in seguito a indicazioni pervenute per vie misteriose, di uno scettro e di una benda con i segni di un rituale. Eseguito «per mesi e mesi, ogni notte, senza sosta», il rito avrebbe visto accorrere «forze di guerra e forze di vittoria». «La guerra immane, che divampò nel 1914, inaspettata per ogni altro – spiega sempre Ekatlos – noi la conoscevamo. L’esito, lo conoscevamo. L’una e l’altro furono visti là dove le cose sono, prima di esser reali. E vedemmo l’azione di potenza che una occulta forza volle dal mistero di un sepolcro romano».
Vi è chi ha voluto vedere, nascosto dietro il nome Ekatlos il principe Leone Caetani (1869-1935), insigne islamista, deputato democratico costituzionale tra il 1909 e il 1913, poi vicino al socialista interventista Bissolati e volontario lui stesso nel 1915, ufficiale nell’artiglieria di montagna in Cadore fino al 1917. Più sicura sembra peraltro l’identificazione dello stesso aristocratico romano con un altro esoterista, autore nel 1910, con il nome di “Ottaviano”, di tre scritti per la rivista Commentarium, espressione della Fratellanza di Miriam, fondata nel 1896 dall’ermetista Giuliano Kremmerz (1861-1930). Che comunque la relazione di Ekatlos provenisse dall’ambito kremmerziano ne è prova il fatto che a consegnarla ad Evola nel 1929 fu la nobildonna Camilla Calzone Mongenet, discepola di Kremmerz. Significativo, in ordine alla Grande Guerra, che la Mongenet, come emerge dalle carte di un processo del dopoguerra in cui ebbe come avvocato difensore Farinacci, si ritenesse una sorta di madrina mistica dei combattenti. Non è molto chiara la posizione di Kremmerz sulla guerra, ma se sappiamo per certo, come scrisse Reghini, che era «un buon italiano», è anche vero che in una sua lettera ai discepoli del 1° giugno 1917 palesa più larghi sentimenti umanitari ed esprime il suo sconforto per «i sanguinosi risultati dell’ora presente». Pure tra i suoi discepoli troviamo però volontari in guerra, come il tenente pugliese Giovanni Bonabitacola (1880-1945), che poi dal 1921 guiderà la Miriam romana. Dalla migliore storia della Miriam in circolazione (www.giulianokremmerz.it/STORIA/HOME_Storia.htm) apprendiamo peraltro che per la salvezza dei Fratelli al fronte «Kremmerz trasmise il rito del Pretium, forse di origine romana, comunque antichissimo ed assai complesso. Il rito funzionò perfettamente: ai Fratelli che furono chiamati in guerra fu consegnata la scheggia rituale e grazie al suo potere tornarono tutti illesi, ad eccezione di un fratello che comunque fu soltanto ferito».
Volontari per il fronte partono anche Armentano e i suoi. Armentano è in Cadore con gli Alpini, e alpino è pure uno dei suoi primissimi e fidati discepoli, Giulio Guerrieri, che a Parigi aveva, come del resto lo stesso Armentano, stretto rapporti amichevoli con quello che diventerà più tardi il più famoso esoterista del Novecento: René Guénon. Lo stesso Gran maestro del Rito filosofico, Eduardo Frosini, si arruola volontario, ma finirà poi prigioniero degli austriaci. Reghini si vede invece più volte respinta la domanda di arruolamento, e solo nel febbraio del 1917 viene finalmente ammesso all’Accademia militare di Torino, finendo poi al fronte come sottotenente del Genio. Ma Reghini ha attivamente operato fin dal 1914 per l’intervento. Già nel settembre di quell’anno, nell’articolo “Sempre Avanti” de Lacerba di Papini, aveva invitato monarchia e governo a rompere la neutralità e ad entrare in guerra contro l’Austria per guadagnare le «terre irredente» e stabilire l’egemonia italiana sull’intero Adriatico. Sempre nel 1914, allorché Giovanni Amendola, massone ma anche vicino alla teosofia, è assunto al Corriere della Sera, che la direzione di Luigi Albertini indirizza su posizioni interventiste, Reghini invita il politico napoletano a recarsi da Armentano a Scalea per concordare linee comuni d’azione. Nel 1915 lo troviamo in prima fila nel «radioso maggismo»: è lui che – come racconterà il suo confratello ed amico Giulio Parise – «al termine di una dimostrazione sul Campidoglio, alzata una bandiera, condusse la folla al Quirinale a chiedere e ad ottenere la dichiarazione di guerra».
«Sono io a far paura alla morte»
Al fronte non mancano esperienze legate al vissuto spirituale della scuola armentaniana. ARA stesso, in una sua lettera dal Cadore, scrive: «Io non posso morire, non debbo morire. Molte cose iniziate mi aspettano per essere finite. […] La morte mi è passata tante volte vicina senza toccarmi, adesso credo essere io a farle paura. […] La vittoria è certa perché i nostri soldati la vogliono, perché noi la vogliamo con tutto il nostro sangue». Reghini, quando ancora è a Firenze, nel luglio 1915, scrive al suo maestro dicendogli di essere riuscito a vederlo al fronte grazie ad un esperimento di magnetizzazione su un confratello, fenomeno i cui particolari ARA confermerà. Più avanti, anche lui al fronte, Reghini gli racconterà di «qualche cosa a cui preme che io resti in questa vita», e del suo talismano, che «quando lo porto non mi succede niente». Il pitagorico fiorentino, verso la fine del 1917, mentre è addetto alla fonotelemetrica in Val Lagarina, sperimenterà pure alcuni suoi “poteri” a fini militari. Armentano, tuttavia, già nella primavera del 1916 ha dovuto lasciare il fronte per una cardiopatia. Il peggio però per lui viene nel marzo 1918, quando è arrestato e rinchiuso nel carcere militare di Vibo Valentia con l’imputazione di tradimento. È un’accusa totalmente falsa, che arriva dall’ex sodale del Rfi Guido Bolaffi, il quale si vendica così dell’espulsione per indegnità dal Rito, accusando ARA di avere, dalla Torre Talao, fornito aiuto ai sottomarini tedeschi nel Tirreno. Solo nel luglio 1918 il maestro calabrese verrà pienamente scagionato dalle accuse, ma rimanendone fortemente amareggiato.
Il 1917 è l’anno di Caporetto. Reghini scrive ad Armentano il 10 novembre: «Il 1917 è stato come tu predicesti un anno terribile. Speriamo nel poi». Alla terribile disfatta di Caporetto si legano peraltro altri eventi che ci riportano al dominio esoterico o magico. A Roma, sul Palatino, cuore sacrale della civiltà romana, proprio nel 1917 l’archeologo Giacomo Boni ha costruito un’ara graminea con sei strati di zolle erbose, quattro festoni di lauro, le sagmine di olivo e le corone e i nastri rosso sangue di toro. Nelle sue intenzioni, come spiegherà l’allieva e biografa Eva Tea, è «il simbolo dell’ara ideale, dove ciascun italiano avrebbe dovuto sacrificare il meglio di sé per le fortune del paese». Boni è allora l’archeologo italiano più famoso nel mondo, a lui si devono scoperte come quella del Lapis Niger nel Foro (1899), ma non è un archeologo qualunque. Boni ha una concezione vivente della romanità e sente da sempre la sua vita di studioso accompagnata da «voci arcane» (sono parole sue), e lo stesso Benedetto Croce lo definirà dall’«aspetto tra di mago e di veggente». Interventista, amico di D’Annunzio, si era anche lui prodigato fin dall’inizio del conflitto, avendo molteplici competenze tecniche, per venire incontro alle esigenze delle truppe alpine, foggiando pure per loro indumenti mimetici ed impermeabili atti a sopportare il freddo, con elmetti di pelle lanata d’agnello che ricordano i copricapi dei signiferi delle legioni romane. E pure le nuove legioni romane ebbero la loro tristissima Canne: «La notte del 23 ottobre 1917 – racconta sempre la Tea – un vento gelido abbatté l’ara graminea negli orti farnesiani. In quell’ora medesima, il nemico entrava in Italia per la porta di Caporetto»! Di Caporetto parla anche la “relazione” di Ekatlos: «1917. Vicende varie. E poi il crollo. Caporetto. Un’alba. Sul cielo tersissimo di Roma, sopra il sacro colle capitolino, la visione di un’Aquila; e poi, portati dal suo volo trionfale, due figure corruscanti di guerrieri: i Dioscuri. Un senso di grandezza, di resurrezione, di luce. In pieno sgomento per le luttuose notizie della grande guerra, questa apparizione ci parlò la parola attesa: un trionfale annuncio era già segnato negli italici fasti».
Già il 24 maggio del 1918, per l’anniversario della nostra entrata in guerra, Armentano invia a Reghini un biglietto con su scritta una sola parola «VITTORIA!». Il 21 aprile di quello stesso anno, mentre le nostre truppe contengono sul Piave il nemico, Boni ha colto alle pendici del Palatino un segno tanto più fausto in quanto giunto il giorno stesso del Natale di Roma: demolendo la torre medievale dei Frangipane – famiglia che si vantava capostipite della casa regnante d’Austria, gli Asburgo – Boni rinviene il frammento marmoreo di una Nike. Che la Vittoria gli appaia dinanzi dai resti distrutti di una torre riferibile a quella dinastia il cui ultimo imperatore, Carlo d’Asburgo, ha chiamato gli italiani «nemico ancestrale», riconnettendosi così idealmente ai barbari nemici di Roma, è per Boni un omen certo: «Athena-Nike. Simbolo augusto dell’intelligenza vittoriosa sulla forza bruta». La lieta scoperta lo induce a ricostruire l’ara sul Palatino. Nel luglio 1918, dopo l’epica “Battaglia del Solstizio”, Reghini può già scrivere al suo maestro: «Godo nel pensare alla tua gioia per la vittoria grande, da te predetta, voluta e possiamo ben anche dire preparata; perché questa morale, questa coscienza è opera nostra, è frutto del nostro lavoro e della nostra predicazione incessante da dieci anni in qua» (tutte le citazioni dall’epistolario Reghini-Armentano ci vengono dai libri Il figlio del Sole, di R. Sestito, e A. R. Armentano: Massime di Scienza Iniziatica, a cura dello stesso Sestito, Ignis 2003 e 1992).
Quella vittoria venne pochi mesi dopo, e divenne poi anche il nome di tante bambine italiane, ignare di portare un nome che era pure quello di una dea di un culto remoto, una dea che svetta ancora in cima a molti nostri monumenti ai caduti, ma che non ha più neanche il diritto di dare il suo nome a una festa. E questo forse gli esoteristi profeti e operatori della vittoria non lo avevano previsto. Ma questa è un’altra storia, che dipende da un’altra guerra e da una amara sconfitta, e forse anche dalla scomparsa dei nostri “magi”.

venerdì 8 dicembre 2017

Il Risveglio della Forza e la rinascita di una catena iniziatica

di Vito Foschi

Il Risveglio della Forza è il settimo capitolo della saga di Guerra Stellari, che come ben esplicitato già nel titolo, racconta di come torna a rivivere l’ordine dei cavalieri Jedi dopo un periodo di eclissi. La saga, come abbastanza noto, più che essere un’opera di fantascienza è tributaria dello studio  “L’eroe dai mille volti” di Joseph Campbell sul mito dell’eroe, da cui George Lucas ha attinto per la sceneggiatura. Lo stesso studioso ha poi collaborato alla sceneggiatura. Da ciò le molte similitudini, per esempio, con i miti arturiani, dall’ordine dei cavalieri, alle spade, alla tavola rotonda dove si riunisce il consiglio dei Jedi. Se si pensa quanto risulta anacronistica la spada, per quanto laser, in un futuro con delle armi capaci di annichilire un intero pianeta: eppure è l’arma principale dei cavalieri Jedi e delle loro nemesi. Spada che come per i cavalieri medievali passa di padre in figlio. Lo stesso Han Solo, contrabbandiere e giocatore d’azzardo ricorda un po’ i cavalieri erranti in cerca di avventure. Per quanto sia un delinquente, stranamente si trova a combattere sempre dalla parte giusta; ha un fido scudiero, Chewbecca, e un’adeguata cavalcatura, il Millenium Falcon.
Il Risveglio della Forza è interessante sotto un particolare punto di vista. L’ordine dello Jedi è sciolto e Luke Skywalker, l’ultimo maestro, è scomparso: in altri termini una società iniziatica non esiste più interrompendo una catena iniziatica. Potrebbe sembrare l’attuale situazione occidentale, in cui non è ben chiaro cosa sia arrivato intatto tramite una trasmissione regolare nelle moderne società iniziatiche.
Nel film, quello ben vivo è il lato oscuro della Forza con il suo Primo Ordine fatto di maestri ed allievi. Anche qui sembrerebbe una situazione in cui la catena iniziatica, per quanto volta al male, si sia interrotta con la morte dell’Imperatore nel sesto film della saga. Interessante che Kylo Ren, fra i protagonisti principale del film e adepto del lato oscuro, conserva come una reliquia il teschio con il relativo casco di Dart Fener, suo nonno materno e anch’egli seguace del male per quanto alla fine della sua vita si redime. Non solo, Kylo Ren, per quanto non ne abbia bisogno indossa un casco che richiama quello di Dart Fener. Questi particolari tendono a creare un legame con il predecessore e servono in qualche modo a mantenere un legame con il passato e a preservare la catena iniziatica. L’indossare il casco è solo un aspetto superficiale, visivo, ma contribuisce a rendere visibile il legame. Il teschio custodito privatamente da Kylo Ren è un legame più forte, fisico e metafisico con il passato.
In questa situazione di sconforto c’è ancora chi crede nella possibilità di ripristinare l’ordine dello Jedi ritrovando l’ultimo maestro scomparso. Leila Organa, generale della Resistenza, ne è convinta. Leila è sorella di Luke e anche se in forma limitata partecipe del potere della Forza. La sua non è solo una convinzione: sa per certo che il fratello è vivo. Infatti, grazie ai suoi poteri, quando muore Han Solo lo percepisce immediatamente. Parte interessante della storia sono le modalità di rinascita dell’ordine dei cavalieri Jedi. Da una parte c’è sicuramente la ricerca attiva ma infruttuosa del maestro scomparso, dall’altra parte c’è la rinascita “spontanea” dell’ordine.
Su un pianeta desertico una ragazza orfana, Rey, sopravvive recuperando rottami. Di notte spesso sogna un’isola in mezzo all’oceano. Dopo una serie di eventi fortuiti, tipici dei film d’avventura, capita nella taverna di Maz Kanata, curiosa aliena di almeno mille anni. È qui, in un luogo mondano, avviene il risveglio della Forza e di conseguenza dell’Ordine Jedi. “Casualmente” il nome Rey ricorda molto la parola inglese ray, raggio in italiano. La ragazza stabilisce subito un buon rapporto con Han Solo dimostrando insospettabili capacità tecniche di pilota non indifferenti. Nella taverna la ragazza sente un irresistibile richiamo che la spinge nei sotterranei dell’edificio. Qui trova un baule al cui interno trova una spada laser. La tocca e riceve la visione degli eventi che hanno coinvolti i precedenti proprietari dell’arma. La donna è predestinata perché possiede la Forza allo stato latente, ma ha bisogno dell’oggetto fisico della spada per risvegliarsi e risvegliare l’ordine iniziatico scomparso. Questo è l’evento interessante del film, perché ci consegna una possibile modalità di risveglio di una catena iniziatica interrotta. Anche senza una continuità da maestro ad allievo, è possibile che individui particolarmente qualificati possano risvegliare ciò che dorme e riallacciare la catena iniziatica. Oltre alle qualificazioni è necessario un qualche forma di lascito; nel caso del film la spada laser appartenuta a Luke Skywalker e prima ancora al padre Anakin. Il contatto con i precedenti maestri crea una particolare aurea che Rey, particolarmente qualificata riesce a percepire. Dopo l’iniziale rifiuto, la ragazza diventa sempre più consapevole dei suoi poteri, che impara ad usare per sfuggire dalla prigionia in cui l’ha costretta Kyle Ren. L’adepto del male viene addirittura sconfitto in uno scontro mentale dalla giovane inesperta.
Alla fine del film viene scoperta l’ubicazione di Luke che è proprio un’isola deserta in mezzo all’oceano, l’isola del sogno ricorrente di Rey. In questo modo la catena iniziatica è in realtà mai interrotta, perché la giovane donna può ricevere gli insegnamenti direttamente dal maestro. Il vecchio Luke è una sorta di maestro superiore sconosciuto che come nei vari miti compare per donare i suoi insegnamenti.
L’interesse maggiore, credo, sia nella possibilità che un individuo particolarmente qualificato tramite una qualche forma di lascito, un oggetto, un libro, dei rituali, possa riattivare una catena iniziatica interrotta. Rey riesce ad usare i suoi poteri e a sconfiggere Kyle Ren ben prima di incontrare il suo maestro. Potrebbe essere che Luke dal suo rifugio sull’isola abbia praticato una sorta di richiamo verso la donna, ma in ogni caso resta l’evidenza che il richiamo si materializza tramite l’oggetto spada ed è sentito solo da uno specifico individuo.

Non conosco direttamente la situazione degli ordini iniziatici occidentali, però un film profano come il Risveglio della Forza regala la speranza che anche in una situazione disastrosa è possibile riattivare un ordine iniziatico.

sabato 2 dicembre 2017

Ufo, il punto di vista di Carl Jung

tratto da Il Fatto Quotidiano del 17 agosto 2015

di Vladimiro Bibolotti

Carl Gustav Jung, il celebre psicanalista svizzero allievo di Sigmund Freud, viene spesso citato a proposito del fenomeno degli UFO. Luminare della psichiatria, grande scienziato, i suoi studi sugli oggetti volanti non identificati vengono usati ancora oggi, per contestare tale realtà, citando il “Mito moderno” senza conoscere a fondo né la sua personale attività di ricerca in merito al problema dei “dischi volanti”, né padroneggiare il suo pensiero su tale argomento.

Molti conoscono l’interpretazione mitologica del fenomeno di quelli che allora venivano chiamati folkloristicamente “flying saucers”. Jung, all’inizio, era infatti interessato più che alla natura fisica reale o meno di questi oggetti, al mito che ne avrebbe fatto nascere, pubblicando non a caso il libro titolato “Un mito moderno. Le cose che si vedono in cielo”.

Carl Gustav Jung, più che speculare sulla presunta origine extraterrestre degli UFO, si domandava quale potesse essere il significato di questi fenomeni, reali o immaginari che siano,  in un momento come quello in cui l’umanità si sentiva minacciata come non mai nella sua storia e aveva bisogno perciò di un mito moderno. Erano infatti gli anni dello sviluppo delle armi atomiche, quando la propaganda maccartista americana e la corsa agli armamenti tra USA e URSS stavano creando un clima esplosivo nell’ambito delle relazioni internazionali. Non a caso scienziati come Einstein ed Oppenheimer, paladini dei movimenti della pace, denunciavano il pericolo di un conflitto nucleare che avrebbe portato all’annientamento dell’umanità. Da citare una curiosa lettera scritta dai due fisici al presidente Truman nel giugno del 1947, poco prima del primo avvistamento ufficiale di un “disco volante” fatto da Kennet Arnold, dove in questo documento scritto a monito del pericolo creato dagli esperimenti atomici, si citava la presenza di “unidentified space craft flying in our atmosphere”, termine mai usato prima e che poi sarebbe divenuto con le opportune semplificazioni quello ufficiale creato dal Capt. dell’USAF, Edward J. Ruppelt nel 1951: U.F.O. Unidentified Flying Object.

Einstein, in proposito, sosteneva:  “I Dischi Volanti? La gente ha indiscutibilmente visto qualche cosa”.

Già nel 1955 Jung scriveva sulla rivista britannica Flying Saucer Review, che la mole di lavoro da lui svolta tramite analisi di testimonianze, lo portava alla convinzione che non “era solo rumore di fondo”. E più arditamente quasi con rammarico: “Dopotutto uno deve quasi rimpiangere che gli ufo sembrano essere reali”.

Ma proprio il 1958 è l’anno della collaborazione con la APRO Aerial Phenomena Research Organization organizzazione ufologica statunitense, una delle prime a livello mondiale a studiare scientificamente il fenomeno UFO e dove infatti risultava inserito come loro consulente  nel loro bollettino ufficiale. Jung ha pubblicato un rapporto di cui diede notizia l’Associated Press e stampato il 30 luglio 1958 sul New York Herald Tribune dove si legge:

“Il dottor Carl Jung, psicologo svizzero, afferma in un rapporto pubblicato ieri che gli oggetti volanti non identificati sono reali e mostrano segnali di guida intelligenti, probabilmente ad opera di piloti quasi-umani. Secondo lo studioso, il fenomeno è molto più che una semplice suggestione. Una spiegazione puramente psicologica è esclusa. Il dottor Jung, che ha cominciato il suo studio sugli UFO nel 1944, ha diffuso la sua dichiarazione attraverso l’UFO-Filter Centre dell’Aerial Phenomena Research Association (A.P.R.O.)“.

Sempre il 1958 è quello delle famose interviste del 30 luglio 1958 sul Washington Post “Flying Objects Real, Psychiatrist Insist” e sul New York H.T., dove senza mezzi termini affermava: “Dr. Jung says ‘Saucers’ Exist; Bars Psychological Explanations”.

Tale intervista venne poi ripresa sulla rivista italiana l’EUROPEO del 30 agosto dello stesso anno dal titolo “Io continuo a credere nei dischi volanti”, suscitando chiaramente molte polemiche nel mondo scientifico. Tale clamore lo suscita ancora adesso, se pensiamo che il suo pensiero viene in parte distorto quando non viene realmente esplicitato in completezza, citando solo la fase di approccio iniziale al fenomeno, quella del mito e non quella più importante dell’accettazione della realtà del fenomeno inteso come reale. Suscita ancora più stupore se tali affermazioni vengono ancora oggi fatte da prestigiosi accademici come recentemente è accaduto sulle pagine web di una nota associazione culturale a proposito di un articolo sulla “Vita nello Spazio”. Eppure l’ “Ignorantia legis non excusat” e lo studio delle fonti dovrebbero valere per  tutti gli argomenti.