martedì 23 dicembre 2014

Sul Destino, Giamblico

tratto da: http://letteraespirito.wordpress.com/giamblico-sul-destino/

Giamblico (Calcide 245-325 ca.). Si adoperò per rivivificare le dottrine pitagoriche e platoniche. Allievo di Porfirio alla scuola neoplatonica d’Alessandria, fondò poi la “scuola siriaca”. Oltre a molti frammenti (noti attraverso l’Eklogon di Stobeo), restano di lui cinque libri della stessa opera principale Συναγωγὴ τῶν Πυϑαγορείων δογμάτον (De vita Pythagorica, Protrepticus o Adhortatio ad philosophiam, De communi mathematicæ scientia, In Nicomachi arithmeticam introductio, Theologumena arithmeticæ) e l’opera De mysteriis.

Dall’epistola di Giamblico a Macedonio
Stobeo I 5. 17
Tutti gli esseri sono esseri in forza dell’uno, e infatti anche ciò che è in modo primario da principio si produce a partire dall’Uno, ma in modo del tutto particolare le cause totali in forza dell’Uno ricevono il potere di produrre e secondo un unico intreccio sono tenute unite e allo stesso tempo sono ricondotte insieme al principio dei molti, in quanto presussistono.
In base a questo ragionamento, dunque, a un’unica causa totale è sospesa anche la molteplicità delle cause naturali, che sono costituite di molteplici specie, divise in un gran numero di parti e dipendono da più principi; d’altra parte tutte le cause si intrecciano l’una con l’altra secondo un unico legame e la connessione delle molte cause rimonta a un’unica forza causale, la più comprensiva.
Dunque questa unica concatenazione non è formata alla rinfusa a partire dal molteplice, né realizza l’unità acquisendo consistenza a partire dall’intreccio, né si trova dispersa negli esseri individuali; piuttosto è secondo un unico intreccio causale, superiore e antecedente agli esseri individuali, che questa unica concatenazione porta a compimento tutte le cose e le lega insieme in sé e le riconduce a sé secondo l’unicità formale.
Si deve dunque definire il destino un ordine unico che comprende in sé allo stesso tempo tutti gli ordini.

Dall’epistola di Giamblico a Macedonio sul destino
Stobeo II 8. 43
È sostanza immateriale quella dell’anima che esiste in sé, incorporea, del tutto ingenerata e indistruttibile – dal momento che possiede a partire da se stessa l’essere e il vivere –, si muove di moto del tutto proprio ed è principio della natura e di tutti i movimenti. Dunque in quanto essa è tale, contiene in sé la vita che detiene il potere di determinarsi e quella indipendente. [E] per quanto si dà alle cose soggette al divenire e si subordina al moto dell’universo, in tale misura è sia spinta sotto il dominio del destino sia sottomessa alle necessità della natura; invece, per quanto esercita la sua attività intellettiva, che è realmente libera da tutte le cose ed è di propria elezione, in tale misura compie volontariamente le sue funzioni proprie e raggiunge davvero il contatto col divino e buono e intelligibile.
Stobeo II 8. 44
Bisogna, allora, darsi cura di vivere quel tipo di esistenza che è secondo intelletto ed è degli dei; solo questa infatti ci dà un’anima che non ha padrone, ci scioglie dai legami necessari e ci fa vivere non una forma di esistenza umana, bensì divina, cioè colma di beni divini, per volontà degli dei.
Stobeo II 8. 45
E infatti, riassumendo, i movimenti cosmici del destino si svolgono in maniera simile alle attività e alle rivoluzioni immateriali e intellettive; l’ordine del destino rispecchia il buon ordine intelligibile e non contaminato; le cause seconde sono connesse alle cause superiori e il molteplice nella generazione è in relazione all’essenza indivisibile e allo stesso modo tutte le cose del destino sono unite alla superiore provvidenza. In conclusione, per la sua stessa essenza il destino è intrecciato alla provvidenza e, per il fatto che la provvidenza esiste, esiste il destino e sussiste a partire da essa e in relazione a essa.
Stobeo II 8. 45a
Dato questo stato di cose, anche il principio umano dell’agire ha consonanza con entrambi questi principi dell’universo [i.e. destino e provvidenza]; d’altra parte, implica in
noi anche un principio delle azioni staccato dalla natura e sciolto dal movimento dell’universo: per questo tale principio non è contenuto nel principio dell’universo. Infatti, poiché [non] deriva dalla natura né dal movimento dell’universo, essendo più eminente e non essendo dato dall’universo, è posto prima nell’ordine; ma poiché si è distribuito alcune parti a partire da tutte le regioni del cosmo e da tutti gli elementi e si serve di tutte queste parti,
è compreso esso stesso anche nell’ordine del destino, contribuisce a tale ordine, ne porta a compimento la costituzione e se
ne serve opportunamente.
E per quanto l’anima contiene in sé una ragione pura, autosussistente e che si muove di moto del tutto proprio e svolge la sua attività a partire da sé ed è perfetta, in tale misura essa è sciolta da tutte le cose esterne; ma per quanto proietta anche altre vite che inclinano verso la generazione ed è in comunione col corpo, in tale misura è intrecciata anche con l’ordine del cosmo.
Stobeo II 8. 46
Se poi qualcuno, introducendo la spontaneità e la sorte, crede di eliminare l’ordine, sappia che nell’universo non c’è niente che sia privo di ordine, episodico, senza causa, indeterminato, fortuito, che consegua dal nulla e sia per accidente. Né dunque possono essere eliminati l’ordine, la continuità delle cause, l’unione dei principi e il predominio delle realtà prime che si estende attraverso il tutto.
Allora è preferibile dare la seguente definizione: la sorte è causa degli ordini molteplici o anche di ordini di altro genere, causa che sorveglia e unifica, più eminente della combinazione degli eventi; ora la chiamiamo dio, [ora] la consideriamo [invece demone].
Infatti, quando cause delle combinazioni degli eventi sono gli esseri superiori, è un dio a sorvegliarle, ma qualora lo siano le cose naturali, un demone. Sempre, dunque, tutte le cose sono portate a compimento grazie a una causa e tra le cose che divengono non ce n’è proprio nessuna che sopraggiunge fuori dall’ordine.
Stobeo II 8. 47(-48)
Allora perché le distribuzioni vengono assegnate contro il merito? O questo è del tutto empio anche solo chiederlo? I beni infatti non risiedono in qualcos’altro, ma nell’uomo stesso e nella scelta dell’uomo, e anzi essi sono definiti in senso più proprio solo nella libertà di scelta, invece i dubbi sono avanzati dai più per ignoranza. Dunque il frutto della virtù non è altro che la virtù stessa.
Né chi è virtuoso è sminuito dalla sorte, giacché la nobiltà d’animo lo rende superiore rispetto a ogni cattiva sorte. Né ciò accade contro natura: la vetta dell’anima e la sua perfezione, infatti, bastano a portare a compimento la natura migliore dell’uomo. E certamente le cose che sembrano essere contrarie esercitano, mantengono salda e accrescono la virtù e senza di esse non è possibile raggiungere l’eccellenza nella virtù. E quindi questa disposizione dell’uomo virtuoso preferisce specialmente ciò che è bello e ripone la sola perfezione della ragione in una vita beata, mentre le altre cose non le tiene in alcun conto e le disprezza.
Poiché quindi nell’anima consiste l’uomo, e poiché l’anima è intellettiva e immortale, e il bello e il bene e il fine di essa sussistono nella vita divina, nessuna delle cose mortali ha il potere di dare un qualche contributo alla vita perfetta,
né di diminuirne la felicità. In generale, infatti, la nostra beatitudine sussiste nella vita intellettiva, e nessuna delle cose intermedie la fa accrescere né è possibile ridurla. Allora invano gli uomini vanno parlando dei casi e dei favori iniqui della sorte.

Protreptico o Esortazione alla Filosofia
3. Sentenze protrettiche pitagoriche in versi, capaci di invitarci a ogni filosofia che sia la migliore e la più divina
C’è anche un altro tipo di esortazione che si serve anch’esso di sentenze, ma che non pone più a mo’ di parabola le immagini alle sentenze, giacché è già in versi e in musica, ed è genuinamente pitagorico, e noi lo possediamo per averlo appreso tra l’altro nei Versi aurei, di cui è giusto presentare qui poche indicazioni, e cioè le seguenti:
Fatica su queste cose, praticale, occorre che tu le ami:
esse ti porranno sulle tracce della divina virtù.
Attraverso queste parole Pitagora esorta a tutto ciò che di bello c’è nelle scienze e nelle occupazioni matematiche, ritenendo che non ci si debba risparmiare le fatiche, né trascurare alcuna pratica di studio, stimolando all’amore e all’impegno per le cose belle, e riducendo tutto questo alla pratica della virtù, e non semplicemente di una qualsiasi virtù, ma di quella che ci allontana dalla natura umana, e ci conduce alla divina essenza e alla conoscenza e all’acquisizione della divina virtù. Ma in effetti Pitagora ci invita alla sapienza contemplativa con le seguenti parole:
Quando tu avrai dominato queste cose,
conoscerai la costituzione degli dei immortali e degli uomini mortali,
dove cioè ciascuna [di tali realtà] si sviluppa [liberamente] e dove viene trattenuta;
e tu conoscerai, per quanto ti è consentito, che la natura è sempre la medesima,
sicché né tu puoi sperare ciò che è insperabile, né alcunché ti rimane nascosto.
Ebbene, non esistono cose più straordinarie di queste per coloro che sono capaci per natura di slanciarsi nobilmente verso la filosofia contemplativa, perché la conoscenza degli dei è perfetta virtù e sapienza e felicità, e ci rende simili agli dei, e d’altra parte la scienza delle cose umane fornisce le virtù umane e ci rende esperti delle nostre faccende, e serve a farci distinguere ciò che esse producono di utile o di nocivo, e ci preservano da alcune cose e ce ne procurano delle altre, e insomma ci fa apprendere a parole e a fatti la costituzione che è propria della vita umana. Ma la cosa più straordinaria che viene insegnata da un sapere siffatto è il conoscere come si sviluppi liberamente e senza intoppi ogni aspetto della nostra vita, quali siano le sue parti migliori, e come siano trattenute e impedite al punto che non si possa facilmente uscirne svincolandosi dai legami.
La sentenza successiva a questa è la raccomandazione all’indagine sulla natura e a ogni forma di contemplazione del cielo. La natura di quest’ultimo, infatti, è sempre la medesima, perché ruota allo stesso modo secondo la stessa rivoluzione, e se qualcuno la vuole apprendere, né potrà attendersi cose inaspettate, né potrà ignorare che cosa stia per accadergli necessariamente.
Le sentenze successive a queste sono raccomandazioni prodotte dalla vita che noi stessi scegliamo, ad esempio:
Tu conoscerai che gli uomini, quando sono sventurati,
subiscono le sventure che si sono scelte.
Se infatti gli uomini sono causa delle loro azioni, possiedono anche il potere, che deriva proprio da loro stessi, di scegliere i beni e di fuggire i mali, perché colui che non si serve di questo potere è indegno dei vantaggi che la natura gli dà. Nient’altro dunque dice [questa sentenza] se non questo, cioè che noi scegliamo il nostro demone, e che siamo per noi stessi nel ruolo della fortuna e del demone, e che ci procuriamo da noi stessi la nostra felicità: cosa che esorta alla sola bellezza e mostra che il valore di questa è l’essere scelta per se stessa.
Più o meno vicine a questa sono le sentenze del tenore seguente:
Coloro che, da un lato, quando sono vicini ai beni né li guardano né li ascoltano,
raramente, dall’altro lato, comprendono come liberarsi dai mali.
Che i beni ci siano vicini, infatti, e siano connaturali all’anima di tutti noi e ci appartengano come le cose più proprie, tutto ciò è straordinariamente protrettico. E il non guardare e il non ascoltare, da un lato, e l’essere ottenebrati dalla sensibilità, dall’altro lato, sono uno splendido invito alla vita intellettiva, come se fosse il solo intelletto a guardare e ascoltare ogni cosa. E la liberazione dai mali, che pochi osservano, esorta a liberarci dal corpo e a vivere la vita dell’anima in se stessa, che noi chiamiamo “meditazione sulla morte”.
C’è, in successione, anche un altro metodo protrettico che è quello che deriva dalla ripugnanza verso i malvagi. Non è tollerabile, infatti, che simili a oggetti cilindrici
i malvagi, pur subendo infinite sventure, si muovano di qua e di là.
La malvagità infatti produce la violenza e l’irrazionalità e il muoversi a caso, e ora qua ora là, e soprattutto l’illimitatezza, cose che bisogna assolutamente fuggire.
La sentenza successiva è la seguente:
Malefica compagna, infatti, colpisce di nascosto l’innata contesa,
che non bisogna alimentare, ma fuggire cedendole il passo.
E qui la sentenza indica la doppia natura dell’uomo, nonché l’animale straniero che la natura ci ha messo accanto fin dalla nascita, e che alcuni chiamano mostro policefalo, altri una specie mortale di vita, altri ancora natura generatrice; ma qui Pitagora ha denominata “innata” la contesa, non in quanto ha un posto uguale a quello che hanno gli aspetti relativi alla nostra vita più propria, ma in quanto è compagna che segue la nostra vita più nobile. È quella appunto che Pitagora prescrive di fuggire, e cioè quella che noi dobbiamo sostituire con la nostra attività intellettiva che è uniforme e priva di contrasti, attività intellettiva che, invece che colpire, è affine al bene e, invece che inclinare verso la rovina, è punto di partenza per la salvezza, e lascia fuori come straniera la realtà avventizia e quella secondaria che ne consegue, e assume la vita primordiale e perfetta che ha da sé e in sé ogni cosa. Per tutto ciò, dunque, è opportuno ridurre al minimo la prima e alimentare al massimo quest’ultima; e cosi tale esortazione alla vita secondo intelletto diviene la più efficace.
In effetti alla divina perfezione e alla migliore collocazione nel seguire gli dei ci invitano le sentenze del tipo seguente:
Padre Zeus, tu ci renderai tutti liberi da molti mali
se indicherai a noi tutti di quale demone dobbiamo servirci.
Ma tu abbi coraggio, perché divino è il genere dei mortali.
In queste parole c’è in primo luogo una raccomandazione alla felicità divina, che è la migliore, perché è mescolata alle preghiere e alle invocazioni degli dei e soprattutto di Zeus che è il loro re, ma in secondo luogo una chiara indicazione del demone che ci è concesso o dato in sorte dagli dei, e dell’ascesa per mezzo di lui di nuovo verso gli dei. Non si potrebbe, infatti, per nient’altro risalire verso l’aspetto più divino e più importante della propria essenza, se non per mezzo di tale demone, di cui ci si serve come guida, e che ha il compito di rendere autenticamente puro ogni amante degli dei. Da ciò appunto verrà una prima cessazione dei mali che ci sono connaturali fin dalla nascita, poi ci sarà dato di conoscere veramente la vita divina e beata, e quanto grande e di che natura essa sia: innalzandoci assieme a essa, noi osserveremo la primigenia e divina natura degli uomini, e stabilendoci in essa possiederemo il fine della vita più beata che è stata proposta dagli dei agli uomini.
Alla fine, dunque, Pitagora esorta l’anima a trasferirsi [lassù] e a vivere la sua propria e autonoma vita, secondo la quale essa si allontana dal corpo e dalle disposizioni naturali da esso dipendenti. Ecco che cosa dice:
Assumi come auriga l’ottima intelligenza che è quella che viene dall’alto [dagli dei],
e se dopo avere abbandonato il corpo giungerai al libero etere,
sarai immortale come un dio, non più un uomo mortale.
Orbene, il fatto che il migliore intelletto si colloca come guida al posto più elevato, questo mantiene intatta la somiglianza dell’anima agli dei, somiglianza a cui è rivolta anche la prima esortazione; mentre il fatto di abbandonare il corpo e l’emigrare verso l’etere, e il trasferire la natura umana alla purezza degli dei e lo scegliere una vita immortale al posto di una mortale, tutto questo consente di restituirla all’essenza degli dei e alla rivoluzione in loro compagnia, situazione che noi avevamo prima di giungere alla forma umana. È chiaro dunque che il metodo di tali raccomandazioni ci esorta a tutti i generi dei beni e a ogni forma di vita migliore.

I Misteri egiziani **
Libro VIII, 6-8
6. [Astrologia e destino, secondo gli Egiziani. La teoria delle due anime negli scritti ermetici.]
Tu, dunque, dici che la maggior parte degli Egiziani fa dipendere la nostra libera volontà dal movimento degli astri. Come la cosa stia, occorre spiegartelo con più dettagli, partendo dalle concezioni ermetiche. L’uomo, come dicono questi scritti, ha due anime: l’una deriva dal primo intelligibile e partecipa anche della potenza del demiurgo, l’altra è ingenerata in noi dal movimento dei corpi celesti, in cui entra l’anima che contempla Dio. Stando così le cose, l’anima che dai mondi scende in noi accompagna i movimenti di questi mondi, mentre l’anima derivata dall’intelligibile, intelligibilmente presente in noi, è al di sopra del ciclo del divenire e per essa noi ci liberiamo dal destino, e saliamo agli dei intelligibili: la teurgia che si eleva al non-generato si realizza secondo tale vita.
7. [Non tutto è stretto nei vincoli del destino.]
Perciò, non tutto, come s’intravede nei tuoi dubbi, è legato nei vincoli indissolubili della necessità, che noi chiamiamo destino: poiché l’anima possiede in se stessa il principio che la fa volgere all’intelligibile, l’allontana dagli esseri del divenire, l’unisce con l’essere e con il divino. Né d’altra parte attribuiamo il destino agli dei, che veneriamo con templi e con statue come liberatori dal destino. Ma se gli dei liberano dal destino, le nature che ultime derivano da essi, scendendo nel divenire del cosmo e nel corpo e congiungendosi con essi, mettono in atto il destino. A ragione, dunque, noi offriamo agli dei tutto il sacro culto, affinché essi, che soli dominano la necessità con la persuasione intellettuale, allontanino i mali che vengono dal destino.
Ma non tutto è stretto nei legami del destino: c’è un altro principio dell’anima, superiore a ogni natura e a ogni conoscenza, per cui possiamo unirci agli dei, sovrastare sull’ordine cosmico, partecipare alla vita eterna e alle attività degli dei sopracelesti. Secondo questo principio, siamo in grado di liberare noi stessi. Infatti, quando agisce la parte migliore di noi e l’anima si eleva agli esseri superiori a essa, allora l’anima si separa tutta da ciò che la trattiene nel divenire, si allontana dal meno perfetto, prende una vita diversa in cambio della sua, si dà a un altro ordine, abbandonando completamente il precedente.
8. [Quali dei liberano dal destino.]
E che, dunque? È mai possibile liberarsi tramite gli dei che s’aggirano nel cielo e credere al tempo stesso che essi reggano il destino e incarcerino le nostre vite con vincoli indissolubili? Forse niente impedisce anche questo, se è vero che, contenendo gli dei in sé molte essenze e potenze, ci sono in essi innumerevoli differenze e opposizioni. Si può tuttavia dire che in ciascuno degli dei, anche in quelli visibili, ci sono alcuni principi intelligibili di essenza, per mezzo dei quali viene alle anime la liberazione dal divenire cosmico. Se perciò si lasciassero soltanto due generi di dei, pericosmici e ipercosmici, la liberazione verrà alle anime per mezzo degli ipercosmici. Questi problemi sono discussi con maggiore accuratezza negli scritti sugli dei: quali dei elevano all’intelligibile e secondo quali loro potenze, in qual modo liberano dal destino e mediante quali ieratiche ascensioni, qual è l’ordine della natura cosmico-siderea e in qual modo l’attività intellettuale più perfetta domina su questa; sicché non è pio dire neppure ciò che tu hai citato da Omero che cioè gli dei sono pieghevoli. Perché le operazioni del culto sacro sono state da tempo antico fissate con leggi immacolate ed intellettuali, ciò che è inferiore è affrancato da un ordine e da una potenza superiore, e dall’inferiore noi ci distacchiamo, appena passiamo ad una sorte migliore. E niente in tutto ciò si compie in contrasto con la legge stabilita ab origine, sicché gli dei siano suscettibili di cambiamenti secondo una norma cultuale istituita successivamente, ma fin dalla loro prima discesa Dio mandò giù le anime perché ritornassero di nuovo a lui. Perciò, non avviene a causa di siffatta elevazione nessun mutamento, né stanno in contrasto le discese e le ascese delle anime. Infatti, come nel tutto il divenire e questo universo sono strettamente connessi con l’essenza intellettiva, così nell’ordine delle anime con la loro cura per il monde creato s’accorda la liberazione dal divenire.

Dall’epistola di Giamblico a Sopatro
Stobeo I 5. 18
E del destino l’essenza risiede tutta nella natura. Chiamo natura la causa del cosmo che non è separata da esso e abbraccia in modo inseparato le cause totali della generazione per quanto, in modo separato, le essenze e gli ordini superiori comprendano in sé. E dunque la vita corporea e la ragione generatrice, le forme unite alla materia e la materia stessa, la generazione composta da tutto ciò, il movimento che tutto trasforma e la natura che amministra in modo ordinato le cose che si generano, i principi della natura e i suoi fini e le sue operazioni, e anche i legami reciproci di queste cose e i processi dall’inizio alla fine, tutto ciò costituisce il destino.
* Estratti da varie opere: Dall’epistola di Giamblico a Macedonio (Stobeo I 5.17, II 8.43-48; cfr. Giamblico, I frammenti dalle epistole, a cura di Daniela P. Taormina e Rosa Maria Piccione, Bibliopolis, Napoli, 2010), Protreptico o Esortazione alla Filosofia (Capitolo 3; cfr. Giamblico, Summa pitagorica, a cura di Francesco Romano, Bompiani, Milano, 2012), I Misteri egiziani (Libro VIII, 6-8; cfr. Giamblico, I misteri egiziani, a cura di Angelo R. Sodano, Rusconi, Milano, 1984), Dall’epistola di Giamblico a Sopatro (Stobeo I 5.18; cfr. Giamblico, I frammenti dalle epistole, ibid.).
** Trattasi della Risposta del maestro Abammone alla lettera di Porfirio ad Anebo e soluzione delle questioni poste in essa. I singoli capitoli sono preceduti da un breve riassunto del loro contenuto. Nel corpo del testo sono in corsivo le citazioni, letterali o parafrasate, della Lettera ad Anebo di Porfirio.

domenica 14 dicembre 2014

Il Papà Racconta: favole per piccini e non più piccini

Questa volta vi segnaliamo un libro non propriamente misterioso, ma che in ogni caso attinge al mondo fantastico ed in particolare a quello fiabesco con draghi, elfi, nani minatori, fate e le altre classiche creature immaginarie. Fra i racconti non mancano quelli con protagonisti gli animali che nella migliore tradizione, cercano di inseganre qualcosa ia piccoli lettori. Il libro è in formato ebook ed è scritto dal nostro collaboratore Vito Foschi e lo potete scricare dal seguente link:


Non possiamo che consigliare di acquistare questa piccola chicca, che può essere anche un simpatico regalo di Natale.
 
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domenica 9 novembre 2014

Le tre vie e le forme iniziatiche

tratto da Lettera e Spirito n. 33

http://letteraespirito.wordpress.com/rene-guenon-le-tre-vie-e-le-forme-iniziatiche/

di René Guénon

È noto che la tradizione indù distingue tre “vie” (mârga) che sono rispettivamente quelle di Karma, di Bhakti e di Jnâna; non ritorneremo sulla definizione di questi termini, che dobbiamo supporre sufficientemente conosciuta dai nostri lettori; preciseremo però subito che, giacché a essi corrispondono tre forme di Yoga, ciò implica essenzialmente che tutti hanno o sono suscettibili d’avere un significato d’ordine propriamente iniziatico [1]. D’altra parte, bisogna capire bene che qualunque distinzione di questo genere ha sempre necessariamente un certo carattere “schematico” e piuttosto teorico, poiché, di fatto, le “vie” variano indefinitamente per adeguarsi alla diversità delle nature individuali, e, anche in una classificazione molto generale come quella, non può trattarsi che della predominanza d’uno di quegli elementi in rapporto agli altri, senza che questi possano mai essere interamente esclusi. Questo caso è analogo a quello dei tre guna: si classificano gli esseri secondo il guna che in essi predomina, ma è chiaro che la natura d’ogni essere manifestato comporta ugualmente tutti i guna, sebbene in proporzioni diverse, non potendo essere diversamente in tutto ciò che procede da Prakriti. L’accostamento che facciamo tra questi due casi è d’altronde qualcosa di più che un semplice paragone, ed è tanto più giustificato giacché esiste realmente una certa correlazione tra l’uno e l’altro: infatti, lo Jnâna-mârga è evidentemente quello che conviene agli esseri di natura “sattwica”, mentre il Bhakti-mârga e il Karma-mârga convengono a quelli la cui natura è prevalentemente “rajasica”, peraltro con delle sfumature differenti; in un certo senso si potrebbe forse dire che vi è nell’ultimo qualcosa di più vicino a tamas che nell’altro, benché non convenga spingere questa considerazione troppo in là, poiché è evidente che gli esseri di natura “tamasica” non sono affatto qualificati per seguire una qualsivoglia via iniziatica.
Nonostante quest’ultima riserva, non è men vero che esiste un rapporto tra i caratteri rispettivi dei tre mârga e gli elementi costitutivi dell’essere ripartiti secondo il ternario “spirito, anima, corpo” [2]: la Conoscenza pura è, in se stessa, d’ordine essenzialmente sopraindividuale, cioè in definitiva spirituale, come l’intelletto trascendente in cui rientra; il carattere nettamente psichico di Bhakti è evidente, mentre Karma, in tutte le sue modalità, comporta necessariamente una certa attività d’ordine corporeo, e, quali che siano le trasposizioni di cui questi termini sono suscettibili, qualcosa di questa natura originale deve sempre inevitabilmente ritrovarvisi. Ciò conferma pienamente quanto dicevamo della corrispondenza con i guna: la via “jnânica”, in queste condizioni, può evidentemente convenire solo agli esseri in cui predomina la tendenza ascendente di sattwa e che, per ciò stesso, sono predisposti a mirare direttamente alla realizzazione degli stati superiori piuttosto che attardarsi a uno sviluppo dettagliato delle possibilità individuali; le altre due vie, per contro, fanno dapprima appello a degli elementi prettamente individuali, non fosse altro che per trasformarli alla fine in qualcosa che appartiene a un ordine superiore, e ciò è ben conforme alla natura di rajas, che è la tendenza producente l’espansione dell’essere al livello stesso dell’individualità, la quale, non va dimenticato, è costituita dall’insieme degli elementi psichico e corporeo. D’altra parte, risulta immediatamente da ciò che la via “jnânica” si riferisce più in particolare ai “grandi misteri”, e le vie “bhaktica” e “karmica” ai “piccoli misteri”; in altri termini, si vede ancora da quanto precede che solamente mediante Jnâna è possibile pervenire allo scopo finale, mentre Bhakti e Karma hanno piuttosto una funzione “preparatoria”, dato che le vie corrispondenti conducono soltanto fino ad un certo punto, ma rendono possibile il conseguimento della Conoscenza per coloro la cui natura non ne sarebbe idonea direttamente e senza una tale preparazione. Va da sé d’altronde che non può esservi iniziazione effettiva, sia pure ai primi stadi, senza una parte più o meno grande di conoscenza reale, anche quando, nei mezzi ch’essa mette in opera, l’“accento” cade soprattutto sull’uno o l’altro dei due elementi “bhaktico” e “karmico”; ma ciò che vogliamo dire è che in ogni caso, al di là dei limiti dello stato individuale, non può più esservi che una sola e unica via, che è necessariamente quella della Conoscenza pura. Un’altra conseguenza da tener presente è che, a causa della connessione delle due vie “bhaktica” e “karmica” con l’ordine delle possibilità individuali e con il dominio dei “piccoli misteri”, la distinzione tra loro è molto meno netta di quanto non lo sia con la via “jnânica”, e ciò dovrà naturalmente riflettersi in qualche modo nei rapporti tra le corrispondenti forme iniziatiche; dovremo del resto ritornare brevemente su questo punto nel seguito della nostra esposizione.
Queste considerazioni ci portano a considerare anche un’altra relazione, quella che esiste, in linea generale, tra i tre mârga e le tre caste “due volte nate”; è d’altronde facile da capire che debba esistere una tale relazione, poiché la distinzione delle caste non è altro in principio che una classificazione degli esseri umani secondo le loro nature individuali, ed è precisamente per convenire alla diversità di queste nature che esiste una pluralità di vie. I Brâhmani, essendo di natura “sattwica”, sono particolarmente qualificati per lo Jnâna-mârga, ed è detto espressamente che essi devono tendere il più direttamente possibile al possesso degli stati superiori dell’essere; d’altronde, la loro stessa funzione nella società tradizionale è essenzialmente e prima di tutto una funzione di conoscenza. Le altre due caste, la cui natura è principalmente “rajasica”, esercitano delle funzioni che, in se stesse, non superano il livello individuale e sono orientate verso l’attività esteriore [3]: quelle degli Kshatriya corrispondono a quel che si può chiamare lo “psichismo” della collettività, e quelle dei Vaishya hanno per oggetto le diverse necessità dell’ordine corporeo; da ciò risulta, secondo quanto abbiamo detto precedentemente, che gli Kshatriya devono esser soprattutto qualificati per il Bhakti-mârga e i Vaishya per il Karma-mârga, e, infatti, è proprio quel che si può constatare generalmente nelle forme iniziatiche a loro rispettivamente destinate. Vi è tuttavia un’importante osservazione da fare a questo proposito: se si intende il Karma-mârga nel suo senso più esteso, esso si definisce con lo swadharma, ossia con l’adempimento da parte di ciascun essere della funzione che è conforme alla sua natura propria; si potrebbe allora considerarne una applicazione a tutte le caste, salvo che allora questo termine sarebbe manifestamente improprio per quel che riguarda i Brâhmani, la cui funzione è in realtà al di là del dominio dell’azione; ma si potrebbe almeno applicarlo allo stesso tempo, anche se con modalità diverse, al caso degli Kshatriya e a quello dei Vaishya, ciò che è un esempio della difficoltà che si incontra, come dicevamo sopra, a separare in modo netto quel che conviene agli uni e agli altri, e difatti è noto come la Bhagavad-Gîtâ esponga un Karma-yoga specificamente adatto all’uso degli Kshatriya. Nonostante ciò, non è men vero che, se si prendono i termini in senso stretto, le iniziazioni degli Kshatriya presentano nell’insieme un carattere soprattutto “bhaktico” e quelle dei Vaishya un carattere soprattutto “karmico”, cosa che verrà tra breve meglio chiarita con un esempio preso dalle forme iniziatiche dello stesso mondo occidentale.
Va da sé, infatti, che quando parliamo delle caste come facciamo qui, riferendoci in primo luogo alla tradizione indù per comodità d’esposizione e perché essa ci fornisce al riguardo la terminologia più adeguata, quel che ne diciamo si estende ugualmente a tutto ciò che altrove corrisponde a queste caste, in una forma o nell’altra, poiché le grandi categorie in cui si ripartiscono le nature individuali degli esseri umani sono sempre e dovunque le medesime, per il fatto stesso che, ricondotte al loro principio, esse non sono altro che una risultante del predominio rispettivo dei diversi guna, cosa evidentemente applicabile all’intera umanità, come caso particolare di una legge valevole per tutto l’insieme della manifestazione universale. La sola differenza notevole è nella proporzione più o meno grande, secondo le condizioni di tempo e di luogo, di uomini appartenenti a ciascuna categoria, i quali, se qualificati a ricevere un’iniziazione, saranno di conseguenza suscettibili di seguire l’una o l’altra delle vie corrispondenti [4]; e, nei casi più estremi, può succedere che qualcuna di queste vie cessi praticamente d’esistere in un dato ambiente, se il numero di coloro che sarebbero idonei a seguirla è divenuto insufficiente a consentire la conservazione d’una forma iniziatica distinta [5]. Ciò si è verificato segnatamente in Occidente, dove ormai da lungo tempo le predisposizioni alla conoscenza sono state costantemente molto più rare e meno sviluppate della tendenza all’azione, per cui si può dire che, nell’insieme del mondo occidentale, e persino in quel che ne costituisce l’“élite” almeno relativa, rajas ha di gran lunga la meglio su sattwa; così, già nel Medio Evo, non si trovano tracce chiare dell’esistenza di forme iniziatiche propriamente “jnâniche”, che di norma avrebbero dovuto corrispondere a un’iniziazione sacerdotale; ciò a tal punto che anche le organizzazioni iniziatiche a quel tempo in più stretto rapporto con certi Ordini religiosi avevano pur sempre un carattere “bhaktico” molto accentuato, per quanto è possibile giudicare dai modi d’espressione più abitualmente impiegati da quei loro membri che lasciarono opere scritte. Per contro, si trova a quell’epoca, da una parte l’iniziazione cavalleresca, il cui carattere dominante è evidentemente “bhaktico” [6], e dall’altra le iniziazioni artigianali, che erano “karmiche” in senso stretto, essendo essenzialmente basate sull’esercizio effettivo d’un mestiere. Va da sé che la prima era un’iniziazione di Kshatriya e le seconde erano delle iniziazioni di Vaishya, prendendo la designazione delle caste secondo il significato generale da noi appena spiegato; e aggiungeremo che i legami che di fatto esistettero quasi sempre tra queste due categorie, come abbastanza spesso abbiamo avuto occasione di segnalare altrove, sono una conferma di quanto dicevamo sopra dell’impossibilità di separarle completamente. Più tardi, anche le forme “bhaktiche” disparvero, e le sole iniziazioni che ancora sussistono attualmente in Occidente sono delle iniziazioni di mestiere, o che tali erano all’origine; anche dove, in seguito a certe circostanze particolari, la pratica del mestiere non è più richiesta come condizione necessaria, ciò che del resto non può essere considerato che come una diminuzione, se non come una vera degenerazione, questo non toglie evidentemente nulla al loro carattere essenziale.
Ora, se l’esistenza esclusiva di forme iniziatiche qualificabili come “karmiche” nell’Occidente attuale è un fatto incontestabile, bisogna dire che le interpretazioni alle quali tale fatto ha dato origine non sono sempre esenti, sotto vari punti di vista, da equivoci e confusioni; è quel ci resta da esaminare per mettere a punto le cose nel modo più completo possibile. Innanzitutto, certuni hanno immaginato che, a causa del loro carattere “karmico”, le iniziazioni occidentali si oppongano in certo qual modo alle iniziazioni orientali, che, a loro modo di vedere, sarebbero tutte prettamente “jnâniche” [7]; ciò è del tutto inesatto, poiché la verità è che in Oriente coesistono tutte le categorie di forme iniziatiche, com’è d’altronde sufficientemente provato dall’insegnamento della tradizione indù a proposito dei tre mârga; se al contrario ne esiste soltanto più una in Occidente, gli è che le possibilità di quest’ordine vi si trovano ridotte al minimo. Che la predominanza vieppiù esclusiva della tendenza all’azione esteriore sia una delle cause principali di questo stato di fatto, ciò è fuor di dubbio; ma non è men vero che a dispetto dell’aggravarsi di questa tendenza sussiste ancora oggi un’iniziazione quale che sia, e sostenere il contrario implica un grave equivoco circa il reale significato della via “karmica”, come vedremo più precisamente tra breve. Inoltre, è inammissibile voler fare in certo qual modo una questione di principio di qualcosa che è soltanto l’effetto di una semplice situazione contingente, e considerare le cose come se ogni forma iniziatica occidentale dovesse necessariamente essere di tipo “karmico” solo perché occidentale; crediamo non sia necessario insistervi oltre poiché, dopo tutto quello che già abbiamo detto, deve essere abbastanza chiaro che una visione del genere non può corrispondere alla realtà, che è d’altronde evidentemente ben più complessa di quel ch’essa sembra supporre.
Un altro punto molto importante è questo: il termine Karma, quando si applica a una via o a una forma iniziatica, dev’essere inteso prima di tutto nel suo senso tecnico di “azione rituale”; a questo proposito, è facile vedere che ogni iniziazione presenta un certo lato “karmico”, poiché essa implica sempre essenzialmente il compimento di particolari riti; questo corrisponde d’altronde ancora a quanto abbiamo detto circa l’impossibilità che l’una o l’altra delle tre vie esista allo stato puro. Inoltre, e al di fuori dei riti propriamente detti, ogni azione, per essere realmente “normale”, cioè conforme all’“ordine”, dev’essere “ritualizzata”, e, come spesso abbiamo spiegato, questo avviene effettivamente in una civiltà integralmente tradizionale; anche nei casi che si potrebbero definire “misti”, in cui cioè una certa degenerazione ha portato l’introduzione del punto di vista profano e gli ha fatto un posto più o meno esteso nell’attività umana, quanto sopra rimane ancora vero, almeno per ogni azione che è in rapporto con l’iniziazione, ed è segnatamente così per tutto ciò che riguarda la pratica del mestiere nel caso delle iniziazioni artigianali [8]. Si vede che ciò è quanto mai lontano dall’idea che di una via “karmica” si fa chi pensa che, se un’organizzazione iniziatica presenta tale carattere, debba intromettersi più o meno direttamente in un’azione esteriore e tutta profana, come lo sono inevitabilmente in particolare, nelle condizioni del mondo moderno, le attività “sociali” di ogni genere. La ragione che si invoca a sostegno di questa tesi è generalmente che una tale organizzazione ha il dovere di contribuire al benessere e al miglioramento dell’umanità nel suo insieme; l’intenzione può essere molto lodevole in se stessa, ma il modo in cui se ne considera la realizzazione, anche se la si spoglia delle illusioni “progressiste” cui troppo spesso è associata, non è per ciò meno completamente erronea. Non è certo detto che un’organizzazione iniziatica non possa proporsi secondariamente uno scopo del genere, “per sovrappiù” in certo qual modo, e alla condizione di non confonderlo mai con quello che costituisce il suo scopo proprio ed essenziale; ma allora, per esercitare un’influenza sull’ambiente esterno senza cessare d’essere quel che veramente deve, occorrerà ch’essa metta in opera dei mezzi del tutto diversi da quelli che senza dubbio vengono ritenuti i soli possibili, mezzi d’un ordine molto più “sottile”, ma per questo dotati di ben altra efficacia. Sostenere il contrario significa, in definitiva, misconoscere totalmente il valore di quella che abbiamo talvolta denominato “azione di presenza”; e questa ignoranza è, nell’ordine iniziatico, paragonabile, nell’ordine exoterico e religioso, a quella, così diffusa ai giorni nostri, del ruolo degli Ordini contemplativi; in fondo, nei due casi, è una conseguenza della stessa mentalità specificamente moderna, per cui tutto ciò che non appare esteriormente e non cade sotto i sensi è come non esistesse.
Aggiungeremo ancora, mentre siamo in argomento, che esistono anche molti equivoci sulla natura delle altre due vie, soprattutto della via “bhaktica”, poiché, per quanto riguarda la via “jnânica”, è in ogni caso troppo difficile confondere la Conoscenza pura, o anche le scienze tradizionali che ne dipendono e che rientrano più propriamente nel dominio dei “piccoli misteri”, con le speculazioni della filosofia e della scienza profana. A causa del suo carattere più strettamente trascendente, è molto più facile ignorare del tutto questa via che non snaturarla con false concezioni; e anche i travestimenti come “filosofia”, da parte di certi orientalisti, che non lasciano sussistere assolutamente niente dell’essenziale e riducono tutto all’ombra vana delle “astrazioni”, equivalgono di fatto all’ignoranza pura e semplice e sono troppo distanti dalla verità per potersi imporre a chiunque abbia la minima nozione delle cose iniziatiche. Per quanto riguarda Bhakti, il caso è abbastanza differente, e qui gli errori provengono soprattutto da una confusione del senso iniziatico di questo termine col suo senso exoterico, che d’altronde, agli occhi degli Occidentali, assume quasi inevitabilmente un aspetto specificamente religioso e più o meno “mistico” che nelle tradizioni orientali non ha ragione di essere: tutto ciò non ha assolutamente niente in comune con l’iniziazione, e, se effettivamente non si trattasse d’altro, è evidente che non potrebbe esistere un Bhakti-Yoga; ma questo ci ricondurrebbe ancora una volta alla questione del misticismo e delle sue differenze essenziali con l’iniziazione, argomento che abbiamo già sufficientemente trattato in altre occasioni perché sia necessario ritornarvi nuovamente.

* R. Guénon, Initiation et Réalisation spirituelle, Éditions Traditionnelles, Paris, 1952, cap. XVIII.

1. Diciamo “sono suscettibili d’avere” poiché essi possono avere anche un senso exoterico, ma è evidente che questo non è in causa quando si tratta di Yoga; naturalmente, il senso iniziatico ne è come una trasposizione in un ordine superiore.
2. Anche qui non si dovrebbe vedere niente di esclusivo in una simile corrispondenza, poiché ogni via iniziatica, per essere realmente valida, implica necessariamente una partecipazione dell’essere tutto intero.
3. Diciamo «in se stesse» poiché esse possono essere trasformate da un’iniziazione che le prenda come supporto.
4. Per non complicare inutilmente la nostra esposizione, non facciamo intervenire qui la considerazione delle anomalie che, all’epoca attuale e soprattutto in Occidente, risultano dal «miscuglio delle caste», dalla sempre crescente difficoltà di determinare esattamente la vera natura di ogni uomo, e dal fatto che la maggior parte degli uomini non adempie più la funzione che converrebbe realmente alla propria natura.
5. Segnaliamo per inciso che questo può obbligare coloro che sono ancora qualificati per questa via a «rifugiarsi», se ci si passa l’espressione, in organizzazioni praticanti altre forme iniziatiche che primitivamente non erano fatte per essi, inconveniente che può d’altronde essere attenuato mediante un certo «adattamento» effettuato all’interno di queste stesse organizzazioni.
6. Un carattere analogo avevano altre iniziazioni come quella dei Fedeli d’Amore, come indica espressamente il suo nome, benché l’elemento «jnânico» sembri tuttavia avervi avuto uno sviluppo maggiore che non nell’iniziazione cavalleresca, con la quale d’altronde esse avevano rapporti assai stretti.
7. Si osservi che, secondo tale concezione, l’esistenza d’iniziazioni «bhaktiche» è completamente ignorata o trascurata.
8. Si potrebbe dire che, in questo caso, «karmico» è quasi sinonimo di «operativo», intendendo naturalmente quest’ultimo termine nel suo vero significato, sul quale sovente abbiamo avuto occasione di insistere.

mercoledì 5 novembre 2014

Lettere e Spirito

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Abbiamo il piacere di segnalare che la rivista di studi tradizionali Lettera e Spirito, che tratta vari aspetti della tradizione, della simbologia, della filosofia classica e della via spirituale, soprattutto attraverso contributi originali o testi di autori fondamentali quali René Guénon, Ananda K. Coomaraswamy, e altri, ha ora un'edizione italiana consultabile al seguente link:

Tutti gli articoli possono essere scaricati gratuitamente in formato pdf.

sabato 18 ottobre 2014

Miracoli di Roberto Volterri


Un libro ‘strano’, diverso, un libro in cui troverete un vasto panorama di fenomeni ‘anomali’, ‘impossibili’, insomma ‘miracolosi’, che, però, potrebbero essere inquadrati da un altro punto di vista, forse nell’ambito della Biologia, della Chimica, della Fisica. Troverete inoltre moltissime Appendici Sperimentali che vi consentiranno di cercare di riprodurre dei ‘miracoli’ molto semplici e che rientrano in qualche modo nella tematiche trattate. Non imparerete di certo a camminare sulle acque, non raggiungerete il vostro appartamento, entrando ovviamente dalla finestra, levitando fino al quarto piano, non farete impallidire Mosè facendo scaturire acqua dalla roccia, ma – si sa – viviamo tempi difficili e bisogna… accontentarsi.

Buon ’viaggio’ e buona sperimentazione!

Edito da Acacia edizioni

domenica 5 ottobre 2014

Il mistero del Graal

tratto da http://www.centrostudilaruna.it


"Venerdì santo. Nella cappella dei Cavalieri del Graal, sul “Montsalvat”, Parsifal, il “puro eroe” o “puro folle”, fa ritorno. Egli ha superato l’inconsapevolezza inerente alla sua stessa innocenza primitiva. Egli ha resistito alla lusinghe “delle fiori” e di Kundry, la bella creatura del mago Klingsor, che ottiene redenzione attraverso l’amore. La lancia del Graal che il re Amfortas aveva perduto peccando, egli l’ha riconquistata nel castello di Klingsor: è la lancia per la cui ferita sgorgò il sangue di redenzione di Gesù ma che anche piagò Amfortas, l’indegno e il lussurioso che volle accostare il Graal. Questa lancia, ora Parsifal la riporta dunque alla roccia del Graal. Al suo tocco, la ferita ardente di Amfortas scompare e il prodigio del venerdì santo si compie ancora una volta. Il Graal – che è coppa in cui Gesù bevve nell’ultima cena e che raccolse il suo sangue divino – si fa luminosa. Dall’alto scende una bianca colomba – lo Spirito Santo – fra la mistica esaltazione dei Cavalieri del Montsalvat".

Questa – come tutti sanno – è la trama del dramma mistico di Riccardo Wagner: solo attraverso il quale i più sanno qualcosa circa la leggenda del Graal. Dramma mistico al cento per cento, di un devoto languore cristiano che già provocò l’aspra rivolta del Filosofo del “superuomo” della “volontà di potenza”, di Federico Nietzsche, contro il suo amico, Riccardo Wagner. Ma quali sono le fonti da cui Wagner ha tratto il suo dramma? E quali sono le corrispondenze effettive tra tale dramma e quelle fonti?

A tale riguardo s’impone un riconoscimento suscettibile ad estendersi anche al rapporto fra le opere della “Trilogia” wagneriana col contenuto effettivo dell’antica mitologia nordica. Non vi è adeguazione. Non vi è corrispondenza. Wagner ha preso degli spunti per formar arbitrariamente un mondo d’arte e di musica che sta per sé e che, fuor dal suo valor estetico, sotto vari riguardi, fuorvia, più che non propizi, la comprensione vera dei significati più profondi celati nei miti e nelle leggende originarie.

Ciò vale anche per il Mistero del Graal. Le fonti effettive di questa leggenda, provenzali e germaniche, non concordano che scarsamente con i tratti più salienti del dramma wagneriano. Parsifal non è un “puro”, egli ha già conosciuto, e “tecnicamente”, Banchefleur e, in nome della sua vocazione cavalleresca, ha lasciato morire sua madre. Kundry non è una bella creatura demonica strumento di Klingsor ma una vecchia al servigio degli stessi cavalieri del Graal. La lancia non è mai stata rapita. In Wolfram Von Eschenbach il Graal non è una coppa, ma una pietra, e una pietra “luciferina”: in altri testi, è un singolare oggetto che appare e sparisce ed è dotato di proprio movimento senza che nulla nemmeno da lontano possa richiamare il calice dell’Eucaristia. Simboli essenziali, come la spada spezzata e la prova della spada, il re morto o in letargo e la sua resurrezione, sono stati tralasciati da Wagner. E così via. Ma oltre a tutto questo è da dirsi che il contesto dei testi ci mostra che quella del Graal non è una leggenda cristiana che alla superficie, che i suoi elementi costitutivi sono di ben altra natura e retrocedono ben più lontano.

La tradizione cattolica, infatti, nulla sa circa il Graal, e lo stesso dicasi per i primi testi del cristianesimo in genere.

La letteratura cavalleresca fiorita intorno al Graal si affolla inesplicabilmente in un breve periodo, suscita un intenso interesse e poi scompare subitamente: nessun testo è anteriore al primo quarto del XII secolo e nessuno è posteriore al primo quarto del XIII secolo. Onde, l’impressione che si ha è quella di qualcosa di sotterraneo affiorato momentaneamente, ma subito respinto e soffocato da un’altra forza: quasi al titolo di una tradizione segreta che sotto “spoglie strane” tramandava un insegnamento poco riconducibile a quello della Chiesa allo stesso modo che la posteriore letteratura dei cosiddetti Fedeli d’Amore (secondo quanto è risultato dalle ricerche del compianto Luigi Valli), o la stessa letteratura ermetico-alchemica o, infine la tradizione stessa dei Templari. E – si noti – Wolfram Von Eschenbach chiama esattamente i cavalieri del Graal “templeise”, cioè i templari...

Quando agli oggetti che figurano nella leggenda del Graal: una lancia, una coppa che da “nutrimento di vita”, o una pietra che ha il potere di designare i cavalieri atti a rivestire dignità regale – tali oggetti si ritrovano già in tradizioni precristiane. Tutti e tre, ad esempio, figurano già fra gli oggetti simbolici che, secondo una leggenda irlandese, la “razza divina” preistorica dei Tuatha avrebbe portati seco in Irlanda venendo da Avallon, un’enigmatica terra occidentale che forse è la stessa Atlantide del racconto di Platone. Vi è di più. La stessa antica tradizione romana presenta singolari corrispondenze. Numa costituì il collegio sacerdotale dei Salii a custodire un pegno, concesso dal Cielo, della grandezza dell’impero, pegnum imperii. Questi sacerdoti erano dodici – come dodici sono i principali cavalieri che custodiscono il Graal. Essi recavano una hasta o lancea, che è l’alto oggetto custodito, insieme alla coppa, da quei cavalieri. E di tale coppa, o anche della pietra regale, che è il Graal, essi hanno l’equivalente, in quanto ché ciascuno dei Salii ha, insieme alla hasta, un ancile, cioè uno scudo che però il Dumézil ha dimostrato avere il significato di recipiente che fornisce l’ambrosia, cioè un mistico nutrimento, proprio come la coppa del Graal o il recipiente dei Tuatha. E poiché, secondo questa leggenda romana, l’ancile sarebbe stato ricavato da un aerolito, o pietra divina discesa dal cielo, in ciò non solo vi è corrispondenza con la pietra regale o “fatidica” dei Tuatha (pietra che ancora oggi si conserva a Westmister e che è nera, nera come il misterioso lapis niger dei romani), ma vi è anche un motivo che riporta alla versione della leggenda del Graal secondo la quale lo stesso Graal sarebbe stato ricavato da una pietra caduta dal cielo, da uno smeraldo che ornava la fronte di Lucifero prima della sua rivolta. In più, la leggenda riferisce che, sotto tale forma, il Graal fu anche perduto da Adamo, fu riconquistato da Seth, passò in fine nelle mai di Giuseppe di Arimatea, un cavaliere ai servigi di Ponzio Pilato, il quale, dopo la morte di Gesù, lo portò in una regione che in alcuni testi reca enigmaticamente proprio il nome della regione atlantica misteriosa, patria originaria dei Tuatha, la razza divina che già aveva gli oggetti equivalenti a quelli della leggenda del Graal: nell’Avallon, insula Avallonis, l’isola bianca, ille blanche. Da qui si sviluppa un nuovo ciclo di leggende, ove le vicende dei “cavalieri celesti” alla ricerca del Gral si intrecciano con quelle della corte di Re Artù, cioè con motivi che provengono da antichissime tradizioni celtiche, se non anche druidiche.

In tutto ciò si hanno corrispondenze e connessioni che, per chi sa della logica segreta che sempre presiede alla formazione dei simboli tradizionali, non sono affatto casuali o stravaganti. La sostanza originaria della leggenda del Graal si mantiene anche nella sua successiva forma cristianizzata, in quanto ché suo motivo centrale non è più il “peccato” di Amfortas, né la “tentazione” del “puro folle”, non qualcosa di “mistico” bensì qualcosa di essenzialmente “regale” e guerriero: è il motivo del re morto e della spada spezzata da rinsaldare in connessione ad un’impresa pericolosa e mortale proposta ad un eroe, che, riuscendo, si eleva ad una dignità trascendente, contrassegnata da questa singolare formula, che si trova nell’antico testo del Merlin: "Onore e gloria e potenza e gioia sempiterna al distruttore della morte!"


Julius Evola


Articolo intitolato Il Mistero del Graal e apparso sul quotidiano Il Popolo di Roma il 30 marzo 1934. 

domenica 21 settembre 2014

Le Sorelle Fox

In collaborazione con Hesperya

tratto da http://www.hesperya.net/il-ghost-hunting/le-sorelle-fox/

 

La Nascita dello Spiritismo

di Roberta Faliva






Kate, Leah e Margaret Fox furono tre sorelle statunitensi che giocarono un ruolo fondamentale nella nascita e diffusione nei paesi anglosassoni del movimento spiritista.
Nel 1848 le due sorelle minori, Kate e Margaret, abitavano in una casa situata ad Hydesville, New York, insieme con i genitori. La casa aveva la fama di essere stregata e verso la fine di marzo di quell’anno la famiglia Fox iniziò ad essere spaventata da suoni, simili a colpi o al rumore di mobilio spostato, la cui origine sembrava essere inspiegabile.Secondo le dichiarazioni delle sorelle, durante la notte del 31 marzo, Kate avrebbe sfidato il presunto spirito autore dei rumori a ripetere lo schiocco delle sue dita, e dichiarò di averne avuto riscontro. Allora le sorelle gli avrebbero chiesto di battere tanti colpi quanti erano gli anni della loro età, e anche in questo caso, secondo loro, il presunto spirito avrebbe fatto quanto richiesto. Furono allora chiamati i vicini a testimoniare di quell’evento, e nei giorni successivi venne sviluppato una sorta di codice di comunicazione in cui i battiti era utilizzati per rispondere “sì” e “no” o per indicare precise lettere dell’alfabeto.
Kate e Margaret furono successivamente mandate nella vicina Rochester, Kate presso la sorella Leah e Margaret presso il fratello David, ma il fenomeno dei battiti le accompagnò nelle loro nuove dimore.

Le sorelle Fox divennero così presto famose e iniziarono a tenere sedute pubbliche a New York, suscitando l’interesse di scienziati e studiosi e molto presto la pratica fece il giro di tutti i più famosi salotti. C’era chi lo faceva per noia e chi per scopi di studio, infatti lo spiritismo cominciava ad essere considerato una vera e propria scienza.
In assenza dei “colpi”, per poter operare comodamente nei salotti vennero rispolverati antichi metodi di operatività psichica come quello del tavolino a tre gambe che diventerà in seguito noto come il “tavolino spiritico”. I colpi battuti dai piedi del tavolino si trovarono quindi ad essere adattati al codice di sequenza colpi-alfabeto inventato a suo tempo dalle sorelle Fox.
Era nato lo spiritismo.