domenica 21 luglio 2013

Vampiri e spettri Ecco i nonni italiani del «fantastico»

Tratto da Il Giornale del 18/07/2013

di Gianfrando De Turris

Nonostante il nostro retaggio mitico, leggendario, folklorico, favolistico che risale addirittura alla classicità per poi fiorire nel medioevo, non possiamo dire di possedere una vera e propria tradizione fantastica, considerando tale quella che si è formata e codificata in tutta Europa durante il romanticismo, e che ne ha fissato i canoni quali oggi comunemente s'intendono. Il fatto è che il nostro romanticismo è stato risorgimentale, vale a dire a sfondo politico, ed ha tagliato le gambe al recupero appunto di miti, leggende, folklore e favole nazionali come avvenne in Francia, Gran Bretagna e Germania. In più ci si mise anche la critica «ufficiale», da Francesco De Sanctis a Benedetto Croce, per dire che quel tipo di romanticismo fatto di brughiere e di «fantasime» non era adatto alla nostra «anima» classica.



Nello stesso tempo, però, non è che non esistano nella nostra storia letteraria degli ultimi due secoli temi, argomenti, spunti «fantastici». Anzi, si può dire che la tentazione del fantastico abbia colpito un po' tutti i nostri maggiori scrittori, veristi compresi, anche se saltuariamente. Più diffusa la vena sotterranea a livello di narrativa popolare, e lo sforzo di una critica aperta e intelligente dovrebbe essere quello di riportarli alla luce.
Cominciò a metà degli anni Ottanta un pioniere come Enrico Ghidetti con la sua antologia Notturno italiano, alla quale seguirono quelle curate da Lattarulo, Farnetti, Reim, D'Arcangelo e Gianfranceschi, più di recente di Foni e Gallo. Sovente però autori e storie risultano gli stessi: bisogna quindi continuare a scavare in archivi, biblioteche, collezioni di giornali e riviste sia popolari che di più alto livello. Alcuni, come il bravissimo Riccardo Valla, scomparso improvvisamente a gennaio, ci stava provando in proprio scansionando vecchi testi introvabili da mettere in Rete, compito che sembra si assumerà adesso fantascienza.com di Silvio Sosio.
Ora però, in quel di Mercogliano provincia di Avellino, ecco che è nata una piccola ma efficiente casa editrice, la Keres (www.keresedizioni.com) che sotto la direzione di Antonio Daniele si è data alla riscoperta di quello che potremmo definire il protofantastico italiano, dando alle stampe tre libri non solo di bella presenza con adeguate copertine e impostazione grafica, ma anche ben curati con note, biografie e bibliografie, foto dell'autore e documenti d'epoca, a dimostrazione di un interesse critico-storico. Particolare attenzione al mito supernazionale del vampiro in una ampia accezione, intanto con l'antologia Vampiriana (pagg. 160, euro 16) che riunisce otto racconti dal 1885 al 1917, cioè pubblicati prima che fosse tradotto in italiano (1922) il Dracula di Stoker, a dimostrazione di come ci fosse attenzione ad un tema che non è solo del gotico inglese o tedesco. E poi con due romanzi, vere e proprie riscoperte, riedite dopo un secolo e più.
Uno è il primo romanzo italiano sull'essere della notte, appunto Il vampiro. Storia vera (pagg. 238, euro 13) del barone Franco Mistrali (1833-1880), giornalista, scrittore, garibaldino e anticlericale, uscito nel 1869, che nulla deve a Stoker, anzi con la sua vampira Metella anticipa la Carmilla/Mircalla di Le Fanu, e con il suo quadro inquietante Il ritratto di Dorian Gray di Wilde. Il secondo, L'anima, curato da Gianandrea de Antonellis (pagg. 190, euro 13), uscì nel 1893 e lo scrisse Enrico Annibale Butti (1868-1912), detto «l'Ibsen italiano», ed è una storia di fantasmi, apparizioni, passioni violente umane e al di là dell'umano. In entrambi, data la cultura e la psicologia dei due autori, si scontrano scienza e fede, razionalità e irrazionalità, materia e spirito, oscillando i protagonisti fra l'incredulità di fondo e il desiderio di credere a fatti oggettivamente inspiegabili e sovrannaturali.
Vere sorprese per i lettori di oggi che cominceranno così a scoprire le radici dell'Immaginario italiano.


 

sabato 20 luglio 2013

Archeologia, trovate a Manaus (Amazzonia) urne funerarie di 2500 anni fa

Tratto da "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 9 agosto 2003

La scoperta di 270 urne funerarie di ceramica nel centro di Manus, in Brasile, conferma l’ipotesi dell’esistenza di una cultura organizzata e complessa in Amazzonia già 2500 anni fa. Le urne sono state scoperte nei giorni scorsi da operai che lavoravano in una centralissima piazza della capitale dell’Amazzonia brasiliana. Sotto uno strato di terra nera di origine organica, presente in quasi tutti i siti funerari della regione, sono state rinvenute le ceramiche, alcune delle quali in eccellente stato di conservazione, a circa due metri di profondità. Le urne sono alte circa un metro, con un diametro di 90 centimetri, e contengono le ossa di una o due persone. Secondo le prime stime, le urne risalgono ad un periodo intorno al 500 avanti Cristo. Le ceramiche analoghe più antiche scoperte finora risalivano a 1.300 anni fa, mentre l’oggetto umano più antico rinvenuto è una punta di freccia di pietra vecchia di 7.700 anni. Negli anni ’60, l’archeologo tedesco Peter Hilbert, aveva già formulato l’ipotesi dell’esistenza di una "civiltà amazzonica" di un certo livello culturale e tecnologico, ma non era stato preso sul serio.

domenica 7 luglio 2013

Il segreto di Atlantide nascosto in Sardegna

Tratto da il Giornale, 27/9/2004

Lorenzo Scandroglio

E se la mitica Atlantide fosse stata davvero la Sardegna? La domanda, rimbalzata da un angolo all'altra del mondo accademico e giù giù fin sulla bocca di tutti, ha cominciato a girare nella tarda primavera del 2002, quando, per la casa editrice romana Nur Neon, è uscito il libro di Sergio Frau Le Colonne d'Ercole, un'inchiesta.

Oggi, a due anni dalla bomba culturale di questa ipotesi, un gruppo di quindici Indiana Jones, composto da archeologi, ricercatori, direttori di musei, e un rappresentante dell'Unesco per la Sardegna, sono partiti a caccia di indizi: vogliono sapere che cosa c'è di vero in quello che dice lo scrittore-studioso Sergio Frau nel suo libro. In effetti l'ipotesi è meno strampalata di quello che sembra. Sicuramente meno strampalata di quelle sostenute dagli "ufaroli" - come li chiama lo stesso Frau -, tutti coloro che sulla leggenda dell'isola-continente sprofondata hanno sovrapposto di volta in volta gli extraterrestri, i Mu, l'Antartide e via delirando. Intanto, quasi a voler prendere le distanze da tante ciarlatanesche ipotesi che hanno usurato il nome di Atlantide, Frau parla di isola di Atlante.

Ma vediamo in sintesi come è nata l'intuizione dello scrittore di evidenti origini sarde: tutto è cominciato a partire dalle analisi geologiche di come era il Mediterraneo millenni fa, compiute da Vittorio Castellani, ordinario di Fisica stellare all'Università di Pisa. Nel libro Quando il mare sommerse l'Europa l'astrofisico spiega che nella protostoria (circa cinquemila anni fa) il livello del mar Mediterraneo era assai più basso di adesso. Ecco allora che, essendo molto inferiori le distanze fra Sicilia e Tunisia, Frau ipotizza che, confortato da geografi e viaggiatori antichi, le Colonne d'Ercole, in seguito identificate nello stretto di Gibilterra, fossero proprio là. E la Sardegna come diventa Atlantide? Ricollocando le colonne d'Ercole nel canale di Sicilia, traslocano all'interno del Mediterraneo tutti quei miti e luoghi leggendari estromessi nell'Oceano e lì lasciati in balia delle ipotesi più peregrine. Quello che più conforta la reinterpretazione fatta da Frau - come ha scritto Roberta Mocco - è che le distanze e i riferimenti geografici, che gli antichi fanno nel raccontare di queste due terre mitiche, risultano alla perfezione, cosa che non succede invece se si spostano le colonne d'Ercole a Gibilterra. Qualche difficoltà di spiegazione viene dalle date che indica Platone per dare i tempi della storia gloriosa di Atlantide. Il filosofo greco parla infatti di "novemila anni" nel passato rispetto alla sua epoca. Qui Frau si ritrova a fare l'"aggiustamento" più rilevante sulle parole degli antichi, e lo fa seguendo ancora una volta una logica che allontana dalle suggestive leggende. Non è pensabile che un popolo che usava i metalli, conoscitore della scrittura, potesse esistere nel Diecimila prima di Cristo. Peraltro è estraneo alla mentalità antica la misurazione del tempo in anni, cosa che i Greci non facevano mai. Tutto torna, invece, se si interpreta come "mesi" ciò che per secoli è stato tradotto come "anni". Un rammendo interpretativo visibile, ma motivato. In questo modo, inoltre, coinciderebbero i tempi con lo sviluppo della civiltà nuragica, il popolo "venuto dal mare", come lo chiama Platone, ossia gli Shardana, gli stessi che ritroviamo poi schiavi del faraone Ramsete. Un sospetto, questo che la Sardegna coincida con la mitica Atlantide, che ora quindici studiosi vogliono smentire o confermare. L'équipe è arrivata i giorni scorsi all'aeroporto di Elmas e per prima cosa ha voluto vedere la mostra allestita al secondo piano, nell'area riservata al check in, chiamata "Atlantikà, l'isola del mito". Pannelli e video che raccontano la storia della Sardegna come la immagina Frau. Un'isola circondata di torri, i nuraghi, come un'antica Manhattan che domina le scelte economiche, politiche e belliche del Mediterraneo. L'ha ribadito l'autorevole voce di Azzedine Beschausch, accademico di Francia, ex direttore del Patrimonio mondiale dell'umanità e ora in Sardegna come rappresentante dell'Unesco: "Siamo qui per cercare le tracce di un passato forse diverso da quello che la storia ci ha raccontato. Dire che la Sardegna in passato abbia avuto un ruolo centrale nella civiltà del Mediterraneo non è un'eresia. Gli indizi sono parecchi. Ora andiamo a cercare le conferme".


sabato 22 giugno 2013

Brevi riflessioni sulla follia di Perceval

di Vito Foschi

Nel racconto di Chrétien de Troyes, all’inizio dell’avventura, il giovane Perceval è all’oscuro di tutto, vive in uno stato quasi selvaggio accudito dalla madre e dai servitori. È giovane, sta per entrare nell’età adulta ma è come se non fosse ancora nato, addirittura non viene chiamato con il suo nome… è il puro Folle. Puro perché non contaminato dal mondo, è vissuto nella foresta ed è come se avesse continuato a vivere nel grembo materno, folle perché ignorando totalmente le regole del vivere in società il suo comportamento ai più sembra dettato da follia. Nei primi passi del romanzo abbondano gli appellativi folle, stolto, giovane selvatico. Ma nonostante la Follia o proprio grazie ad essa decide di seguire la Luce, la luce portata nel suo mondo dal bagliore delle armature dei cavalieri che egli non a caso crede angeli.

Qui mi sovviene l’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam che indica nella Follia il motore della storia, per cui nascono e muoiono imperi, città, si formano famiglie, si intraprendono viaggi, attività economiche, ecc. Il saggio, prudente qual è, rimane in casa senza gettarsi in avventure e si accontenta del suo stato e non sogna. Il Folle sogna e qui mi sovviene Lwarence D’Arabia e il suo aforisma sugli uomini che sognano. Recito a memoria. “Esistono due tipi di uomini quelli che sognano quando dormono e quelli che lo fanno ad occhi aperti. Di queste specie di uomini la seconda è la più pericolosa perché lotta per realizzare i suoi sogni”. Non sono le parole esatte, ma il senso è quello. Perceval è della specie che sogna ad occhi aperti. Vede i cavalieri e decide di diventarlo, si arma e parte senza indugiare oltre abbandonando la madre che muore di crepacuore. La vede a terra, ma non si ferma, non indugia, sferza il cavallo e corre via lontano. Un comportamento non propriamente saggio. E quando vede le tre gocce di sangue sulla neve fresca e rimane lì imbalsamato nel dolce ricordo di Biancofiore, che cosa fa se non sognare ad occhi aperti? Addirittura non si accorge dei molti cavalieri che vengono ad interrogarlo su chi era e cosa voleva, che irritati lo caricano e vengono abbattuti puntualmente da Perceval che combatte come in sogno. Una volta “sveglio” raggiunge la corte di Re Artù e chiede del siniscalco Key, con cui aveva una contesa e gli dicono che è stato proprio lui ad abbatterlo e ferirlo ad un braccio. Non si era accorto di niente, il nostro sognatore. Nel saggio di Erasmo esaminata la follia di tutta l’attività umana si giunge alla conclusione che l’unica “follia giusta” è quella in Cristo, quella dei Santi, dei Martiri, ma anche del semplice credente che in Cristo solo può trovare risposta alla follia della vita. Questa è l’idea di Erasmo, che riprende in maniera satirica il concetto di follia come massima saggezza espresso da San Paolo nella lettera ai Corinzi, non a caso citato nell’Elogio, che nonostante la sua sostanziale ortodossia, verrà tacciato di eresia, probabilmente per il suo sarcasmo sui teologi cervellotici, le critiche alla chiesa e al potere costituito, anche se il suo intento era solo di ironizzare sulla società terrena per mettere in evidenza la Verità ultraterrena. E il buon Perceval cosa fa verso la fine del romanzo incompiuto di Chrétien? Dopo aver vissuto cinque anni lontano dalla chiesa, e quindi lontano dallo spirito, vivendo mille avventure senza ritrovare il Graal incoccia in una processione di Venerdì Santo e uno dei presenti lo rimprovera del suo andare armato. Perceval stupito chiede che giorno sia e, ottenuta la risposta sente la necessità di fare penitenza e gli viene indicato un eremita e lui ci se reca prontamente. Qui riceve la sua iniziazione spirituale, ma non ci soffermeremo su questo, ma sul fatto che il Puro Folle ritorna a Dio, la sua follia nel mondo si tramuta in follia in Cristo. Dopo cinque anni di avventure, di follia umana, scopre ciò che è veramente importante la Follia del Cristo che si fece uomo per riscattare i peccati degli uomini e Perceval capito ciò è pronto a riconquistare il Graal ed essere il Folle in Cristo capace dell’estremo sacrificio per mondare il mondo dal peccato e risorgere alla vita eterna.

Naturalmente questa è l’interpretazione cristiana del racconto di Chrétien, ma non è la sola possibile dato che nel cristianesimo persistono reminiscenze di antichi culti e l’evidente presenza nel racconto di elementi celtici posta in luce da molti studiosi.

martedì 11 giugno 2013

Re Artù passò di qui -Le ultime scoperte,tra leggende e verità

tratto dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 22/7/2001

La leggenda del Re si lega a quella del Graal
Alcune tracce nella Basilica di Bari e nella cattedrale di Otranto

di Manlio Triggiani

Re Artù in Puglia? Le tracce ci sono. Non soltanto la materia di Bretagna, dove si parla appunto di Re Artù e dei dodici cavalieri della Tavola rotonda, è anticipata di un secolo almeno nell’archivolto dei leoni della Basilica di San Nicola di Bari. E questo già è un dato misterioso, soprattutto perché si tratta di una materia di rilievo nordico presente a Bari. Ma tracce ci sono anche a Otranto, porto di grande importanza nell’antichità e nel Medioevo, da dove partivano le navi del crociati dirette in Terrasanta. Punto terminale della via Traiana, fu più volte assalita dalla flotta turca e, nel 1480, sotto i1 comando di Achmed Pascià, conquistata. Vescovo, clero e popolo furono massacrati nel duomo. Due giorni dopo, il 14 agosto, sul collo della Minerva, furono decapitati 800 prigionieri superstiti, poi passati alla storia come i Martiri d’Otranto. La pietra delle decapitazioni e gli ossari delle vittime sono conservati nella cappella dei martiri della cattedrale. Una cattedrale testimone, quindi, di orrendi massacri, sul cui pavimento, realizzato con un grande mosaico di rara bellezza, c’era (e c’è) l’immagine dire Artù.
Il mosaico rappresenta l’albero della vita che si richiama ad antiche tradizioni sapienziali, fra cui quella ebraica. Secondo una leggenda, re Artù guarderebbe una porta e nel guardarla indicherebbe l’accesso a un luogo segreto dove egli riposò tre giorni e tre notti prima di affrontare un combattimento. Forse, si dice, si tratterebbe di una grotta nei pressi del castello di Otranto.
Ma dove è situato, nel mosaico, re Artù? E’ fra i personaggi dell’antico Testamento, in groppa al suo cavallo, con lo scettro, la corona, i calzari a punta. Il Frate Pantaleone realizzò, fra i1 1163 e il 1165, i1 pavimento musivo con un messaggio di carattere cristiano universalista, come in seguito fecero Gioacchino da Fiore, Pietro Abelardo, Bernardo di Chiaravalle. Gli alberi della vita sono tre e si snodano lungo le tre navate della cattedrale. I1 più importante è quello della navata centrale che poggia su due elefanti indiani che raffigurerebbero il Vecchio e il Nuovo Testamento. L’albero simboleggerebbe i1 Cristo (ma molteplici sono le interpretazioni a seconda delle tradizioni cui si fa riferimento) e fra i rami dell’albero sono rappresentati pagani, musulmani, ebrei, cristiani e personaggi della Bibbia: Noè, Abramo, re Salomone e la regina di Saba, A1essandro Magno, in Artù e tutto il creato: angeli, piante, animali. Insomma, l’albero come summa, come punto di incontro fra l’uomo e Dio.
Ma secondo un’altra lettura del mito di re Artù, Frate Pantaleone inserì questo personaggio in quanto richiama la ricerca del Graal, secondo il duplice significato di vaso sacro, simbolo di fede, e libro di pietra, simbolo di conoscenza. Nel XII secolo ricomparve la leggenda del Graal nella versione cristiana di vaso sacro che Gesù Cristo avrebbe utilizzato nell’ultima Cena o vaso sacro nel quale Giuseppe d’Arimatea raccolse i1 sangue fuoriuscito dal costato di Gesù. E la cerca del Graal ricorre nella letteratura della materia di Bretagna in quanto era uno dei maggiori ideali cavallereschi (si veda, di autori vari, il codice segreto del Graal; edito da Newton e Compton e, sempre di autori vani, Luce del Graal dalle edizioni Mediterranee). E si richiama a una simbologia molto particolare: il re Artù, come si vede nel mosaico, combatte contro un gatto. Per ritrovare il Graal bisognava essere puri e, come gli autori del Medioevo hanno tramandato, re Artù non era puro e perciò fu assalito dal gatto di Losanna, simbolo del male, del peccato. Proprio sotto le zampe posteriori del cavallo di re Artù, nel mesaico,si vede l’esito della lotta: re Artù viene disarcionato e ucciso dal felino. Sopra il re c’è un personaggio nudo, che rappresenta l’uomo puro, nuovo: si tratta di Galaad che nasce dalla morte di Artù ed è destinato a conquistare il Graal. Dal punto di vista della tradizione cristiana Artù e i dodici cavalieri simboleggiano Gesù e i dodici apostoli, Gesù, del resto, venne "per salvare l’uomo ma si addossò il peccato e da esso fu ucciso". Artù e Galaad, quindi, rappresenterebbero la morte e la rinascita, la cerca e il ritrovamento (su questo si veda di Gardner, Le misteriose origini dei re del Graal, edito da Newton Compton).
Otranto era i1 punto di incontro fra le civiltà latina e greca. Poi segui l’invasione longobarda e la città rimase fedele ai bizantini, ma la successiva occupazione normanna riaffermò la cultura occidentale senza cancellare quella greca. Un crogiuolo di culture simili, europee, che arricchirono questa importante città e la sua cattedrale, la più orientale d’Italia.

domenica 9 giugno 2013

Donnolo l'ebreo La medicina rinacque da Oria

tratto da "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 6 gennaio 2005
 
di CESARE COLAFEMMINA
 
Posta sul confine tra la Puglia bizantina e quella longobarda, Oria acccoglieva nell'alto Medioevo tra le sue mura genti dell'una e dell'altra etnia, insieme con i discendenti di ceppo latino e degli ebrei venuti dalla terra d'Israele al tempo in cui Tito ne distrusse la capitale, Gerusalemme. L'espressione più feconda di questa convivenza fu lo scienziato e filosofo Shabbetai bar Abraham detto Donnolo, fiorito nel pieno X secolo. Donnolo era sopravissuto, dodicenne, all'eccidio di Oria compiuto il 4 luglio 925 dai berberi di Giaf'ar Ahmad ibn 'Ubayd a nome del suo signore 'Ubaidallah al-Madhi, l'iniziatore della dinastia fatimita in Africa settentrionale (909-975). Fatto schiavo con altri superstiti, fu riscattato a Taranto dai parenti, mentre il resto della famiglia veniva deportata a Palermo e in Africa. Donnolo crebbe nelle dotte comunità ebraiche di Puglia e Calabria, trovando nello studio e nell'arricchimento sapienziale il rimedio alle afflizioni e alla vanità della vita. Viaggiando per le terre bizantine, Donnolo ricercò e copiò libri di medicina e di scienza composti da antichi maestri ebrei, greci, arabi, babilonesi, indiani, opere tutte che egli dice di avere letto nella loro lingua originale. Nel suo desiderio di sapere, si fece discepolo di gentili - e quindi anche di cristiani- dotti in astronomia, e in particolare di un sapiente che veniva da Babilonia, di nome Bagdash. Alla luce delle conoscenze teologiche, filosofiche e scientifiche che aveva acquisito, Donnolo concepì l'uomo come un microcosmo che riassume in sé tutte le realtà dell'universo. L'originalità del suo pensiero si trova nel suo commento al versetto del "Genesi" (1, 26), in cui Dio, accingendosi a creare l'uomo, dice: "Facciamo l'uomo a nostra immagine e nostra somiglianza". "A chi rivolge Dio queste parole? - si domanda Donnolo - Come è possibile che l'uomo possa essere immagine di Dio, che è spirito invisibile?". Ed ecco la sua risposta: Dio rivolse quelle parole all'universo, che aveva dapprima progettato e programmato e poi realizzato con la sua sapienza, associandolo quindi nella creazione dell'uomo. Questi, nella sua natura e nelle sue azioni, è perciò somigliante sia a Dio sia all'universo materiale. Somiglia a Dio, ma in scala ridottissima, per l'immortalità del suo spirito, per la sua capacità di governare, conoscere, prevedere e provvedere; somiglia all'universo materiale per la struttura del corpo e delle sue funzioni. Ma già somigliando all'universo egli assomiglia a Dio, perché Dio si rivela nella creazione. E l'uomo può risalire a Dio e comprenderlo studiando la natura. Come scrive J. Dan, la teologia è per Donnolo soprattutto una ricerca delle leggi scientifiche del cosmo. Donnolo espose nel suo Libro sapiente, una summa in cui confluirono Bibbia, mistica ebraica, scienza, filosofia (in particolare la neoplatonica) la sua visione unitaria del reale. Ed essendo primariamente medico, egli scrisse anche testi medici, che dice frutto non tanto di studi, quanto della sua personale esperienza. Il più noto è un prontuario di farmacologia, noto come Sefer Mirqahot, "Libro delle misture". Composto verso il 970, il libro descrive in venti brevi paragrafi oltre un centinaio di rimedi e il modo per prepararli. Il suo titolo per esteso e la premessa ne indicano chiaramente lo scopo: "Questo è il libro delle misture, pozioni, polveri, impiastri, unguenti e miscugli chiamati il corredo della medicina [o farmacopea] che Shabbetai il Medico, detto Donnolo figlio di Abramo, che fu deportato dalla città di Oria, ha composto per insegnare ai medici di Israele la preparazione dei farmaci secondo la scienza d'Israele e di Macedonia e sulla base della sua esperienza acquisita nell'arte della medicina, studiando e ricercando in profondità per quarant'anni, secondo la parola di Dio". Proprio per istruire con esattezza i medici, Donnolo si premura di indicare i nomi delle piante e delle erbe sia in ebraico (ma non abitualmente), sia nelle lingue parlate nelle contrade in cui operava, ossia in greco e in latino, talora in volgare. E questo ultimo aspetto fa sì che il libro di questo ebreo oritano rappresenti una delle testimonianze più antiche del volgare salentino-calabrese. A Donnolo è attribuito anche uno scritto medico intitolato Practica. Il libro, giuntoci incompleto, è un catalogo sistematico di malattie riguardanti le varie parti del corpo, e di ogni malattia viene indicato il trattamento appropriato. La lista inizia con l'emicrania e s'interrompe con l'emottìsi. Da notare che mentre l'ebraico è usato per indicare i nomi di alcune medicine e di altri mezzi di cura, tutti i nomi delle malattie e delle varie parti del corpo sono traslitterazioni dal greco e dal latino, ma per lo più dal greco. E sotto questo aspetto la Practica s'accomuna agli scritti che appartengono certamente a Donnolo, la dipendenza dei quali dal mondo culturale bizantino è evidente. Questa insigne e poliedrica personalità si è imposta di recente all'attenzione di studiosi di varie branche del sapere. Ultima espressione di tale attenzione è l'uscita nei giorni scorsi, presso l'Istituto Orientale di Napoli, di una raccolta di studi intitolata Shabbetay Donnolo. Scienza e cultura ebraica nell'Italia del secolo X. Il volume si apre con l'edizione critica del testo ebraico e la traduzione inglese del Libro delle misture a cura di L. Ferre. Seguono uno studio di S. Kotter sull'anatomia e la fisiologia in Donnolo medico e una ricerca di G. Lacerenza, che è anche il curatore del volume, sulla formazione di Donnolo e sull'originalità della sua sintesi. "Cresciuto nell'area più esposta, in quel momento - scrive Lacerenza - allo scontro fra la tradizione classica e l'affermarsi di ogni tipo di innovazioni linguistiche, culturali, religiose e scientifiche, con le sole sue forze sembra essersi portato su un piano molto più progredito rispetto agli intellettuali cristiani con cui è venuto in contatto: ambiente sì in grande fermento culturale, ma ancora troppo vincolato agli interessi religiosi". Altri studi raccolti nel volume riguardano i trattati di astrologia di Donnolo (G. B. Sarfatti), i rapporti di Donnolo con la mistica ebraica in Puglia (V. Putzu), la figura di Donnolo nello specchio della Vita del coetaneo e amico san Nilo di Rossano Calabro (F. Lazzati Laganà).

sabato 8 giugno 2013

“…E SE AVESSIMO TROVATO LA «CASA» DI DIO?”



Prima di tutto, c’è la fede, ossia la capacità degli uomini di relazionarsi a Dio.
In secondo luogo, c’è la scienza, che ricerca fatti dimostrabili.
Fede e scienza, spesso, sono considerate antagoniste.
Se chiedessimo a uno scienziato ateo e poi a un credente convinto di dimostrare, rispettivamente, l’assenza e l’esistenza di Dio, è probabile che nessuna delle due posizioni porterebbe a suo favore fatti naturali incontrovertibili.
Almeno, fino a oggi.
Il CERN (Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare) l’ha confermato: con un margine di incertezza minuscolo (una probabilità del 99,999972%) possiamo finalmente dire che il Bosone di Higgs esiste.
Di cosa si tratta? Il bosone di Higgs è una particella subatomica e, se la sua esistenza venisse effettivamente confermata, potrebbe aiutare a spiegare perché la materia ha una massa.
Insomma, si tratterebbe della particella che crea le altre: una forza creatrice da cui ogni parte della materia trarrebbe origine.
Viene da sé che parlare di “creatore” e riferire questa parola a un risultato scientifico, pone immediatamente il problema del rapporto tra la religione (intesa nel suo significato più ampio) e, appunto, la scienza.
Il Bosone di Higgs sarebbe, in sostanza, l’impronta di Dio.
La Scienza, quindi, rivelerebbe l’esistenza di un Dio effettivo, tangibile.
Un Dio che, allora, dimorerebbe nell’infinitamente piccolo, nelle regioni sub atomiche della materia.
Scienza e religione sarebbero dunque a un passo dall’incontrarsi.
Questa rivelazione non sarebbe neppure in antagonismo con le basi dogmatiche del cristianesimo.
Si legge, infatti, nel Vangelo di Luca: “Il regno di Dio non viene in maniera che si possa osservare: né si dirà: ‘Eccolo qui’, o ‘eccolo là’: poiché, ecco, il regno di Dio è dentro di voi" (Lu. 17:21).
Una conferma di questa interessante coincidenza la si ritrova anche nei testi dei papiri di Nag Hammadi, ossia antichi vangeli apocrifi scoperti in Egitto e, più precisamente, nel Vangelo di Tommaso.
Un passaggio, in particolare, di questa opera, recita così: “3. Gesù disse, «Se i vostri capi vi diranno, 'Vedete, il Regno è nei cieli', allora gli uccelli dei cieli vi precederanno. Se vi diranno, 'È nei mari', allora i pesci vi precederanno. Invece, il Regno è dentro di voi…»”.
Sarebbe sconcertante dover ammettere che l’insanabile disputa che per millenni ha contrapposto ispirati uomini di fede a scettici scienziati, possa essere risolta proprio ricorrendo all’empirismo, alla fisica quantistica.
Che, cioè, finalmente, l’uomo abbia trovato la “casa” di Dio.
E che le pareti di questa casa altro non siano che le molecole, gli atomi e le particelle infinitamente piccole.
Tutto questo confermerebbe la validità di un altro postulato scientifico: la cosiddetta progressione di Fibonacci.
Una sequenza di numeri, cioè, rispettata in natura per determinare la forma di ogni cosa:





Gli atomi, le molecole, la forma di una conchiglia o di una galassia, perfino di una nuvola in cielo non sfuggono a questa regola matematica.
Perciò Dio, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, agirebbe come un matematico, ordinando il creato secondo ferree regole aritmetiche e geometriche.
Il grande neuro-scienziato statunitense Michael Persinger ha certamente contribuito, con i suoi studi sul cervello umano, ad alimentare la teoria secondo cui la “casa” di Dio sarebbe da cercare dentro l’uomo.
Egli, infatti, ha sperimentato con successo, su un campione significativo di volontari, un casco transcranico elettromagnetico capace di provocare in chi lo indossa delle vere e proprie visioni mistiche.
L’ottanta per cento delle persone sottoposte all’esperimento hanno infatti affermato di aver avuto delle esperienze sovrannaturali, di aver “avvertito” la presenza di “entità” attorno a loro e, in molti casi, di aver addirittura visto Dio.
Alcuni metafisici suggeriscono che Dio sarebbe “caduto dal cielo” e che si stia risvegliando in ogni individuo per testimoniare se stesso mediante le proprie creature.
Come immaginare, allora, un futuro in cui la materia “divina” possa essere controllata dall’uomo, indirizzata, a livello subatomico, per rigenerare le cellule, curare malattie, sconfiggere l’invecchiamento?